Massimiliano
Tarozzi
Se,
come ha scritto Merleau-Ponty “la fenomenologia si lascia praticare e
riconoscere come maniera o come stile ed esiste come movimento ancora prima di
essere giunta a un’intera coscienza filosofica” (Merleau-Ponty, 1945, p.16),
allora è anche possibile identificare uno stile fenomenologico di ricerca in
ambito educativo.
A
differenza del paradigma e delle metodologie empiriste che possono contare su
una consolidata base teoretica e procedurale, le indicazioni che alla ricerca
educativa provengono dalla fenomenologia inducono a verificare le possibilità
di esplorazione degli orizzonti frammentari del possibile, del singolo, del
particolare. Ma anche questo tipo di esplorazione deve necessariamente
possedere quel rigore che contraddistingue ogni forma di ricerca che pretenda
di dirsi tale. L’angoscia del ricercatore fenomenologico è tutta qui. E si
gioca tra l’aspirazione a rintracciare linee di coerenza e di razionalità in
una realtà, che si sa multiforme e multidimensionale e la velleità di
abbracciare questo mondo sfuggente pur con la consapevolezza che ogni tentativo
di racchiuderlo, o anche solamente di abbracciarlo, equivale a un riduzionismo
e ad una semplificazione inaccettabili.
Cercare
nuove strade per la ricerca educativa in questa ottica conduce inevitabilmente
alla necessità di ridefinirne l'oggetto prima ancora di discutere sui metodi.
In un’ottica fenomenologica, quando si imposti una ricerca in ambito pedagogico
quello che interessa non è tanto la fotografia di una realtà, la definizione
oggettiva di un fenomeno, di comportamenti o di situazioni, quanto piuttosto
l'analisi del senso che quei fatti “oggettivi”
assumono per i soggetti e il modo in cui la coscienza di questi ultimi
“intenziona” quegli oggetti. Interessa la ricaduta che particolari fatti hanno
sul vissuto dei soggetti e non l'analisi scientifica di “meri dati di fatto”. È
pura velleità pretendere di fare della realtà
l'oggetto esclusivo della ricerca non solo educativa. Essa si presenta agli
occhi del ricercatore come una fitta selva nella quale si intrecciano grovigli
di significati che soggetti e oggetti si assegnano reciprocamente e così
facendo si costruiscono.
Nell'ambito
della ricerca interculturale ad esempio, questo comporta anche evitare il
frequente errore di riferirsi ad un preteso universo, oggettivo e omogeneo, che
va sotto la denominazione di “immigrati”, o altri termini ancora più
discriminatori come “extracomunitari” o “stranieri”, entro i quali, anche solo
un'analisi superficiale rileva un'infinita e irriducibile varietà non solo di
gruppi differenti ma anche di soggetti, diversi fra loro, e non solo per etnia
o cultura. Non solo, oggetto della ricerca non è il mondo o sue porzioni
circoscritte, misurabili e soprattutto rappresentative, ma la rappresentazione
del mondo di uno o più soggetti, e quindi il mondo-per-Mohamed, il
mondo-per-Xiao Lin, il mondo-per-Fatma.
Non
bisogna però cadere nell'equivoco che porta a pensare che la fenomenologia
sposti semplicemente l'attenzione della ricerca dall'oggetto al soggetto,
precipitando così nel caos dell'arbitrio dove qualsiasi ricerca diventa
impossibile proprio perché ogni affermazione risulta possibile e
scientificamente rilevante. Una ricerca fenomenologicamente fondata non mirerà
né all'oggetto né al soggetto, ma alla loro relazione,
cioè alla facoltà propria dell'oggetto di “rivelarsi a” e a quella della
coscienza di essere “coscienza di”. Essa va a scandagliare la capacità del
soggetto di attribuire senso al mondo, cioè la sua intenzionalità. Quest'ultima, in definitiva, è l'oggetto della
ricerca fenomenologica.
Cade
perciò ogni pretesa ingenua e positivista di ricerca di Verità, o di Leggi.
“Con la fenomenologia”, ha scritto Duccio Demetrio, “non si interpreta il
mondo, ma soltanto si cercano le tracce, gli indizi, i segni che ci consentono
di delineare, osservare e descrivere non le verità assolute, quanto le
manifestazioni appariscenti (o in ombra) di ‘cose’, ‘emozioni’, ‘circostanze’,
‘esperienze’, ‘simboli’ ” (Demetrio, 1990, p.52).
L'interesse
si sposta allora sul vissuto e il problema metodologico diviene quello di
trovare le modalità di ricostruzione della visione del mondo dei soggetti
coinvolti nella ricerca. Questo passaggio richiede al ricercatore una
disponibilità particolare all'epoché,
che non è solamente una generica disposizione all'ascolto, ma è un procedimento
teoretico, prima ancora che empatico. Si tratta di tentare di sospendere non
solo i propri pre-giudizi che condizionano la comprensione dell'altro, ma anche
la propria visione del mondo, fatta di valori e di paradigmi teorici di
riferimento. Ciò che è importante è marcare intenzionalmente il distacco.
Rifiutare l’adesione ingenua ai pregiudizi, ma riuscire a circoscriverli per
non darli per scontati. L'oggetto di una ricerca autentica e
fenomenologicamente fondata è tutto ciò che resta dopo l'epoché. Si tratta di un materiale grezzo, certo sfuggente,
costituito da tranche di vita,
frammenti di esistenza ed esperienze vissute, che per sua stessa natura si
rivela adatto allo studio in profondità di microsituazioni e non a grandi
indagini empiriche su vasta scala.
La
fenomenologia non offre soltanto un sostegno concettuale e non si limita a
scrollare criticamente le fondamenta teoriche dell'impalcatura della scienza,
ma offre anche percorsi alternativi sul piano empirico della ricerca.
Riassumendo, in base alle considerazioni svolte fin qui, si possono individuare
alcune parole chiave che rappresentano indicazioni concrete per la ricerca
applicata alle scienze sociali in generale e all’educazione in particolare.
1. Qualità. La prima grande scelta di campo
va nella direzione della ricerca qualitativa. Preferendo la dimensione
verticale dell'indagine in profondità a quella orizzontale della ricerca su
vasta scala. Essa però può essere applicata solo a microsituazioni e a
microcontesti: l'analisi si incentra sul frammento, sul particolare, sul
contingente, trascurando le grandi architetture e rinunciando alla pretesa di
raggiungere verità assolute, ma ricercando verità intersoggettive.
2. Mondo della vita. Dalla definizione
dello sfondo epistemologico tratteggiata dall'ultimo Husserl nella Crisi si può ricavare anche un'indicazione
di metodo per la ricerca. La moderna
scienza “europea” ha fallito nella sua velleitaria ricerca di una conoscenza
universale e oggettiva del mondo, e ha edificato un mondo parallelo, scritto in
caratteri matematici, che rappresenta “l'abito simbolico” che riveste il mondo
della vita. Ma la dimensione autentica in cui è gettato l'essere umano reale e
concreto non può essere studiata con i metodi formalizzati di una scienza
sedicente oggettiva, occorre utilizzare strumenti euristici alternativi capaci
di esplorare la dimensione concreta della Lebenswelt,
della storia frammentaria e quotidiana di soggetti singoli, unici e non
rappresentativi di alcuna categoria oggettiva.
3. Vissuto. L'esperienza vissuta (Erlebnis), e non l'esperienza come
sperimentazione (Erfahrung), è la
dimensione da cui scaturisce ogni intuizione e pertanto costituisce il punto di
partenza di un processo conoscitivo tipicamente fenomenologico. L'esperienza,
la vita, le storia personale acquistano così una posizione di primo piano in
una riflessione che pone il fenomeno al centro del proprio orizzonte. Questa
esperienza (Erlebnis) non coincide
con quella auspicata dall'empirismo (Erfahrung),
né ha alcunché di puro, assoluto o essenziale, ma si configura come il
correlato soggettivo della percezione del mondo, radicato nell'esistenza del
singolo, con il suo concreto e corporeo esserci.
4. Senso comune. Se l'occhio del
ricercatore si appunta sull'Erlebnis, sull'esperienza vissuta, allora
l'accento è posto più sulla vita quotidiana che non sugli eventi particolari o
eccezionali. Ribaltando i canoni della ricerca descrittiva e quantitativa, per
ciò che riguarda i fenomeni sociali, il senso comune, la quotidianità, il
sentire di chi, per usare una felice espressione introdotta da Schutz, “dà il mondo per scontato”, divengono
l'oggetto prioritario dell'indagine e non un velo che oscura la realtà. La
dimensione della normalità, in virtù dell’attenzione particolare posta sul
singolo e sul soggetto, assume i connotati dell'evento unico, eccezionale e
irrepetibile.
5. Epoché. Il processo di riduzione
eidetica, e l'epoché che ne
costituisce la parte fondamentale, possono essere visti come gli strumenti che
consentono di cogliere la dimensione del significato, del vissuto e
dell'intenzionalità. Occorre liberare la coscienza del ricercatore da tutte le
stratificazioni di giudizi e concetti, avvicinandosi asintoticamente alla sua
esperienza originaria e pre-categoriale, per poter tentare di attingere alla
visione del mondo del soggetto e poter interpretarne l'esperienza vissuta. In
questa fase si appuntano la maggior parte delle critiche alla fenomenologia.
Molti sostengono che non sia possibile cogliere la visione del mondo di un
altro. La comprensione oggettiva è un processo fortemente problematico e
impossibile da compiersi completamente, ma non è nemmeno l'obiettivo della
ricerca. Resta valida però l’indicazione di muoversi in quella direzione e di
orientare la propria azione verso quella meta, con la consapevolezza che si
tratta di niente di più che un'idea regolativa.
Ma
l'atteggiamento dell'epoché ha anche
un'altra importante implicazione nella ricerca in contesti multiculturali.
Oltre al suo significato teoretico, sospendere il giudizio significa anche
riconoscere prima, e distaccarsi poi, dai propri pregiudizi e preconcetti che
inevitabilmente si presentano quando la differenza fra ricercatore e ricercato
sia anche etnico-culturale. Riconoscere la parte pregiudiziale della propria
visione del mondo è il primo necessario passo per potersene distaccare.
L’orgogliosa presa di distanza sa ogni ideologia razzista da parte del
ricercatore può nascondere remoti recessi di pregiudizio implicito che
inevitabilmente inquinerà la comprensione dell’altro.
6. Entropatia. La relazione
tra ricercatore e ricercato è prima di tutto una relazione umana il cui valore
è centrale dal punto di vista fenomenologico. L'entropatia non è solo il
riconoscimento dell'alterità attraverso l'assegnazione di una soggettività ad
un corpo estraneo percepito come simile al mio come la definiva Husserl, ma è
anche una modalità di relazione a livello emotivo e interpersonale che ha nell'epoché il proprio corrispettivo
teoretico. Ci si può avvicinare ad una comprensione dell'altro solamente
attraverso uno sforzo di decentramento e di coinvolgimento personale ed
esistenziale del ricercatore nella propria azione.
7. Intenzionalità. I soggetti assegnano un
significato ai vari eventi della vita quotidiana e al tempo stesso la loro
coscienza subisce un'influenza da essi. Il ricercatore presta attenzione alle
modalità attraverso cui questo processo avviene. In altri termini si tratta di
vedere in che modo i soggetti danno un significato, ossia intenzionano gli
oggetti, gli altri soggetti e se stessi. Gli oggetti non sono là, nella natura; non sono cose, ma sono in noi. Questo
comporta non poche implicazioni nell'interpretazione dei dati di una ricerca.
Husserl nelle Idee I dice: “L'albero
puro e semplice può bruciare, l'albero percepito non può bruciare” (Husserl,
1950, § 89, p.203). Parafrasando si può forse affermare che “i dati puri e
semplici possono non essere validi e attendibili, dati percepiti non possono”.
8. Riflessività. Il coinvolgimento
entropatico di cui si parlava più sopra, spinge il ricercatore a far parte
della ricerca stessa. Questa importante dimensione introdotta da Schutz (1934)
sottolinea come il ricercatore, in quanto soggetto, non sia un osservatore
esterno di fenomeni, ma sia partecipe di quel contesto in cui si muove e che
contribuisce a creare attraverso la sua intenzionalità. Egli inevitabilmente
influenza l'ambiente, e la descrizione della quantità e della qualità della sua
influenza diviene essa stessa oggetto di ricerca. Le ricerche empiriche
tradizionali considerano la presenza del ricercatore un elemento che inquina la
validità dell’indagine e quindi come qualcosa da eliminare e tuttavia questa
amputazione porta alle conseguenze tanto innaturali da risultare paradossali
che ha notato sottilmente Morin: “Quando lo studioso scaccia dalla sua mente le
preoccupazioni della carriera, le gelosie e le rivalità professionali, sua
moglie e la sua amante, per chinarsi sulle sue cavie, il soggetto di colpo si
annulla, attraverso un fenomeno incredibile quanto lo sarebbe il passaggio da
un universo all'altro attraverso l'iperspazio in un racconto di fantascienza”
(Morin, 1990, p.39). Questo ha un'importantissima ricaduta sulla metodologia di
ricerca[1]
in quanto, da questo punto di vista, il ricercatore, e la propria visione del
mondo divengono centrali nel processo descrittivo e il retroterra culturale e
anche biografico del ricercatore si fanno elementi imprescindibili nella
ricerca. Lo scienziato sociale che fa dell’esperienza il suo proprio ambito di
osservazione si rende immediatamente conto della limitatezza e della parzialità
del proprio punto di vista. Si rende conto che l’oggetto dei propri studi non è
una chimerica analisi della realtà, ma l’oggetto sono “io che analizzo la
realtà”.
9. Interpretazione. Il ricercatore è
coinvolto nel medesimo processo intenzionale dei soggetti della ricerca. La
dimensione interpretativa diviene prioritaria rispetto a quella descrittiva o a
quella eziologica. Non si tratta di condurre un processo euristico che porti
alla scoperta di leggi. Ma di affinare gli strumenti per interpretare il modo
in cui i soggetti creano, modificano e interpretano a loro volta se stessi e il
mondo. La difficoltà principale del ricercatore qualitativo, perciò, non è
tanto nelle procedure di raccolta dei dati o nella loro organizzazione, ma
principalmente nella loro interpretazione. Infatti la distinzione tra
qualitativo e quantitativo nella metodologia di ricerca può essere espressa,
forse più efficacemente, come la distinzione tra una metodologia
“interpretativa” contrapposta alla “descrittiva”.
10.
Riorientamento/Ridefinizione. Una
ricerca fenomenologicamente fondata non può partire da ipotesi, né può sperare
di verificarne la validità empiricamente e nemmeno può seguire fedelmente le
tappe prescritte da un metodo scientifico. Può e deve partire da una progettualità,
da una intuizione iniziale, ma necessariamente è portata a rivedere
costantemente gli obiettivi, le strategie e i metodi in itinere. Essi non sono mai dati una volta per tutte, ma devono
essere continuamente monitorati e ridirezionati a seconda degli stimoli che la
situazione volta a volta fa emergere.
Lo stile fenomenologico nella ricerca in educazione
si rivela particolarmente efficace nella ricerca in ambito interculturale. In
Gran Bretagna, ad esempio, molte critiche sono state mosse ad uno studio
sociologico che voleva mostrare empiricamente come in una scuola multietnica di
una grande città inglese non vi fosse razzismo da parte degli insegnanti, né
che vi fossero pratiche discriminatorie nei confronti di allievi appartenenti a
minoranze etniche[2].
Non solo. Lo stesso autore, in scritti successivi[3],
ha voluto dimostrare che le principali ricerche che avevano evidenziato la
presenza di atteggiamenti razzisti nelle scuole britanniche soffrivano di
rilevanti difetti metodologici, che ne precludevano la validità. Foster
rilevava, ad esempio, una non precisa definizione della nozione di “razzismo”,
riteneva discutibili le motivazioni addotte per spiegare le ragioni di
comportamenti razzisti da parte di insegnanti, e soprattutto osservava che
l’insufficiente numero di esempi riportati non consente di indurre da essi una
teoria generale. Queste teorie hanno scatenato un vivace dibattito soprattutto
fra i sociologi dell’educazione “militanti” sulle implicazioni politiche e
ideologiche che investono i risultati della ricerca. Al di là delle pur
interessanti considerazioni sulle implicazioni etiche del ricercatore in ambito
multiculturale (Troyna, Carrington, 1989), quello che interessa qui rilevare
tra le critiche rivolte agli studi di Foster, è quella che si riferisce al suo
ricorso a metodologie empiriche che presuppongono un’epistemologia di tipo
“fondativo” (Hammersley, 1993). Questo paradigma pretende di poter raggiungere
verità oggettive in quanto basate su una procedura rigorosa e su di un sistema
di evidenze la cui validità è fuori discussione.
Dunque
questa disputa mette in evidenza come un approccio empirista e pretese
fondative che tendono a irrigidire la realtà, si rendano incapaci di registrare
discriminazioni e razzismo, o addirittura contribuiscano al loro rafforzamento.
Dunque si comincia a comprendere le ragioni che
rendono un paradigma fenomenologico-ermeneutico particolarmente adatto a
esplorare gli ambiti di frontiera e gli intrecci di rapporti interculturali che
li popolano.
La differenza culturale è una dimensione umana che
si rende trasparente solo ad uno sguardo interpretativo e sfugge ad ogni
tentativo di spiegazione univoca e oggettiva. Considerando l’essere umano un
animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha intessuto,
Clifford Geertz ha scritto: “credo che la cultura consista in queste reti e che
perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di
leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato” (Geertz, 1973.
p.41).
Innanzitutto,
in senso molto generale, un approccio ermeneutico e le metodologie qualitative
che ne derivano, consentono la comprensione del diverso, che invece sfugge, o
addirittura invalida un approccio di tipo oggettivistico. Le metodologie
oggettivistiche e quantitative, infatti, sono orientate a scoprire le leggi
universali sottese ai fenomeni. In questo modo non può essere compreso ciò che
non è coerente, ciò che non rientra in una pre-fissata categoria oggettiva. Ma
la differenza, ogni differenza, per definizione rompe questo schema. Al
contrario, l'attenzione al soggetto, alla sua capacità di intenzionare la
realtà, è una prima importante scelta di campo che orienta il lavoro di ricerca
nella direzione dell'accettazione della differenza, della sua specificità e
della sua particolarità. L'approccio fenomenologico ermeneutico si oppone a
ogni visione di ricerca che escluda il singolo, l'individuo, l’uomo e la donna.
Occuparsi di intenzionalità piuttosto che di dati di fatto, cioè della capacità
del singolo di attribuire un senso a quei dati di fatto, significa poter porre
l'accento non sulla norma, ma semmai sullo scarto da essa, sull'eccezione
piuttosto che sulla regola. In una prospettiva ermeneutica, infatti, il “normale”
è l'eccezionale; anzi, viene svuotata
di senso la stessa nozione di normalità, in
nome della quale sono stati commessi infiniti atti discriminatori nei confronti
di tutte le differenze: di genere, di classe, di età e, ovviamente, etnica e
culturale[4].
In definitiva, nell'ottica fenomenologica, è possibile mettere in primo piano
fenomeni e dettagli che in una ricerca di tipo oggettivistico resterebbero
inevitabilmente in ombra.
In
secondo luogo, mentre le metodologie quantitative si limitano a descrivere la
superficie dei fenomeni che analizzano, a fotografare la realtà numerica e
quantitativa delle cose, l'approccio ermeneutico, tenta di andare oltre la
superficie per cercare di scoprire cosa ci sia dietro, e soprattutto intorno,
ad essi. Una ricerca sui pregiudizi razzisti di alcuni insegnanti nelle scuole
affrontata con metodologie quantitative si limiterà a definire il quadro
statistico degli episodi e tenterà si trarre delle considerazioni generali dai
dati statistici raccolti: la frequenza degli episodi, il rapporto fra essi e le
zone geografiche, l'età, il sesso e l'etnia degli studenti, degli insegnanti,
il tipo di scuola ecc. Invece, fattori
ambigui come l'analisi delle radici di questi atteggiamenti, il loro
significato, la loro collocazione all'interno della visione del mondo del
soggetto possono essere ricostruiti solo attraverso il ricorso a metodi
qualitativi. Un esempio concreto e illuminante di questo può essere trovato in
una ricerca condotta in Inghilterra recentemente (Denscombe et al., 1993).
Un'indagine tipicamente quantitativa che prevedeva la somministrazione di test
sociometrici in due classi multietniche di una primary school aveva dimostrato che, a differenza dell’impressione
degli insegnanti, la scelta delle amicizie degli allievi (7-11 anni; 40% di
allievi provenienti dall'Asia meridionale e di religione Hindu, Sikh, Musulmana
e Buddista) seguiva l'appartenenza ai gruppi etnici e allo stesso credo
religioso ed erano scarsi i rapporti interetnici spontanei tra i bambini.
Immediatamente dopo un’altra
ricerca, questa volta di tipo qualitativo, condotta con il metodo
dell'osservazione partecipante nelle medesime classi e nel medesimo anno
scolastico, rivelava dati completamente opposti alla rivelazione sociometrica.
Le scelte spontanee dei ragazzi nei lavori di gruppo, nelle attività didattiche
e in quelle di gioco libero, erano assolutamente indipendenti dall'appartenenza
etnica e religiosa (confermando in tal modo l’impressione che avevano avuto gli
insegnanti). Questo esempio rivela la difficoltà per i metodi rigidamente
quantitativi di comprendere situazioni complesse come le relazioni, e di
maneggiare nozioni sfuggenti come “amicizia”, ma anche come “appartenenza
etnica e religiosa”.
Inoltre,
se le ricerche non sono mirate direttamente allo studio delle relazioni
interetniche, difficilmente la variabile etnica o culturale viene tenuta in
considerazione nelle analisi statistiche di tipo quantitativo (come ad esempio
i censimenti), ma viene assorbita nella norma spersonalizzata e oggettiva (che
però non è mai neutra, ma riguarda il gruppo etnico e sociale dominante).
Questa “invisibilità” di alcune differenze (per molti versi è lo stesso anche
per la differenza di genere), questa uguaglianza ridotta ad un appiattimento si
di un minimo comune denominatore, non è solo ideologicamente inaccettabile, ma
falsifica i dati stessi della ricerca.
In
terzo luogo la rilevanza della nozione su accennata di riflessività nella
ricerca interculturale diviene immediatamente evidente quando si pensi alle
implicazioni che inevitabilmente ha la differenza etnica e culturale del
ricercatore che si occupa di un gruppo etnico diverso dal suo. La ricerca non è
mai neutra o disinteressata, soprattutto in ambiti come questo in cui le scelte
ideologiche assumono una profonda rilevanza (Troyna, Carrington, 1989). Il
ricercatore vi si predispone con tutta la sua autobiografia, i suoi interessi,
le sue convinzioni, le sue idee. In ambito interculturale, ad esempio, ci si
può chiedere perché sia stata condotta proprio quella ricerca e non un’altra;
ed anche come la stessa ricerca sarebbe stata condotta da un ricercatore bianco
e da uno nero, oppure da un ricercatore razzista, o da uno antirazzista.
Il
genere, la classe sociale e forse più di tutti l’etnia, determinano a priori i
ruoli tra ricercatore e ricercato in maniera così diffusa che l’aspetto
riflessivo entra potentemente all’interno della ricerca anche se non lo si
volesse tenere in considerazione. Ad esempio, una ricerca sulle esperienze
scolastiche e sulle aspirazioni di carriera di adolescenti e giovani
afro-caraibici in Inghilterra prevedeva la raccolta di testimonianze attraverso
interviste di gruppo condotte in vari luoghi di aggregazione giovanile (Scott,
1992). Il ricercatore, bianco della classe media, durante alcune delle
interviste è stato energicamente contestato e le risposte alle domande hanno
risentito fortemente della percezione che un gruppo di neri caraibici
disoccupati aveva di lui e dell'oggetto della sua ricerca. In questo caso
l'esperienza e la biografia del ricercatore e le sue impressioni del momento
(accuratamente annotate e riportante nella ricerca) si sono rivelate essenziali
per comprendere le conclusioni che sono emerse a proposito dei soggetti
intervistati. La percezione del ricercatore degli altri e la percezione che gli
altri avevano di lui sono divenute esse stesse oggetti di ricerca e si sono
rivelate preziosissimi strumenti euristici. Perciò le note e le riflessioni, o
il diario compilato durante la ricerca sono dati altrettanto importanti di
quelli che il ricercatore raccoglie attraverso i metodi esplorativi.
Infine,
volendo analizzare differenze culturali è impensabile (e nemmeno auspicabile)
che il ricercatore possa relazionarsi con il soggetto altro prescindendo dalla
propria cultura. In realtà è proprio ascoltando fino in fondo le voci più
intime della propria cultura che diviene possibile tracciare una mappa delle
differenze culturali (Sclavi, 1994, p.16) e predisporsi ad un ascolto autentico
dell’esperienza dell’altro.
Tra
i metodi di ricerca coerenti con il paradigma sin qui sommariamente delineato e
quindi particolarmente adatti all’esplorazione di contesti multiculturali,
spiccano i metodi narrativi. Con
questa accezione si vogliono intendere tutti quei metodi coerenti con il
pensiero narrativo (Lyotard, 1974; Bruner, 1990; Smorti, 1994; Jedlowski, 1994)
che riconsegna valore scientifico ad ambiti dell’agire umano come l’esperienza,
il senso comune, la quotidianità, normalmente considerati marginali. Questi
ambiti si prestano ad essere “raccontati” attraverso un linguaggio retorico e
connotativo, più che da uno logico e denotativo.
Ecco
perché il metodo auto/biografico, la narrazione di storie di vita, rappresenta
un mezzo eccellente di indagine in ambito multiculturale.
Raccogliere
storie di vita è sempre un ricomporre frammenti di vita attraverso due livelli.
Al primo il soggetto ricompone la propria storia , e lo fa attraverso una
salutare “bilocazione cognitiva” che lo porta a separare il sé che si racconta
dal sé che ha vissuto. Al secondo livello il biografo interpreta questa
interpretazione, aggiungendoci del suo: “L’interpretazione in campo biografico
consiste dunque, sempre, nella sincresi di due mondi: quello del biografo - con
la sua storia mentale e culturale - e quello di colui sul quale ha scritto o
narrato” (Demetrio, 1995, p.15). Ne risulta un intreccio di spaccati, visioni
del mondo, barlumi di emozioni, giudizi e pregiudizi parziali avviluppati
intorno ad un nucleo centrale di eventi che, in fin dei conti, costituisce una
rappresentazione della realtà molto più aderente di qualsiasi “verità
scientifica”.
Questa
rappresentazione si rivela poi particolarmente indicata quando il soggetto che
si racconta appartenga ad una cultura differente, e perciò la propria visione
del mondo e i propri quadri concettuali di riferimento dipendano da un'altra
cultura. In questo caso il primo livello, della bilocazione cognitiva, diventa
nell’appartenente ad una minoranza etnica, una prova, anche dolorosa ma sempre
formativa, di rilettura della propria cultura d’origine dal punto di vista
della nuova cultura nella quale è immerso. Un percorso accidentato che si gioca
lungo i percorsi di nostalgia o oblio. Anche il secondo livello,
l’interpretazione del biografo, è culturalmente connotato, perché coinvolge la
possibilità di traduzione dell’esperienza vissuta tra due culture spesso
lontanissime. Il biografo attento dovrà cercare di evitare di filtrare la
biografia dell’altro attraverso il proprio schema culturale, mediante una
continua e consapevole tensione autoriflessiva che lo porti non tanto a
limitare l’invasività, quanto ad esserne sempre consapevole.
Ma
vi è un altro rischio, reso ancora più acuto quando la ricerca biografica si
collochi su di un confine anche culturale e che dovrebbe indurre il ricercatore
biografo a procedere con estrema cautela. Il rischio è quello di eccedere, di
sostituirsi al soggetto e ricomporre i pezzi di una storia che non può che
essere frammentaria, facendone un prodotto finito di cui lui è l’unico autore.
La nozione di riflessività di cui si è parlato in precedenza consente al
ricercatore attento di tenere bene in considerazione il proprio punto di vista
in quanto facente parte del processo di ricerca, ma senza che esso prenda il
sopravvento sulla storia di vita dell’altro e pretenda di darle quell’ordine
che non potrebbe avere.
L’atteggiamento
riflessivo del ricercatore-ermeneuta ci ricorda che ciò che interessa nella
raccolta di storie di vita non sono i fatti in sé, ma come quei fatti vengono
intenzionati dal soggetto, la ricaduta che essi hanno sul vissuto e i modi in
cui quel vissuto può essere colto da un osservatore esterno.
L’auto/biografia
che si presenta al ricercatore, è sempre un testo aggrovigliato che sottende
una molteplicità di sé e manca di un centro unitario. Infatti il sé ha sempre
una dimensione plurale ed è composto da una moltitudine di io separati che solo
un pensiero coerente con la tradizione razionalistica e discorsiva occidentale
ci fa percepire come unitario[5].
Così,
nelle biografie che si leggono, si è propensi a intravedere un solo sé che
funge da centro della narrazione e dà ad essa una struttura ed una forma
unitarie. Come ha osservato Norman Denzin, rifacendosi all'ipotesi
decostruzionista di Jacques Derrida: “non c'è nessuna persona ‘reale’ dietro il
testo, eccetto colui o colei che esiste in un altro sistema di discorso”
(Denzin, 1989, p.22).
Credere
che in ogni testo ci sia un’unità di significato, un centro organizzatore degli
eventi e nelle biografie questo perno sia costituito dal Sé che si racconta o
che è narrato è il frutto della semplificazione logocentrica tipica del
pensiero essenzialista ancora di derivazione positivista. Inoltre questo
appiattimento del sé su di un’unica dimensione significa perdere la potente
risorsa sia euristica che formativa dell’identità plurale. Infatti, quello
sforzo di “bilocazione cognitiva” e culturale su accennato mette in grado di
comprendere la molteplicità dell’identità prendendo coscienza della capacità di
sdoppiarsi senza perdersi, ma anzi cogliendo i vantaggi che derivano dalla
consapevolezza di avere un’identità plurale (Demetrio, 1994). Questa
consapevolezza che facilita il contatto con una propria intima ricchezza,
spesso dimenticata, si rivela immediatamente come particolarmente importante
per immigrati o appartenenti a minoranze etniche, la cui identità d’origine
viene sospinta in un angolo remoto della coscienza dai messaggi negativi che la
società ospitante continuamente rimanda loro, minandone così l’autostima. Ecco
che “l’identità narrativa” di cui parla Bruner (1990), cioè quella che si
moltiplica per narrare di se stessa, e che una ricerca biografica disvela e
stimola ad utilizzare, diviene strumento non solo di esplorazione a fini di
ricerca, ma anche, necessariamente, di formazione. Due dimensioni, ricerca e
formazione, i cui rimandi reciproci sono talmente frequenti e intensi da non
poter essere più separati all’interno del metodo biografico.
Bertolini Piero (1988), L’esistere pedagogico, Firenze, La Nuova Italia
Bruner Jerome (1990), La ricerca del significato. Per una
psicologia culturale, Torino, Bollati Boringhieri, 1992
Demetrio Duccio, (1995), Per una didattica dell’intelligenza, Il
metodo autobiogafico nello sviluppo cognitivo, Milano, Franco Angeli
Demetrio Duccio (1994), La ricerca autobiografica come cura di sé e
processo cognitivo, in “Animazione sociale”, giugno/luglio, n.6/7, pp.10-18
Demetrio Duccio, (1990), L'età adulta, Roma, La Nuova Italia
Scientifica
Denscombe M., H. Szulc,
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[1]La nozione di riflessività è stata di recente rivalutata dagli studiosi in ambito costruttivista per le ricadute epistemologiche che comporta il considerare ogni atto euristico un’estensione della soggettività del ricercatore (Steier, 1991)
[2] Foster Peter, Policy and Practice in Multicultural and Anti-Racist Education, London, Routledge, 1990
[3]Foster Peter, Cases not proven: An evaluation of two studies of teacher racism, in “British Educational Journal”, Vol.16, n.4, 1990, pp.335-348; Id., Some problems in identifying racial/ethnic equality and inequality in schools, in “British Journal of Sociology”, Vol.44, n.3, pp.___
[4]Per questo stesso motivo, al termine “diverso” è da preferirsi quello di “differente”, in quanto il primo, etimologicamente, sottintende il significato di “divergere da”, e presuppone quindi l'esistenza di una norma dalla quale alcuni fenomeni si discostano.
[5]In questo senso è ricca di stimoli la riflessione che il Buddismo Mahayana ha fatto intorno all’assenza del Sé con la dottrina anatta, sottilmente spiegata nel II sec. d.C. da Nagarjuna, per mostrare la necessità di superare l’attaccamento ad una visione egocentrica e autocentrata dell’io, causa principale della sofferenza umana, oltre che della violenza delle relazioni interpersonali (cfr. anche Varela et al.,1991).