19. Cambio di secolo e fine della
postmodernità. (T.T.Waring, 2 agosto 2001)
Verso la fine dell’800, nell’Estetismo e nel Decadentismo, si
manifestarono atteggiamenti culturali che prefiguravano alcuni tratti
della postmodernità, caratterizzanti la fine del secolo successivo.
Per esempio l’elogio della menzogna prefigura la realtà come
finzione, la critica come opera d’arte anticipa la lettura come
riscrittura, l’esotismo precorre la contaminazione interculturale.
Il postmoderno a sua volta sembra nascere sulla coscienza
della propria precarietà e sull’incapacità o il rifiuto di
ipotizzare un’antropologia del futuro. Infatti un’altra analogia
rilevante, tra i due passaggi di secolo, è che ciò che appariva
decadenza alla fine del 19° secolo, appena inizia il secolo
successivo, cambia nome e diventa avanguardia e
modernismo.
È anche vero che il senso di un mutamento epocale viene
percepito più nettamente dopo la Prima Guerra Mondiale e il crollo
degli Imperi Centrali. Alla fine del ‘900 il crollo epocale è quello
del Muro di Berlino nell’89, che chiude in anticipo il cosiddetto
“secolo breve”, e porta tutta una serie di guerre “glocali”,
(conseguenze locali della globalizzazione), come quelle della
Cecenia e dei Balcani.
Con l’inizio del 21° secolo, tutto ciò che prima era
disgregazione e cultura della fine, cambia di segno e, per quanto
controverso, si converte e si apre come orizzonte dell’inizio. Tecnologia e
globalizzazione non sono più affrontate in una prospettiva di
confronto col passato, per evidenziare i danni arrecati ai modelli
di un umanesimo idealizzato, ma sono discusse per calcolare vantaggi
e svantaggi della loro inevitabilità. Anche i movimenti
anti-globalizzazione sono in realtà portatori di istanze di classe
del nuovo proletariato tecnico-intellettuale dei paesi sviluppati,
che cominciano a temere a loro volta di perdere la remunerazione del lavoro
deterritorializzato.
Il postmoderno era una prospettiva storica appiattita
sull’eterno presente e sulla mancanza di strutturazioni gerarchiche
men che fluide. Scemato ogni fondamento d’autorità,
l'attenzione ordinativa ne cerca
traccia nella disseminazione cronologica
del calendario. La fine della storia lineare conferiva al tempo un nuovo
tipo di ciclicità, che riaffiorava in forma d’anniversari, perché il
passato non era più riutilizzabile, se non per una celebrazione
cultuale mercificata, dalle commemorazioni ai convegni, dalle mostre
alle t-shirt.
La fine del 20° secolo è infatti affollata di commemorazioni
che mercificano ciò che resta della storia, escogitando eventi e spalmando cultura su
ogni luogo, ma non vede l’ora di voltar pagina. La celebrazione
dell’Anno Duemila, come falso inizio del nuovo millennio, è un
fraintendimento sintomatico della fretta di finire un’epoca che non
sopporta di aver elaborato la coscienza della propria
obsolescenza.
Lo spartiacque del millennio vede il mutare del
significato degli eventi, nel passaggio dagli anniversari
commemorativi, volti a lucrare sul passato, alla ricorrenza di nuovi
momenti di ritualità pubblica, volti a far emergere il futuro. I G8
diventano il primo esempio di corsa alla visibilità per l’avvenire,
vetrine in cui giustamente tutti vogliono entrare, o per erigersi a
costruttori del nuovo ordine planetario, o per cercare di
condizionarlo.
In questo rinnovarsi di paradigmi economici
e culturali, la visibilità del sangue, sfuggita di mano ai presunti
maghi-padroni della comunicazione, segna anche la fine di quella
teorizzazione postmoderna che predicava l’onnipotenza derealizzante dei
simulacri. La concretezza dei morti e la vicinanza degli orrori
(Genova non è Seattle, almeno per gli europei) toglie spazio al
potere della manipolazione, e rompe le vetrine metaforiche, più di
quelle reali.
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