1. Il genere e i suoi nemici

         1.1 Inevitabilità dei generi
          1.2 I nemici estetici
          1.3 I nemici tassonomici
          1.4 I nemici tecnologici
          1.5 Produzione mimetica
          1.6 Essenza e artifizio
          1.7 Teleologia e pragmatismo

 

 

 

 

1 Inevitabilità dei generi.

In tutte le pratiche culturali si dà per implicita l’esistenza di generi. Tutti siamo capaci di distinguere per esempio una minaccia da una promessa, la musica pop dalla musica classica, un trattato di matematica da un sermone.

Il genere letterario, come le categorie o come il significato delle parole, è uno spazio semantico categoriale, in cui si collocano virtualmente le singole opere, pur essendo tutte diverse tra loro, così come ad esempio il significato della parola “cane” comprende tutti i cani, che in realtà sono tutti diversi, non solo per razza, ma anche in quanto individui. Questo inserimento delle singole opere nel genere avviene per un patto tacito tra lettore e scrittore con modalità e criteri che discuteremo.

Col modernismo però i generi sono passati di moda, sono stati trascurati, principalmente perché il modernismo tende ad apprezzare, e quindi a mettere in evidenza, gli elementi di originalità, e non quelli che permettono la riconoscibilità delle opere. Vediamo quindi ora quali sono i motivi principali per cui il genere viene svalutato dai suoi nemici.

 

   

1.2. I nemici estetici


I nemici più accaniti e tradizionali del genere sono coloro che hanno la mistica dell’unicità e quindi dell’ineffabilità della poesia, fra i quali ad esempio Croce e Dewey. Per Croce parlare di genere letterario significa passare dal dominio dell’estetica a quello della logica, ed è considerato perciò un “errore intellettualistico”. Anche Dewey sostiene l’irrelazionalità dell’opera d’arte, e il carattere qualitativamente unico e integrale dell’esperienza di un prodotto artistico. I generi perciò vengono considerati esteticamente irrilevanti, e ad essi si contrappone l’esperienza diretta dell’opera d’arte.

 

A questo proposito occorre dire che, per quanto riguarda il rapporto tra esperienza e intellettualità, il prodotto artistico non è diverso da qualsiasi altro oggetto. Una cosa è leggere un romanzo e una cosa diversa è parlare del romanzo che abbiamo letto. Anche se leggere un romanzo fosse un’esperienza soltanto estetica, quando poi se ne deve parlare svolgiamo un’attività intellettuale. In realtà tutte le cose, e anche le opere artistiche, sono sempre oggetto di esperienza e insieme di elaborazione intellettuale. Di ciò di cui non è possibile capire assolutamente nulla non ci accorgiamo nemmeno. Persino il mistero è un concetto, e ciò che è misterioso è percepito come tale in base a precise caratteristiche cognitive, sebbene espresse per via negativa, come mancanza di esplicabilità, o di configurazione logica, ma non come mancanza di caratteristiche percepibili come tali.

 

Di tutte le esperienze e le sensazioni è possibile che ci sia una parte inesprimibile, ma quella parte che di esse si esprime deve per forza diventare comunicabile attraverso una categorizzazione semantica. Il cosiddetto “errore intellettualistico” non è perciò un errore, ma una condizione inevitabile dell’esperienza umana. L’uomo è animale culturale, che non può evitare di parlare di tutte le sue realtà, anche quelle che sembrano più irriflesse e istintive.

 

Dire perciò che i generi letterari hanno solo una funzione pratica e classificatoria, ma esteticamente irrilevante, è insieme vero e sbagliato. Da un lato è vero che i generi servono ad ordinare i fenomeni artistici, raggruppandoli secondo certi criteri. È vero che i generi non sembrano avere una funzione apprezzativa, cioè servono a capire che un romanzo è un romanzo e non è una poesia, ma non ci dicono se quel romanzo è bello o brutto. Ma pur accettando provvisoriamente questo limite alla funzione dei generi, potremmo accontentarci di questa utilità descrittiva e classificatoria, puramente tecnica e non valutativa, dicendo appunto che non bisogna confondere la comprensione della natura artistica di un oggetto, col giudizio di valore su di esso. Quindi separiamo la classificazione dalla valutazione.

 

Ma non è del tutto così. Classificare un oggetto come artistico significa già assegnarlo ad una sfera dell’esperienza umana dove i fenomeni esistono solo in quanto portatori di qualità e valore estetico, anche quando sono considerati brutti. Vedere una cosa qualsiasi sotto l’aspetto estetico significa già coglierne la portata e la capacità, grande o piccola che sia, di offrirsi alla nostra esperienza per un uso estetico, qualsiasi cosa la parola “estetico” voglia dire.

 

Inoltre tutti gli apprezzamenti e le valutazioni sono tali solo in quanto attività di comparazione. Dire che una cosa è bella significa sempre due cose: uno, che la si considera sotto il profilo della bellezza; due, che la si considera più bella di altre cose che sono meno belle. Quindi per ciò stesso, anche se definiamo brutta una cosa, la sua bruttezza è solo un grado della bellezza, occasionalmente minore rispetto ad altre a cui siamo assuefatti o che semplicemente ci piacciono di più.

 

Questo vale sia per gli oggetti che non vogliono essere artistici, come un cavatappi o un’automobile o una dimostrazione matematica, sia, e a maggior ragione, vale per un quadro o una canzone, per quanto brutti ci sembrino se paragonati alla pittura di Michelangelo o alla Divina Commedia.

 

Se ci interessa la bellezza, tutto diventa bello, e quindi anche brutto, se paragonato a qualcosa di più bello. Assegnare un fenomeno ad un genere artistico, significa separarlo dagli altri fenomeni che non vogliono essere artistici; significa di per sé riconoscergli una funzione estetica e quindi un grado maggiore o minore di bellezza. In questo modo il genere svolge una funzione “metacomunicativa”: è cioè un segnale che ci indirizza verso un tipo di esperienza o, in termini di teoria della ricezione, ci indirizza verso un determinato orizzonte di attese che è quello dell’arte.

 

 

1.3. I nemici tassonomici

 

Un altro tipo di nemici dei generi è quello che tende a svalutarne la funzione, non perché sia esteticamente irrilevante, ma perché sembra mancare proprio della sua utilità classificatoria. I generi sarebbero concetti inconsistenti e addirittura inesistenti, perché mancano d’identità e persistenza. Questo perché i generi variano nel tempo e non sono definibili una volta per tutte, secondo caratteristiche univoche e definitive. A questa accusa si può rispondere che ciò è vero, ma che anche questo vale per tutte le cose del mondo. Basti pensare ai concetti della fisica, o della geometria dopo che sono state scoperte le geometrie non euclidee.

 

I generi infatti sono costruzioni culturali che risentono degli interessi di chi le costruisce, nel momento in cui le costruisce. Quando Saussurre  definisce il segno e il legame tra significante, significato e referente, dice che il significato di un segno (parola) si riferisce a un referente (oggetto) sempre “sotto certi aspetti” e mai in assoluto. Per esempio in inglese posso riferirmi a un edificio chiamandolo “home” oppure “chiamandolo “house”, eppure è lo stesso edificio, ma io lo chiamo in modo diverso a seconda degli aspetti che voglio mettere in evidenza. Una parola designa un oggetto solo da un certo punto di vista e non da tutti i punti di vista possibili.

 

Allo stesso modo un genere letterario include tutte le opere che a noi interessa di classificare “sotto certi aspetti” e non in assoluto. La stessa opera può essere quindi collocata in diversi generi a seconda degli aspetti di essa che riteniamo di considerare caratterizzanti. Perciò si possono individuare generi sulla base delle modalità di enunciazione (epica, lirica, teatro) o a seconda dell’oggetto dell’imitazione (la tragedia imita un mondo alto, la commedia un mondo basso), o sulla base delle funzioni del testo (il resoconto ha una funzione descrittiva, la lirica una funzione espressiva, un mandato d’arresto una funzione performativa).

 

Questa varietà d’interessi e di criteri non svuota affatto l’identità dei generi, ma anzi la arricchisce, tanto è vero che i generi sono stati usati, sono usati e saranno ancora usati proprio per la loro polivalenza classificatoria. Quelle che possono essere considerate incongruenze, quali le fluttuazioni storiche dell’identità dei generi, la riattivazione di generi antichi in nuovi contesti, l’appartenenza di una stessa opera a generi diversi, i raggruppamenti per tratti distintivi necessariamente parziali,   possono quindi essere considerate non difetti d’incoerenza, ma capacità operative specificatamente evolutesi per svolgere di volta in volta la medesima funzione ordinatrice, con esigenze diverse, adatte ai tempi e ai mutevoli interessi da evidenziare.

 

 

1.4. I nemici tecnologici

 

C’è ora infine un terzo tipo di presunto superamento del genere, quello che a mio parere confonde il genere col mezzo. Questa confusione era già presente in parte nella teoria dei generi antica, che riteneva il teatro un genere e non un mezzo. Poi vedremo in che modo e come mai. Per ora ci interessa invece segnalare che, con lo sviluppo delle nuove tecnologie, la necessità di distinguere l’effetto dei mezzi si è fatta più evidente. Perciò alcuni sostengono che le antiche distinzioni dei generi sono irrilevanti rispetto alle distinzioni causate dalla diversità dei dispositivi tecnologici che producono e distribuiscono i prodotti artistici.  

 

In via preliminare si possono usare due criteri per distinguere i generi; in seguito complicheremo questo schema. Uno, che si fonda sui contenuti, sugli oggetti da imitare, e quindi sui fini che l’attività artistica si propone; e uno che si fonda sui mezzi, i quali in origine erano solo l’enunciazione vocale, diretta o indiretta, e ora sono una quantità di tecnologie, dove il macchinismo prevale. Quindi occorre tenere conto di ciò che si può fare con la sola voce, e di ciò che si può fare con la macchina teatrale, con la stampa, il cinema etc. 

 

Ora i mezzi sono inevitabili, ma sono accidenti che mutano l’arte non per esigenze propriamente artistiche, bensì come conseguenza del mutare delle civiltà. E quindi si tratta di motivazioni estrinseche, che talvolta sono considerate estranee all’artisticità e talaltra invece più significative, appunto perché conseguenza di ciò che avviene nella realtà, e dunque specchio del mondo.  

 

Le piramidi sono il prodotto culturale di molte tecnologie fra cui la tecnologia degli schiavi, sennonché gli schiavi non hanno costruito solo le piramidi, ma anche i monumenti di tutte le altre civiltà antiche, per esempio il Partenone o il Colosseo, che come generi sono certamente diversi. Infatti anche la macchina teatrale produce sia la tragedia, sia la commedia. Nuovi mezzi certamente permettono di inventare nuovi generi, ma ogni mezzo produce e distribuisce generi molteplici, oppure mezzi diversi producono lo stesso genere: per esempio posso rappresentare una commedia in teatro oppure trasmetterla in televisione, e quindi il mezzo non è determinante per la specificità del genere.  

 

Si può dire che, fino all’Ottocento, le opere letterarie, pur appartenenti a generi molteplici distinti in base a criteri diversi, erano prese in considerazione principalmente per i contenuti e il loro messaggio morale e filosofico. Nel Novecento col modernismo, si comincia ad attirare l’attenzione sul fatto che le tecniche di rappresentazione e presentazione dei contenuti sono essenziali per il significato dei contenuti stessi. Si elabora quindi la teoria estetica secondo la quale non è possibile separare la forma dal contenuto, e poi addirittura che il vero contenuto è la forma, e poi ancora che l’opera non è che una dimostrazione delle potenzialità dei mezzi usati, e quindi il criterio per giudicare il valore di un’opera diventa la misura in cui quest’opera ha realizzato le potenzialità del mezzo. Ecco quindi come da semplice strumento, le tecniche letterarie e poi le macchine teatrali, o le tecniche di ripresa del cinema o le potenzialità della rete telematica diventano protagoniste, e per gran parte della critica postmoderna coincidono con l’essenza e il valore dell’arte stessa.  

 

Naturalmente fra poco parleremo ancora di tutti i criteri diversi usati per costruire il sistema dei generi. Per ora diciamo che i due orientamenti citati si possono illustrare con la metafora dello specchio e della lampada. Il primo, mimetico, si fonda sulla natura delle cose che imita, si adegua al mondo, esterno all’arte, che vuole inglobare con l’imitazione. Il suo emblema metaforico è quindi lo specchio.  

 

Il secondo orientamento dà importanza ai mezzi e ai processi di produzione, quindi alla “tecnicalità” specifica dell’attività artistica, per cui le sue tecniche, il suo modo di presentare il mondo, e non il mondo, diventa il vero contenuto. Il suo emblema metaforico è la lampada, che mostra ciò che investe con la sua luce. Quindi è il fascio di luce che dà vita a ciò che si vede. Detto in altro modo: il valore dell’arte moderna dipende dalla sua capacità di illustrare le problematiche epistemologiche, cioè i modi in cui si perviene alla visione e alla comprensione.  

 

Naturalmente i mezzi e i processi produttivi sono pre-esistenti all’impiego artistico: la stampa esiste indipendentemente dal romanzo e non è stata inventata per produrre e vendere la narrativa realistica, anche se il libro e il suo metodo di lettura individuale hanno contribuito al rafforzamento della coscienza personale, e di conseguenza all’ascesa del soggettivismo, del razionalismo e del realismo, e quindi la stampa ha influito sulla natura del prodotto artistico.

     

 

 

1.5. Produzione mimetica

 

In altra sede abbiamo visto che i generi formulaici sono e rimangono determinati da una logica del primo tipo, cioè mimetica, mentre l’arte modernista sposta il suo interesse sui procedimenti e le tecniche. Di qui il declassamento dei generi formulaici nell’opinione della critica moderna.  

 

Tuttavia anche i generi formulaici cercano di essere in qualche modo nuovi: ne deriva che l’originalità dei generi formulaici non è perseguita sul piano delle tecniche, ma sul piano della selezione degli oggetti e dei mondi da imitare. Perciò l’innovazione e l’originalità, nei generi formulaici, oltre che dalla variazione ed eventualmente dal capovolgimento delle convenzioni interne ai singoli generi  


(Per esempio in The Murder of Roger Ackroyd, Agata Christie fa raccontare la storia dall’assassino, che quindi assomma in sé due ruoli, quello dell’aiutante del detective, che di solito non capisce molto, e quello del colpevole, che invece sa già tutto. Per questa innovazione sorprendente delle convenzioni, questo giallo d'indagine viene perciò considerato un capolavoro nel suo genere.)
 


e oltre alle ibridazioni, si ottiene con l’invenzione di generi sempre nuovi, che si occupino di settori della realtà ancora non utilizzati come scenari, per cui per esempio ad un certo punto nasce il genere catastrofico, poi quello ospedaliero, poi quello degli esercizi commerciali (Grandi Magazzini, Commesse). E se ne possono prefigurare altri, come il genere culinario (che si svolge in cucina e a tavola, dalla Grande abbuffata di Ferreri al famoso Pranzo di Babette, a Big Night di Stanley Tucci, ecc.) o il genere pendolaristico, che si può collocare sui mezzi dei pendolari.  

 

(Per esempio il successo di pubblico del film Titanic dipende anche dal fatto che è un’enciclopedia di tanti generi formulaici. Inizia come un film di esplorazione degli abissi alla maniera della prima fantascienza alla Giulio Verne, ma con i mezzi moderni; prosegue come storia documentaria di un’epoca, quando i viaggi univano emigrazione e lusso; ha un tratto iniziale da storia picaresca in cui i due ragazzi vincono a carte i mezzi per imbarcarsi; contiene la storia infelice di una ragazza costretta dalla famiglia a fidanzarsi contro la sua volontà; c’è una storia d’amore difficile per il divario sociale degli innamorati, storia che non si lascia sfuggire nessuna risorsa e sfumatura sentimentale: prima con le vicende dell’incontro, sia come amore a prima vista, sia nell’episodio del tentato suicidio (che è un genere in sé), poi diventa l’amore contrastato, poi l’amore irregolare e felice, poi la separazione degli amanti col sacrificio di lui per salvarla. C’è la contrapposizione di classe degli emigranti poveri rispetto a quelli ricchi; c’è uno spunto poliziesco quando il protagonista è arrestato per un furto che non ha commesso; c’è il tema dell’artista povero ancora non riconosciuto; c’è un accenno di pornografia quando la protagonista viene dipinta nuda come le precedenti modelle che erano prostitute; ce ne saranno certamente altri che mi sono sfuggiti, e infine c’è la cornice del genere catastrofico che, oltre ad essere (insieme alla fantascienza) il genere tipico per l’uso degli effetti speciali e il movimento di masse, è il genere adatto a riunire una quantità di storie diverse di personaggi diversi, ognuno dei quali può produrre un episodio compiuto, personaggi che hanno in comune il fatto di trovarsi più o meno casualmente sul luogo della catastrofe.)

 

 

1.6. Essenza e artifizio

Ma torniamo alle considerazioni teoriche generali. Il testo fondamentale per capire come è stato elaborato alle origini il concetto di genere è la Poetica di Aristotele. Faremo perciò continui riferimenti a questo testo, entrando e uscendo continuamente da esso. 

E’ stato fatto notare che tutte le discussioni sui generi riguardano la letteratura, mentre non sono mai stati messi in questione nelle altre arti, dove pure esistono differenze generiche. Come mai? Probabilmente perché la letteratura è un’arte verbale, e le lingue sono sistemi semiotici che non producono solo la letteratura, ma anche il linguaggio comune e tutti i tipi di discorso non artistico.

Come si fa a distinguere un testo letterario dagli altri documenti non letterari? Bisogna cioè individuare la specificità semiotica della letteratura. Per Aristotele tale specificità è la mimesi. La sua concezione è essenzialistica, e postula che la letteratura sia organizzata secondo un ordine naturale. Anche perché la filosofia greca è dall’inizio una filosofia della natura. A dire il vero nella Metafisica (XIII, 3, 1070a 5) Aristotele distingue gli oggetti naturali, che hanno una natura interna e quindi una teleologia e un principio di sviluppo intrinseco - per cui un uovo d’uccello non può diventare un cavallo - dagli oggetti artificiali, che hanno invece un principio di generazione estrinseco. 

L’opera d’arte quindi come oggetto artificiale non dovrebbe avere una natura intrinseca, dovrebbe dipendere da un disegno impostole dall’autore, e poi magari, come molti ritengono oggi, addirittura impostole dal lettore. Se io scrivo un libro sui generi da Shakespeare ai siti web, chi lo usa può leggerlo per fare un esame di letteratura, oppure può usarlo per fermare le porte. A quel punto è il lettore che decide a che serve il libro, che io avevo scritto per un altro uso. Fatto sta che poi Aristotele tende a vedere anche nelle opere d’invenzione come la tragedia una sorta di natura propria, come se la tragedia fosse un essere naturale. 

A metà strada tra una concezione essenzialistica, che vede l’opera come un organismo della natura, e una concezione culturale nell’accezione più estrema, cioè in senso decostruzionista, che dà all’opera un carattere e un senso inafferrabile, perché sempre rinviato all’uso che ne farà il prossimo lettore, si potrebbe situare il compito del genere letterario. Il genere cioè servirebbe proprio a questo, come quadro di riferimenti intertestuali o macrotestuali che trattiene nella sua parabola evolutiva dei tratti riconoscibili, entro i quali situare le vecchie e le nuove opere, una sorta di sistema flessibile ma non volatile.   

Così concepito allora il genere, che nasce come deposito, diventa matrice generante. La percezione del genere invita l’autore a concepire un’opera che vi apparterrà, così come la nuova opera modificherà i limiti del genere, proprio come la creazione di un nuovo termine dà nuova forma a tutto il sistema della lingua. In questo modo l’intertestualità può essere vista come un ambiente che genera le nuove opere, (trasformando in suolo fecondo, per contatto, per associazione, per limitrofia, ciò che era un magazzino o, per alcuni, addirittura un cimitero); trasformando cioè un mucchio di opere in un sistema (topografico). Anche Frye dirà che la letteratura non è un mucchio di opere, ma un ordine di parole. E più che ad un ordine naturale, pensa piuttosto ad un modello culturale intertestuale, o forse addirittura ipertestuale, una sorta di macrotesto in divenire, come un universo in espansione, dopo un big bang archetipico. 

La fecondità del concetto di genere è ad esempio verificabile se consideriamo il significato generico dei generi formulaici e il loro ethos, che dà forma proteica, spaziale e concettuale insieme, al tipo di mondo rappresentato. Di volta in volta l’interesse concettuale assume sembianza di contesto ambientale e creaturale, per cui nel western c’è un mondo storico, ma nel rosa c’è un mondo di coppia, costituito dalle regole sociali che regolano i rapporti tra uomo e donna, regole che sono state introiettate dai due protagonisti, e perciò è soprattutto un mondo interiore. E nel giallo d’indagine c’è una condizione epistemologica, e nella pornografia c’è una dimensione selezionata della vitalità umana, quella dei corpi impegnati nell’atto sessuale. 

 

 

1.7. Teleologia e pragmatismo

 

Ma Aristotele introduce un altro elemento di grande interesse: l’aspetto pragmatico, che entra in gioco quando si considera l’effetto che l’opera vuole produrre. Egli, infatti, pone come scopo della tragedia l’effetto di catarsi, e quindi ne fa derivare una prospettiva considerata prescrittiva, in quanto prescrive ciò che è adatto allo scopo. Questo è più importante di quel che sembra, perché lo scopo è il principio della natura di un prodotto, sia esso artistico o no. Per capire un oggetto qualsiasi, che è sempre da considerare un prodotto culturale, dobbiamo chiederci a che serve, e soltanto in base alla risposta che si dà a questa domanda possiamo capire non solo che cos’è, ma anche se è utile, se è ben fatto, e infine se è bello. Ciò vale per un cavatappi, per un’automobile, per un’opera d’arte. E vale tanto per la singola opera quanto per il genere a cui il singolo esemplare si assegna. Dopo tutto la parola “genere” letterario o artistico sta solo come termine cumulativo di una quantità di opere che si fanno rientrare in quella categoria, detta appunto generica. Per cui la parola tragedia è una sorta di segno stenografico per indicare l’insieme dei titoli di tutte le tragedie.  


Io uso fare l’esempio delle automobili. Per capire la bellezza di una Ferrari, di una Rolls Royce, e di un’utilitaria, sebbene siano così diverse, dobbiamo capire che ciascuna deve avere le caratteristiche adatte al suo scopo: la prima a correre il più velocemente possibile, la seconda ad essere comoda e imponente, e l’utilitaria ad offrire il miglior rapporto tra prestazioni e limiti di prezzo. Soltanto tenendo conto di questi diversi scopi, possiamo giudicare se la loro forma estetica è apprezzabile. 


Lo scopo pragmatico del prodotto, artistico e no, è anche la meta per giungere la quale si sviluppa la sua teleologia interna. Allora pragmatica ed essenza dell’opera vengono a coincidere, perché scopo e natura si implicano a vicenda. Dopo di che cominceremo a discutere se lo scopo, e quindi la natura dell’opera, è dato a priori e per sempre da qualche principio trascendente l’artista, oppure è l’artista stesso a porlo e ad inventarlo.  


Se il principio e lo scopo sono, come vuole Aristotele, “mimetici”, se cioè l’opera deve imitare un’azione con cui lo spettatore può identificarsi per rivivere a una distanza catartica un problema della sua esistenza, della sua cultura e del suo mondo; e se questo mondo è considerato secondo categorie stabili e generalmente riconosciute, allora probabilmente l’artista “imiterà” una storia, cioè un mythos, noto allo spettatore, e lo scopo dell’opera sembrerà dato a priori, e l’artista sarà probabilmente giudicato per la sua capacità di adeguarsi alla tradizione.


Se invece non siamo in una società stabile e integrata, ma siamo in un’epoca di rapidi mutamenti e di scarse certezze, è probabile che lo scopo dell’artista non sembrerà facilmente reperibile nell’opinione comune, anzi il suo compito sarà proprio di individuare i lineamenti di problemi ed interessi da proporre come nuclei di riconoscimento, attorno ai quali gli spettatori potranno, per così dire, fissarsi, e trovare possibili orientamenti per i loro tentativi di auto-comprensione. In questo caso ci sarà un susseguirsi di avanguardie, e di poetiche da esse elaborate, dove il principio della mimesi non sarà immediatamente visibile, sarà invece più astrattamente e intellettualisticamente concepito, trasformato e presentato. Anche se, in ogni caso, sarà riconosciuto e apprezzato e ammesso alla dignità di arte, solo quando avrà ottenuto un consenso rilevante e adeguato al mercato dei beni simbolici, in un’epoca qualsiasi.  


Sebbene infatti descrittivamente ogni quadro dipinto rientri nell’ambito dei prodotti artistici, la sua sopravvivenza come tale dipende invece non da un giudizio ontologico, ma da un giudizio apprezzativo. Tutti i dipinti sono arte, ma solo l’arte di successo è considerata tale e sopravvive. Si potrebbe quindi paragonare la nascita dei generi alle serializzazioni attuali dei film di successo. Il successo di Rambo o del Giustiziere della notte ha prodotto per entrambi una serie specifica e tante imitazioni degli stessi schemi, delle stesse situazioni e degli stessi personaggi. Proprio allo stesso modo The Castle of Otranto di Horace Walpole inaugura il romanzo gotico, e il suo successo dà luogo a una serie di imitazioni e variazioni.  


Ma i due casi che ho delineato riguardano grosso modo: il primo, una poetica della mimesi fino al naturalismo; e il secondo una poetica modernista, che non fa che sostituire l’imitazione del vero con la ricerca dell’autenticità. Con le varie avanguardie, il modernismo non fa che proporre nuovi modi di ottenere quello che il realismo non è più in grado di dare. Il postmoderno concepisce invece in modo del tutto diverso il rapporto tra artista e mondo. 


Questo rapporto era in sostanza ciò che generava l’opera d’arte, e nei due casi precedenti vedeva artista e realtà egualmente partecipi nella generazione culturale. Il postmoderno invece espelle l’elemento umanistico dell’artista dalla funzione creatrice, per ridurre l’uomo-autore ad un canale meramente strumentale, al servizio di una logica del simbolico che lo trascende. Di questo si tratta tutte le volte che si parla di morte del soggetto, morte dell’autore, post-umano, post-strutturalismo, ecc. Non è la logica degli interessi umani, ma la logica dell’articolazione linguistica, della sistematicità fonologica, della tassonomia fisico-chimica, della simbolicità informatica, che si servirebbe dell’uomo come supporto biologico. 

 

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