2.1.
Mezzo e genere per Aristotele
Torniamo
al genere per Aristotele e vediamo come Aristotele considera il mezzo rispetto
al genere, perché a noi interessa anche imparare a distinguere tra mezzo e
genere. Per Aristotele i mezzi sono intesi diversamente dai nostri. Infatti egli
definisce tre mezzi: il ritmo, la melodia e il linguaggio. Il ritmo è il mezzo
della danza. Combinati insieme, melodia e ritmo sono i mezzi della musica.
Infine il linguaggio è il mezzo della letteratura. Noi invece concepiamo come
mezzi la stampa, il teatro, il cinema, la televisione. Non occupandosi nella Poetica
di danza e di musica, Aristotele non parla più di mezzo, poiché l’unico
mezzo per lui è il linguaggio verbale.
Se
intendiamo più modernamente come mezzo il dispositivo tecnico, il modo di produzione e il canale di distribuzione dell’opera d’arte, allora i mezzi
diventano distinguibili e importanti quando si diversificano, e cioè a partire
dall’invenzione della stampa. Al tempo di Aristotele l’unico mezzo di
distribuzione era sempre e comunque la presenza di una o più persone che
pronunciavano, o come attori nel teatro o come bardi nell’epica, il testo da
recitare di fronte agli ascoltatori o spettatori. Per questo Aristotele non
distingue come mezzo il teatro dalla letteratura, ed è anche per questo che il
teatro che egli privilegia è quello verbale. Egli sottovaluta il teatro di
spettacolo, e considera persino lo sfruttamento dell’elemento spettacolare (opsis)
nella tragedia una cosa volgare.
2.2.
Teatro di parola e teatro di spettacolo
Occorre qui ricordare che il teatro, assieme al cinema, alla televisione ecc, è
un mezzo multimediale, che utilizza la parola come la letteratura, la musica e
infine lo spettacolo, sotto forma di oggetti, scenari, attori, macchine, luci.
Se ricordiamo i sei elementi che Aristotele indicava come componenti di ogni
imitazione di un’azione, i tre ora in questione sono: lexis (dizione), melos
(musica), e opsis (spettacolo).
Il teatro più praticato nella tradizione antica e moderna in occidente, dai
Greci a Shakespeare, ai contemporanei, è un teatro dove la parola è l’elemento
più importante, tanto che ad un certo punto è stato chiamato teatro di prosa.
A questo teatro di parola si contrappone un teatro di spettacolo, dove invece
musica e scenari sono più o altrettanto importanti. Per esempio l’Opera
Lirica, il balletto, il masque.
Il masque nasce coma una specie di danza di figure in maschera. Infatti
nel quindicesimo secolo in Inghilterra, dove era stato importato dall’Italia e
dalla Francia, era chiamato anche “disguisings”. Era uno spettacolo di
Corte, privato, molto costoso, elaborato con macchine meravigliose. Ma la cosa
che interessa è che gli attori erano, almeno in parte, le persone stesse della
casa o della corte: quindi la comunanza fra attori e pubblico era totale. Le
occasioni erano varie feste o feste di matrimonio, come nella Tempesta
di Shakespeare, e il tema alludeva, in forma di mito o allegoria molto
sintetica, all’occasione stessa della festa. Anche il re talvolta recitava
nello spettacolo. Le maschere infatti, oltre a rappresentare personaggi
allegorici, servivano anche a non far riconoscere gli attori, anche se
probabilmente tutti sapevano chi erano. Tanti grandi artisti hanno lavorato in
Italia e in Francia per questo tipo di spettacolo: Leonardo da Vinci, per
esempio, o Brunelleschi. In Inghilterra il più famoso è Inigo Jones. Alla fine
talvolta gli attori si toglievano la maschera e ballavano insieme al pubblico,
realizzando il rafforzamento simbolico della comunità con la comunione tra
attori e spettatori.
Il teatro di spettacolo è più vicino alle origini rituali del teatro, come ci
fanno capire le rappresentazioni sacre del medioevo o la Via Crucis, che si
recita a Pasqua nelle chiese. E al giorno d’oggi le parate militari e anche
tutti i tipi di processioni e celebrazioni religiose o manifestazioni
patriottiche e politiche moderne, e poi la commedia musicale, i concerti rock, l’avanspettacolo.
L’ultimo tipo di spettacolo che sfrutta queste caratteristiche in modo
significativo e apparentemente contraddittorio sono le sfilate di moda, che
infatti non si svolgono più solo al chiuso, ma tendono a diventare spettacolo
all’aperto o vengono diffuse attraverso la televisione. Il che può essere
significativo del tipo di valori attualmente capaci di creare qualcosa che
sostituisce il senso della comunità.
In effetti le attuali sfilate di moda potrebbero essere assimilate per alcune
caratteristiche al masque: per il costo, per la stravaganza dei costumi e
per gli scenari cercati nei vari luoghi spettacolari, e anche perché i vestiti
sono diventati maschere da indossare solo in occasione della sfilata, in quanto
sono troppo stravaganti ed elaborati per essere portati comunemente. Ciò fa sì
che i sarti diventano stilisti, cioè si sentano artisti che vogliono dare alle
loro creazioni un significato che interpreti lo spirito della contemporaneità.
Il che è una sorta di trasformazione moderna di quella che era l’allegoria.
Il teatro di spettacolo si distingue da quello di parola perché accentua e
rende evidente una caratteristica propria di tutto il teatro. Questa
caratteristica è la sua funzione di rito sociale; è cioè qualcosa che si
fruisce in società, per rafforzare appunto il legame comunitario. In Europa,
nelle epoche in cui questa esigenza sociale è più sentita, come nel periodo
elisabettiano, il teatro è più fiorente. Quando il romanzo prevale invece nell’interesse
del pubblico come nel Settecento e nell’Ottocento, il teatro di parola, per
quanto presente, diventa meno importante, appunto perché l’arte verbale è
più esplicabile nella narrativa.
Oppure diventa prevalente un teatro di spettacolo specifico come appunto l’opera
o l’operetta. Nella prima metà del Novecento questa funzione di rito di massa
è assunta dal cinema, e nella seconda metà del secolo dai concerti della
musica pop per le masse giovanili, e anche in generale dalle manifestazioni
politiche, già a partire dalle grandi marce dei disoccupati negli Anni Trenta,
e poi con le celebrazioni della resistenza in Europa, dopo la Seconda Guerra
Mondiale, le manifestazioni studentesche a partire dagli Anni Sessanta in tutto
il mondo occidentale, in Cina con la Rivoluzione Culturale, dovunque col
femminismo, l’ecologismo, e adesso con le manifestazioni itineranti contro la
globalizzazione.
Questa funzione coesiva dell’identità sociale il teatro la svolge in quanto
viene fruito in collettività, mentre il libro viene fruito individualmente, e
la televisione in piccoli gruppi familiari e distratti. Invece ai concerti rock
ciò che importa è essere presenti, anche se si è in tanti e la musica non si
sente bene, perché quello che conta è l’occasione di stare insieme, cioè
appunto il senso della comunità.
I miti creati dal cinema, oltre ai vari film di culto, sono quelli del divismo.
I divi, cioè i nuovi dei, sarebbero gli attori. L’interesse per la vita
privata degli attori può essere considerato il modo in cui il pubblico, come
accadeva alla fine del masque, vuole vedere gli attori senza la maschera
dei personaggi interpretati. Per questo, sin dagli inizi del cinema
hollywoodiano, gli agenti inventavano la vita privata degli attori per adeguarli
almeno in parte al tipo di ruoli interpretati. Per esempio combinavano fra gli
attori matrimoni veri, ma di facciata, in cui magari uno o entrambi gli sposi
erano omosessuali, oppure la sposa era l’amante del produttore già sposato.
Abbiamo detto che il teatro di spettacolo usa la musica; per converso quando
invece il teatro musicale vuole dare più importanza alla parola, dall’opera
si passa all’oratorio, che offre una fruizione molto austera, senza scene. In
senso proprio l’oratorio è una composizione di parole e musica d’argomento
religioso, come per esempio la Passione secondo Matteo di Bach, fondata
sul dialogo tra i cantanti-attori e il coro. In senso lato si definisce oratorio
ogni opera che sia eseguita dai cantanti senza le scene, solo cantando davanti
ad un leggio, con l’orchestra ed eventualmente il coro.
Dunque il teatro di spettacolo è unificante intorno ad un programma simbolico;
non è analitico come il teatro di parola, ma sintetico, e raccoglie i fruitori
intorno ad un mito conosciuto e condiviso dalla comunità. Le rappresentazioni
sacre del medioevo riguardavano i dogmi della religione. I due momenti
principali sono la nascita di Cristo a Natale, e in questo caso il contenuto
delle rappresentazioni è costituito da due processioni: quella dei pastori e
quella dei Re Magi, che si recano entrambe alla grotta di Betlemme; l'altro
momento è quello della Pasqua, che si occupa della passione di Cristo, e la
processione è quella della salita al Calvario.
La tragedia dai Greci in poi è un teatro di parola che cerca di mantenere il
legame col sacro, ma lo fa in modo analitico, cioè esplora una storia che può
essere mitica o tradizionale, e quindi nota alla comunità, ma ponendosi
problematicamente a ricercarne il senso per la nuova società, cioè cerca di
capire la radice sacra del mondo contemporaneo. Infatti, il protagonista non è
più un Dio come Cristo o Dioniso, ma un eroe a metà strada tra natura umana e
una natura superiore, se non proprio divina.
Questo confronto con le origini sacre in termini analitici e problematici, pur
proponendosi la ricerca dei legami comunitari, lo fa in modo meno fiducioso
rispetto al teatro di spettacolo, che ha come oggetto un mito o un dogma
religioso. Quando nella Via Crucis assistiamo alle tappe del martirio fino alla
morte di Cristo, sappiamo che la sua morte non è una vera fine, sappiamo che
egli risorgerà, e dunque il finale non è catastrofico e definitivo, bensì è
calato in una consapevolezza e in un’atmosfera d’attesa rassicurante, che
poi è l’atmosfera del romance, dove il senso tragico diventa una
sorta di nostalgia di tempi migliori, o di attesa di tempi migliori.
Il teatro di spettacolo dunque rafforza il senso della comunità intorno a
valori condivisi, e quindi deve essere in ultima analisi ottimista, anche quando
presenta i momenti negativi per la comunità. In sostanza il teatro di
spettacolo tende a non essere né tragico, né comico, pur trattando temi
tragici e comici, perché il suo scopo è lo spettacolo. Lo spettacolo è una
forma espressiva che tende ad appagare e sopraffare le capacità di percezione e
di elaborazione intellettuale dello spettatore.
Nell’Inghilterra elisabettiana, a parte le particolari occasioni celebrate dal
masque, il mito da celebrare era la formazione dello stato nazionale, e
quindi la funzione del teatro di spettacolo, (oltre che dal masque, che
comprendeva musica e balletto, e che si trova per esempio anche all’interno di
opere come The Tempest), è assunta dallo history play
che vuole legare il pubblico col patriottismo. Lo history play infatti
può rappresentare momenti positivi o negativi per i re e per il popolo inglese,
soprattutto con le lotte civili nella Guerra delle due rose, ma il suo scopo
finale è dare quel senso di continuità che porterà alla celebrazione del
regno di Elisabetta.
Come abbiamo detto ci sono history play che si avvicinano di più alla
tragedia come Richard II e Richard III, e allora o
si mette in questione il genere e si dice che sono tragedie e non history play,
oppure, pur rimanendo la storia il fine ultimo del dramma, si accentua un altro
aspetto, che è l’ironia, intesa però nel senso che il pubblico percepisce
più dall’interno la fatalità del meccanismo che porterà alla caduta
dell'usurpatore.
Allora, come nella morte di Cristo vediamo un passo necessario per la redenzione
dell’uomo, nella storia di McBeth o di Richard III vediamo la loro ascesa al
trono attraverso il delitto come passo falso in un certo senso anch’esso
necessario per la successiva sconfitta, cioè non più o non solo come innesco
promotore della tragedia. Ho usato McBeth e Richard III come
esempi, non solo perché dobbiamo parlare di Shakespeare, ma anche perché si
collocano appunto fra storia e tragedia, tra mito e analisi.
Dal punto di vista strettamente tragico, l’ironia sta in un certo senso
proprio nella mancanza di giustificazione morale o sociale della caduta dell’eroe.
La vera ragione della caduta dell’eroe è che l’esistenza umana deve finire
con la morte, e il cosiddetto passo falso è solo un accidente esemplificativo,
che consiste nel fatto che l’eroe fa qualcosa proprio per sottrarsi al destino
umano, ma ciò che fa, sia un delitto o soltanto uno sbaglio, o anche la
conseguenza di una inavvertita casualità, diventa non un modo per sfuggire alla
morte, bensì un modo per accelerarla.
L’aspetto analitico della tragedia, nel teatro di parola, è ciò che i
personaggi dicono per cercare di spiegarsi e capire come mai tutto questo
succede. Ma la risposta è semplicemente che succede e basta. Anche se, come è
ovvio, diamo alla morte di McBeth un valore di punizione per i suoi delitti, in
realtà egli muore perché è mortale. Nella realtà infatti non sempre i
tiranni pagano per i loro crimini, Hitler si è ucciso, Mussolini e Ceausescu
sono stati fucilati, Stalin probabilmente è stato avvelenato, Milosevic in
Serbia probabilmente andrà in prigione, ma Franco il dittatore spagnolo è
morto nel suo letto, come tanti altri dittatori sud americani, e come
probabilmente succederà a Pinochet in Cile.
Il teatro moderno accentua l’assurdità, dal punto di vista umano, dell’inevitabilità
della morte, ma preferisce esemplificarlo attraverso qualsiasi altro stato di
morte in vita, che sostituisce la morte fisica. Questo perché il teatro moderno
non cerca più l’origine della condizione umana in un mistero sacro sepolto
nel passato, né esemplifica il meccanismo della caduta con la trama di vendetta
o altro. Perciò il protagonista che cade, non cade da una posizione di
prestigio, non è un eroe, bensì è addirittura inferiore a noi, nel senso che
si trova già in una posizione di minor capacità di agire e di capire. Pensate
a Oh! Les beaux jours di Beckett, dove la protagonista sprofonda gradualmente nella sabbia. Nell’Ottocento
il dramma è borghese e non è una tragedia, ma una commedia negativa, cioè
illustra il fatto che lo scacco dell’eroe è prodotto dai tempi, dalla
situazione storico-sociale che schiaccia il benintenzionato frustrando le sue
aspirazioni.
2.3.
Aristotele, Shakespeare e i generi
Detto questo, come distingue Aristotele i generi letterari? In base a due
elementi: secondo il contenuto rappresentato, per cui c’è un contenuto alto
nella tragedia e nell’epica, e un contenuto basso nel comico e nella satira, e
secondo il modo della rappresentazione, cioè o con la narrazione, nell’epica
e nella parodia, o con la recitazione diretta degli attori in teatro.
Comprendiamo quindi che le definizioni di generi e mezzi possono essere molto
diverse nei diversi periodi storici. Ma anche gli stessi generi possono essere
definiti e individuati per aspetti diversi a cui nelle varie epoche si è più o
meno interessati.
Dopo Aristotele si è dibattuto a lungo tra gli studiosi se la tragedia si
dovesse definire in base al livello dei personaggi e alla forma della trama,
oppure in base all’effetto di catarsi. E si è discusso su che cosa fosse la
catarsi, e se doveva verificarsi nello spettatore o nel testo; oppure se la
commedia deve finire felicemente con un matrimonio. E se invece finisce
felicemente con un divorzio? E la commedia non dovrebbe semplicemente far
ridere, a prescindere da come finisce?
Le opere di Shakespeare a questo proposito sono state suddivise dapprima in
commedie, tragedie e drammi storici. In momenti successivi è stato individuato
un altro genere: il romance, e più tardi ancora i problem plays.
E lo stesso vale per la collocazione delle opere nei generi stessi: per esempio,
come abbiamo visto, Richard III è una tragedia, ma anche un dramma
storico, e si può assegnare all’uno o all’altro genere a seconda che si sia
interessati al meccanismo tragico, oppure agli eventi della Storia inglese che
gli forniscono l’argomento.
Paradossalmente proprio questa mobilità degli interessi dimostra la funzione
del genere come strumento di perpetuo rimando circolare dal generale al
particolare e ritorno. Il significato di un’opera sta sempre anche nel suo
uniformarsi o allontanarsi dalla categoria generica nella quale cerchiamo di
porla, e in situazioni di ricerca dell’originalità sempre più spinta, come
nel caso delle avanguardie artistiche, spesso le tracce di genere sono gli unici
indizi di una possibile intenzionalità dell’autore o del testo.
Quando un testo risulta difficilmente collocabile in un genere, ciò significa
non soltanto che mette in questione le convenzioni formali dello spazio
generico, ma anche i presupposti culturali che il genere implicava. Così quando
nei film western gli indiani cominciano a non avere più solo il ruolo dei
cattivi, è perché il genere rimette in discussione la visione della Storia
Americana da cui era nato, attraverso un fattore fondamentale di quella Storia
che è l’idea di frontiera. Prima era la frontiera tra civiltà e wilderness,
civiltà, quella dei pionieri, e barbarie, quella dei nativi; successivamente
diventa la frontiera fra due civiltà diverse con pari dignità, e quindi il
senso del western tende a diventare il conflitto culturale e non più solo l’eroismo
dei pionieri.
2.4.
Genere, originalità, ibridazione.
Allora potremmo riformulare anche il concetto di originalità, che prevale come
criterio di valore dal Romanticismo in poi, esprimendolo in termini di genere.
Potremmo dire che un’opera è valida quando esplora ed esperimenta in modo
più intenso le possibilità e i limiti del genere in cui si colloca o dei
generi a cavallo dei quali si colloca. In questo modo si capovolge il criterio
per cui se un’opera non si adatta ad un genere preciso è sbagliata e quindi
brutta, bensì diventa più interessante perché apre nuove prospettive
ermeneutiche.
Shakespeare, in Hamlet, fa elencare a Polonio, che è personaggio
prevalentemente ridicolo, una serie di generi: Polonio dice che gli attori a
disposizione sono in grado di recitare una tragedia, una commedia, un dramma
storico, un dramma pastorale, comico-pastorale, storico-pastorale,
tragico-storico, e infine tragico-comico-storico-pastorale. Questa totale
ibridazione fino alla più evidente contraddittorietà sembra svuotare di senso
ogni classificazione generica. Tuttavia proprio la contraddizione più evidente,
quella che mette insieme tragico e comico, è ciò che la critica ha sempre
visto in Romeo and Juliet, che sembra essere una commedia e finisce
invece in tragedia, per motivazioni che appaiono gratuite e casuali.
Troilus and Cressida è
chiamato “comedy” nella prefazione dell'in-quarto, mentre nello stesso
in-quarto il suo titolo è The History of Troilus and Cressida.
Nell'in-folio diventa addirittura The Tragedy of Troilus and Cressida.
Oggi lo consideriamo un "problem play" e io tenderei a
considerarlo una satira. Tutte le commedie fanno la satira dei personaggi
ostacolo, ma qui la satira colpisce i protagonisti.
L'in-folio divide i drammi in tre categorie: Commedia, History e Tragedia.
Nell'Ottocento si escogita la categoria del romance che si riferisce agli
ultimi drammi. Nella prima metà del Novecento si escogita la categoria del problem
play, in cui entrano non solo le commedie, ma per alcuni anche Antony and
Cleopatra e Hamlet perché i dilemmi morali e filosofici vi sono
esposti senza un chiaro scioglimento.
Collocare un'opera in un genere equivale anche ad un’interpretazione dei suoi
temi politici, sociali, sessuali, morali e di costume. La profondità con cui
Shakespeare tratta qualsiasi materia, rende almeno in parte problematiche tutte
le sue opere. I generi sono dunque dei modelli, e i modelli possono variare e
differenziarsi. Shakespeare esplora le risorse dei modelli ricevuti e ne
evidenzia le potenzialità.
Sappiamo anche che l’ibridazione nella letteratura popolare è frequentissima
con effetti variabili. Un western dove sono protagoniste le donne può
allontanare gli spettatori maschili, che vogliono che si rimanga fedeli alle
convenzioni, ma può magari attirare le spettatrici, che di solito invece non
amano il western perché celebra l’aggressività dei pionieri e non gli
interessi femminili. Entrambe le posizioni, quella che vuole attenersi ai limiti
di genere e quella che mette in luce che i limiti sono impossibili da mantenere,
sono posizioni pregiudiziali, ma probabilmente tutti i giudizi di valore non
possono che essere fondati su pregiudizi, cioè su interessi culturali
temporaneamente privilegiati rispetto ad altri.
L'ibridazione può essere percepita come caos, oppure come rivolgimento delle
condizioni di stabilità precedenti, e soprattutto dei parametri di misurazione
di aspetti coesistenti, ora valutati diversamente. Il dispositivo di compiutezza
dell’ibridazione è la combinatoria. Nell’epoca attuale la commistione dei
generi è un principio mimetico ed epistemologico dominante, che contamina non
solo la finzione. Ma anche la realtà, perché, come sappiamo, in una visione
post-moderna la realtà è solo una forma di rappresentazione e quindi di
finzione anch’essa.
La combinatoria diventa quindi il principio che ispira
tutti gli ambiti entro cui la realtà si offre nella sfera pubblica attraverso
la rappresentazione. Esempi di ibridazione generalizzata sono le finzioni fatte
passare per realtà nei programmi della presunta tv verità. Come pure i
programmi di pettegolezzi mondani e di discussioni sportive, dove tutta la
combinatoria possibile si coniuga nella fantasia degli ascoltatori allo stesso
modo che nelle rappresentazioni della pornografia. Tutti gli scambi possibili
negli accoppiamenti sessuali corrispondono a tutti gli scambi possibili nella
compravendita dei giocatori delle squadre di calcio, o a tutti gli scambi
possibili di coppie famose nel giornalismo scandalistico. In politica, i vari
piccoli partiti si possono unire tra loro in vari raggruppamenti o passare da
uno schieramento all'altro in tutte le possibili combinazioni. Questo è tipico
delle società in rapidissima evoluzione, in cui uno spostamento che prima
avveniva in decenni ora avviene in un paio di mesi o di settimane, sia tra le
coppie legate affettivamente, sia per le alleanze politiche, sia per i giocatori
delle squadre di calcio.
Ma da cosa deriva invece l'energia che separa e codifica in categorie? Dalla
presa di posizione di entità autorevoli nei vari campi: politica, morale,
tecnologia. Invece questa forza di convinzioni nel pensiero moderno manca, non a
caso la via italiana al postmoderno è stata chiamata “pensiero debole”.
Alla luce delle condizioni interpretative contemporanee si
preferisce attirare l’attenzione sul fatto che Shakespeare mette in questione
sia gli ingredienti dei singoli generi, sia i rapporti tra i generi stessi, sia
gli elementi letterari e formali quali poesia e prosa, (oppure mette le forme
brevi dentro le forme più estese), sia la promiscuità dei livelli sociali
rappresentati, sia la normatività dei vari tipi di decoro. e proprietà. Gli
stessi concetti di decoro e proprietà implicano un sistema entro cui si
assegnano le posizioni.
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