In ritardo/Late on the Event-Scene

 

Nell'universo senza memoria dell'accelerazione mediatica
arrivare in ritardo sull'attualità è
l'ultimo modo per ricordare

 

 

18.  Logo o no logo? (Leonardo Terzo, 1 agosto 2001)

 

Uno degli effetti della globalizzazione - sostengono i suoi avversari - è la svalutazione della manifattura industriale del prodotto, a basso costo, rispetto all’immagine che gli aggiunge la pubblicità. Quest’immagine, sintetizzata dal marchio: brand o logo, è ciò che gli conferisce la maggior parte del valore. Di qui il No Logo del titolo del libro di Naomi Klein.

 

La confezione materiale, ormai  parte secondaria dell’intero processo produttivo, è appaltata ai lavoratori di paesi sottosviluppati, sfruttabili, mentre ciò che l’azienda è impegnata a produrre veramente è l’immagine di sé. Il marchio deve servire a vendere non un prodotto industriale, ma una tendenza della moda, ovvero la patina simbolica dell’oggetto. Questa dimensione “culturale” non soddisfa infatti un’esigenza pratica, bensì un’esigenza mentale e terapeutica, perché si presta ad un uso sostanzialmente consolatorio delle incertezze narcisistiche, di tutte le età, ma principalmente di quelle adolescenziali.

 

La qualità simbolica ed estetica delle merci è sempre esistita, ma era conservatrice, e quindi lenta o refrattaria a recepire il mutamento. Pretendeva di fondarsi sulla qualità dei materiali (i bei tessuti, morbidi e duraturi, caldi e leggeri), sulla comodità funzionale più che sulla reinvenzione formale. Il suo significato simbolico era l’esibizione discreta ed elitaria, per gli intenditori, di tratti che significavano appartenenza agli strati, progressivamente più ristretti, della classe dominante. Oppure era esibizione, proverbialmente derisa, delle imitazioni, per avvicinarsi simbolicamente ai livelli superiori della gerarchia sociale.

 

La cosiddetta alta moda del vestiario femminile aveva ancora una dimensione di portabilità, ed era esclusiva in termini di prezzo, ma anche in termini di gusto. Nella situazione attuale l’esclusività della moda è assoluta, nel senso che le collezioni non sono per nessuno, in quanto al di fuori di ogni portabilità plausibile. Il gusto si è dissolto nel sincretismo degli stili, e la commerciabilità viene riversata sugli accessori o sui sottoprodotti di massa, (se non vogliamo credere alle voci ricorrenti, secondo cui si tratterebbe di semplici attività di copertura di traffici illeciti). Di qui l’attività di contraffazione dei prodotti originali, con “falsi” che sono identici agli oggetti imitati, ma sono confezionati dagli schiavi cinesi segregati negli scantinati di Cinisello o di Casoria, invece che dagli stessi cinesi a Taiwan.

 

Tutto cambia infatti quando la globalizzazione permette di esportare la manifattura dove lo sfruttamento è legale; quando la durabilità dei materiali è un difetto invece che una qualità, e l’impegno aziendale, da produttivo diventa “creativo”. Ciò che si crea è l’aura cultuale che accompagna gli oggetti nelle grandi e piccole cattedrali del consumo, visitate in pellegrinaggio dagli adepti, per impossessarsi dei feticci che conferiscono lo status stagionale “giusto”, prima che trapassi nella “banalità”.

 

Il prodotto “giovanile” inoltre deve essere venduto dai giovani, che diventano così i lavoratori più impiegati, ma in situazioni di precariato e temporaneità, corrispondente alla breve durata delle tendenze e della gioventù stessa. Se a quarant’anni è quasi impossibile tornare in fabbrica o in ufficio, a trent’anni diventa difficile restare nel circuito dei venditori a contatto col pubblico.

 

La patina simbolica dell’oggetto di culto non scaturisce più dalla tecnica artigianale manifatturiera. Né dall’affidabilità utilitaria dell’oggetto di produzione industriale, pur con tutta la sua riproducibilità seriale e massificata. La nuova simbolicità è giustapposta con l’etichetta, che, con l’immagine incantatoria del logo, trasmuta la materia vile in spirito del tempo.

Questa alchimia è il raggiungimento di un’idealità ossimorica, “puramente falsa”. Tende infatti all’acquisizione di un’astrattezza, imitativa di quella dell’arte pura, che satura e falsifica tutti i margini d’utilità dell’arte applicata.

 

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