Leonardo Terzo
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La teoria tra wilderness e babilonia

 

Comincerò coll’indicare i motivi della scelta dei termini presenti in questo titolo e col dare una prima descrizione di essi in relazione alle tesi che intendo esporre e sostenere. Voglio anche sottolineare che lo scenario in cui ciò che esaminerò si è verificato è costituito principalmente dalle istituzioni accademiche americane, ma sappiamo che tutto ciò che viene immesso nel circuito della globalizzazione, culturale o d’altro tipo, o proviene dagli Stati Uniti o ha dovuto passare dagli Stati Uniti per assurgere a centro di interesse generale, e questo vale per Derrida come per Benigni.

Si può aggiungere che le tendenze e i fenomeni che illustrerò si riscontrano nelle istituzioni americane in modo più tangibile, perché la volontà pragmatica di quella cultura riesce spesso, prima che altrove, a trasformare le idee in scelte operative e istituzionali, e quindi a trasformare la teoria in politica accademica. Coi vantaggi e gli svantaggi che tale rapidità comporta.

Infine, prima di entrare nel merito, devo avvertire che gli argomenti saranno trattati di necessità in modo sommario, perché la varietà degli interessi, la rapidità del loro succedersi, la parziale sovrapponibilità delle teorie, la molteplicità enciclopedica dei corollari richiederebbero un’intera anatomia della critica. Nei limiti di un breve saggio, per ovviare a questo inconveniente, il mio discorso sarà invece altamente mimetico, cioè insicuro come la wilderness e confuso come una babilonia.

Il primo concetto, “la teoria”, è quello sostanziale.  La sua definizione implica una storia, divisibile in due parti: la prima è la storia di come si sia passati dalla critica pratica di singole opere letterarie ad una ricerca di principi comuni a tali pratiche, e quindi ad una sistematizzazione di tali principi in specifiche teorie della letteratura e della critica letteraria. Tutto ciò è avvenuto in vario modo nella prima metà del Ventesimo Secolo, tanto che in tale periodo e per denominare tale periodo si è parlato di “età della critica”. Questo però è cosa nota e costituisce solo la prima metà della storia.

La seconda metà, su cui mi soffermerò, è come si è passati dall’idea e dalla denominazione più analitica di “teoria della critica letteraria” alla denominazione più sintetica di “teoria” senza aggettivi e specificazioni. Ora viviamo nell’età della teoria, e probabilmente ormai alla sua fine; e il dominio della teoria, come vedremo, impone anche un percorso ermeneutico inverso, per cui si ritiene che l’ideologia determini la teoria, la teoria determini la critica, la critica determini la lettura.

La parola wilderness indica in inglese il territorio non ancora esplorato e civilizzato. Applicato alla teoria critica, come già hanno fatto Geoffrey Hartmann quando ha scritto Criticism in the Wilderness e Elaine Showalter in “Feminist Criticism in the Wilderness”, indica ogni nuovo orizzonte di ricerca, e questo, in un’epoca dove la ricerca e il progresso sono un valore sempre vigente, nonostante tutte le voci sui limiti dello sviluppo, sulla fine della storia e sull’idea postmoderna di cultura come riciclaggio e permutazione, rivela una delle tante ambivalenze e contraddizioni della situazione contemporanea, vale a dire il fatto che ogni teoria è superata nel momento stesso in cui acquisisce una forma istituzionale; ma nello stesso tempo la novità di ogni successiva proposta metodologica è vissuta come frontiera, precaria e instabile, come wilderness, che si vorrebbe porre su basi più certe e sistematiche.

La varietà e contraddittorietà intrinseca alla situazione contemporanea è infatti ciò che cercherò di illustrare rifacendomi all’idea popolare di “babilonia”, mostrando come si è passati prima dai testi letterari alla teoria, e poi ad una teoria senza testi; come si è passati da una teoria della letteratura ad una teoria che fa evaporare la letteratura, abolendo ogni sua diversità o privilegio estetico; come si è passati da una teoria che si costituisce per sistematizzare i principi di una critica empirica ad una teoria che si ritiene sempre predeterminata da un’ideologia sociale e politica. Ideologia che a sua volta però si vuole sempre e comunque demistificare.

All’inizio di tale trasformazione è il concetto di interdisciplinarietà. L’interdisciplinarietà è consistita dapprima nella tendenza a oltrepassare barriere accademiche e disciplinari fra le letterature, a partire dall’insegnamento delle letterature comparate; successivamente ha comportato il superamento di confini e limiti tra i saperi umanistici: tra linguistica, filosofia, storia, politica, psicoanalisi; ed infine si è manifestata nell’uso di ogni tipo di sapere, dall’antropologia alla medicina, dalla storia delle idee alla storia della tecnica, comprese le scienze cosiddette “dure”, utilizzate come fornitrici di modelli cognitivi e teoretici, da un punto di vista metodologico ed epistemologico; in ultima analisi tale punto di vista è infatti il nucleo significativo del termine “teoria”.

Detto in altro modo, se deduciamo il significato del termine dal modo in cui viene usato, possiamo anticipare, o concludere, che per teoria s’intende un intreccio di valutazioni letterarie, storia intellettuale, filosofia morale, speculazione sociologica e altro, ma soprattutto si intende l’effetto di un continuo spostamento di prospettiva delle metodologie stesse, che vengono adattate e trasferite da ciascuno di questi ambiti a tutti gli altri, per sfidare e indirizzare in modo inatteso e problematico i rispettivi modelli di ricerca. Come dice Baudrillard nel saggio “Dimenticare Foucault”, la teoria è il luogo dove i termini perdono il loro significato. La teoria è pervasa perciò da un’ansia di instabilità e spaesamento che sfocia in una radicale eterogeneità, fino a sfiorare lo scetticismo epistemologico. Infatti una conseguenza di tale propensione, peraltro talvolta esplicitamente teorizzata, è che non si può trascendere la contingenza; non si può cioè creare un apparato interpretativo che valga per più eventi o più casi, o più testi. In tal modo abbiamo una teoria anti-teorica. Tutto è contingenza storica, ma la contingenza storica della teoria finisce per annullare la possibilità stessa di teorizzare. Non si capisce se la storia è stata inghiottita dalla teoria o la teoria è stata inghiottita dalla storia. E anche il concetto di storia naturalmente è cambiato, perché la storia è costituita e mediata dalle cosiddette “formazioni del discorso”.

Per spiegare questo termine, “formazioni del discorso”, occorre dire che una mania tipica della teoria, e del decostruzionismo in particolare, è la voglia di “denaturalizzare”, cioè mostrare che nulla è naturale. Da un lato questa è una tautologia, quando si tratta di cultura, che per definizione non è la natura. Comunque per farci capire che nulla è naturale, negli scritti di teoria veniamo spesso avvertiti che ciò che viene chiamato con un sostantivo, per esempio “storia”, “letteratura”, “comunità” “istituzione”, “sesso”, non sono in realtà “cose”, ma “pratiche discorsive” o “processi discorsivi”, e che indicare queste pratiche con un sostantivo è comodo, ma è soltanto un modo figurato di parlare, e precisamente un impiego di quella figura retorica che si chiama “catacresi”, che in sostanza vuol dire “abuso”. Quindi usare i sostantivi è abusare della lingua. Perciò per comodità si presentano i fenomeni in modo per lo meno impreciso, perché nella cultura non esistono sostanze ed essenze, ma solo molteplicità fluttuanti di operazioni, comportamenti e strategie.

Così Tony Eagleton può sostenere per esempio che il concetto stesso di “letteratura inglese” è un’invenzione, istituzionalizzata col proposito di attirare l’attenzione dei lettori su qualcosa di apparentemente concreto e stabile, qualcosa capace di sviare verso interessi estetici le energie critiche che altrimenti investirebbero la realtà sociale.

La convergenza di tutte le discipline nella teoria, inoltre, abolendo le distinzioni, porta ad un obiettivo restringimento metodologico in un unico gruppo, molto riduttivo, di procedure. Un antidoto a questo riduzionismo sembra essere l’emergere di un principio generatore, e precisamente del principio della differenza, che non è più la differenza tra i vari tipi di studio, ma tra i vari tipi di linguaggio: il linguaggio delle diverse classi sociali, oppure il linguaggio del maschile e del femminile, o il linguaggio degli orientamenti sessuali, o il linguaggio delle differenze razziali ed etniche. E’ evidente la contraddittorietà del fatto che il principio della differenza così inteso diventi l’unico criterio metodologico capace di spiegare tutte le diversità.

L’interdisciplinarietà, individuata come origine della teoria, non è peraltro che uno dei tanti mutamenti che, in un quadro più generale e più vasto, caratterizzano la seconda metà del Novecento, e che comportano da un lato l’erosione di stabili certezze filosofiche, politiche e sociali, dall’altro, in campi più affini agli studi umanistici stessi, implicano il crollo delle barriere tra cultura alta e cultura bassa, il sovrapporsi dei margini tra finzione e realtà, tra logica e retorica, tra invenzione e scoperta. E naturalmente vengono meno le distinzioni e i confini tra le arti e ogni forma espressiva spettacolare ed esistenziale, in un sistema di reazioni a catena, dove funge da catalizzatore l’affermarsi di tecnologie che creano nuovi ambienti informativi, e quindi nuovi modelli umani e cosmologici.

La teoria letteraria tende a dissolversi nella critica culturale nella sua accezione antropologica, evidenziando un terreno comune con lo strutturalismo, ma anche in altri sensi. La critica è culturale perché si ritiene che la realtà stessa sia l’effetto di una costruzione concepibile solo entro i confini dei propri paradigmi culturali. Di qui derivano sia il decostruzionismo come smascheramento dell’arbitrarietà dei significati, sia la questione del cosiddetto circolo ermeneutico, per cui non sarebbe comprensibile nulla che non sia già pre-conosciuto, cioè già compreso nella cultura a cui apparteniamo.

Ma se la cultura è qualsiasi manifestazione materiale o spirituale della vita di una comunità, e se si dice che la cultura è una forma di dominio che reprime tutto ciò che non è asservito al potere che essa rappresenta, qualsiasi espressione della nostra vita è sempre asservita al potere, è sempre repressiva delle altre culture, e anche dei nostri desideri. Ma oltre al fatto che non sarebbe possibile distinguere, che so, l’abitudine di stringersi la mano dalle camere a gas, perché sarebbero entrambe fatti culturali e dunque repressivi, si giunge anche alla conclusione che se tutto è repressivo, niente può non esserlo e quindi non ha più senso la stessa categoria della repressione.

In un altro senso la critica è culturale in quanto intende intervenire attivamente nella cultura di una data comunità, e quindi si deve intendere per critica non soltanto ciò che in inglese si dice “criticism”, ma ciò che si dice “critique”, intervento di analisi e discussione ad hoc con un intento pratico su argomenti specifici per lo più attuali. In questo modo si nutre l’ennesimo paradosso di una teoria che si attarda a teorizzare l’urgenza della pratica. E anche rispetto alla pratica, come vedremo, vede contrapposti coloro che pensano che la pratica politica si debba realizzare nel modo di insegnare la teoria dentro le accademie, e dunque investe i problemi della professionalità, e coloro che invece pensano che la consapevolezza teorica si realizzi solo portandola nella politica al di fuori delle università.

Naturalmente la fine della critica letteraria si può fare risalire a una certa fine della letteratura stessa, o per lo meno alla fine di un certo modo tradizionale di intendere la letteratura, databile dal momento in cui le opere letterarie sono state considerate solo testi, e come tali non solo senza distinzione di generi, ma soprattutto senza una specificità inventiva che distingua il testo letterario da ogni altro tipo di testo, per esempio da un saggio storico o dalla guida del telefono. E’ evidente che se la letteratura annega nella testualità indifferenziata, la critica propriamente letteraria non ha più senso.

Si sostiene invece che proprio la testualizzazione del mondo, cioè il fatto di considerare il mondo come un testo, ha esteso la metodologia della critica letteraria, in forma di close reading, ad ogni altro campo di analisi e riflessione. Il pioniere di questo atteggiamento è Roland Barthes, che in uno dei suoi primi e migliori libri Mithologies (1957) analizzava fenomeni come la lotta libera, il tour de France, lo strip-tease e persino la bistecca con patate fritte, con la serietà fino ad allora dedicata solo alle opere letterarie. In una sua satira Malcolm Bradbury rappresenta infatti Roland Barthes al ristorante con il suo allievo Mensonge, mentre cercano di leggere appunto una bistecca con patate, finché il cameriere spazientito gli dice di mangiare la bistecca o di andarsene.

L’idea che il mondo sia un testo e quindi leggibile e interpretabile coi metodi della critica letteraria è da prendere con qualche cautela, perché lo spostamento delle mete ermeneutiche nell’uso degli strumenti interpretativi produce un effetto diverso sui risultati dell’applicazione. Voglio cioè dire che applicare, non dico alla bistecca con patate, ma anche solo ad un saggio storico una metodologia analitica di carattere linguistico-letterario, che prende in considerazione lo stile di scrittura, la retorica o le tecniche narrative, non trasforma per questo il saggio storico in un’opera di invenzione simile al romanzo, come sembrano credere per esempio Hayden White e la sua scuola di costruzionismo storico.

Sarebbe come dire che andare in bicicletta a scuola o andare in bicicletta al parco con la ragazza è la stessa cosa, perché in entrambi i casi si adoperano il manubrio e i pedali. Oppure che se, per difendermi da un aggressore, lo colpisco in testa con una zappa, la sua testa diventa automaticamente un campo arato. E’ chiaro che l’uso dello stesso mezzo non determina lo stesso fine, caso mai è ovvio il contrario: l’analisi stilistica può diventare uno strumento di analisi storica, sebbene con molte mediazioni e adattamenti.

A dire il vero tuttavia, non è l’applicazione dei metodi dell’analisi letteraria che rende letterario ciò che letteratura non è. È bensì, al contrario, la decisione a priori che la realtà non è conoscibile se non attraverso il linguaggio, e quindi è costruita con i meccanismi del discorso e della retorica, che porta alla conclusione, secondo me errata, che si possa intervenire nel mondo soltanto attraverso il linguaggio, soltanto smascherando la sua retoricità, cioè decostruendo quelle formazioni del discorso che il linguaggio, in mano al potere, ha arbitrariamente costruito.

Tuttavia vi è un'altra circostanza per cui la letteratura può considerarsi finita, una circostanza di cui la letteratura stenta ad accorgersi, ma che ha più concreti effetti di quelli ipotizzati dalla testualità, ed è il fatto che la letteratura come costrutto meramente verbale non è più in grado di svolgere la sua funzione nei riguardi di quelli che finora erano stati i lettori. Non a caso la semiotica ha da sempre parlato di fruitori e non di lettori. Infatti, non solo l’uomo massa, ma anche il cittadino consapevole e informato sta diventando piuttosto un assemblatore e un transcodificatore di mezzi diversi, e affida la sua fame di affabulazione al flusso informativo indiscriminato, entro il quale, tra cronaca, informazione spettacolarizzata e illusione di interattività democratica con gli avvenimenti politici e ludici, si ritaglia una sua finzione storica personale. 

Le opere letterarie sono state perciò sostituite, come oggetto di fruizione estetica, dai cosiddetti “eventi”, cosa che per esempio alcune poetiche delle arti visive contemporanee hanno già capito, in particolare per esempio l’arte concettuale. Perciò occorrerebbe introdurre un nuovo termine, per dire che la letteratura è stata rimpiazzata dalla “evenemenzialità”. In tale dimensione l’idea postmoderna per cui la realtà è anch’essa una finzione sembra empiricamente verificabile. La realtà sembra infatti una finzione che il fruitore vive esteticamente ed eroticamente come un tempo leggeva i romanzi o andava al cinema, e senza alcun bisogno della vera e propria “realtà virtuale”. Infatti la realtà virtuale, dopo i primi entusiasmi, sembra avere perso molto del suo fascino, appunto perché ogni realtà “reale” è già selezionata e contestualizzata a fini sensazionalistici ed emotivi, e ogni virtualità è messa a disposizione del consumo come evento fruibile. 

Per esempio, all’imminente uscita dei nuovi episodi di Guerre Stellari si accostano e si sovrappongono le notizie e le immagini dell’attesa spasmodica degli spettatori: la finzione del film si mischia e si confonde così con l’apparente realtà dell’attesa, creata ad arte, e tutto viene vissuto allo stesso modo nella sua dimensione di evento.

Affinché una cosa qualsiasi si trasformi in evento deve essere quindi spettacolarizzata. Tuttavia anche la spettacolarizzazione è una categoria che va maneggiata con più attenzione. Infatti per esempio non si capisce perché le guerre spettacolarizzate dai poemi omerici si possono ammirare come il prodotto dell’identità epica di una grande civiltà, mentre la spettacolarizzazione televisiva della Guerra del Golfo sia stata a suo tempo criticata come mistificazione, che trasformerebbe la realtà in un videogioco. Le immagini dei profughi del Kossovo invece erano  troppo drammatiche, per cui a suo tempo ad accusare la televisione di spettacolarizzazione e falsità furono solo i nazionalisti serbi, i quali sostenevano che i profughi erano comparse di Hollywood.

La teoria, tra volontà e necessità, è dunque divisa e composta da due impulsi, quello di intervento critico con effetto pragmatico, per quanto culturale, che influenza la politica; e l’impulso a transcodificare, che di necessità impegna la critica a districarsi nella babilonia dei messaggi e dei diffusori. Forse per questo si è prodotta la digitalizzazione.

Ma torniamo al momento del passaggio dall’età della critica all’età della teoria. Il new criticism o formalismo americano nasce negli Anni Trenta e domina nelle istituzioni fino agli Anni Cinquanta, quando comincia, dopo il 1957, l’intensa influenza di Northrop Frye, allo stesso tempo breve e perdurante. Infatti sia il close reading dei new critics, sia la riflessione sui generi e sugli archetipi di Frye restano e pervadono la pratica critica, come sapere di base, anche quando inizia l'epoca dello strutturalismo che in America, dalla fine degli Anni Sessanta, coincide sin dall’inizio con la conversione post-strutturale e decostruzionista. Anche la teoria del resto, come già si sostiene da qualche parte, sarebbe ormai morta, ma appunto nel senso che ha ormai trionfato, perché è stata assimilata come abitudine a porre sempre in questione le premesse teoriche di ogni discorso.

Il formalismo dei new critics trovava la propria identità nell’enfasi posta sullo specifico poetico e letterario e, a differenza di quanto i suoi avversari sostengono, non ripudiava la storia, bensì rifiutava la visione deterministica di un’influenza diretta e unidirezionale della storia sulle arti, rivendicando a queste ultime invece la capacità di contribuire al divenire sociale, ovviamente in termini di storia delle forme, storia delle idee e storia della cultura.

Il fondamento ideologico di queste posizioni era a sua volta contraddittorio, perché i new critics sono reazionari; rimpiangono un’America preindustriale e radicata nei valori di un’economia agraria, idealizzata e del tutto anacronistica nella prima metà del Novecento. Tuttavia il loro sentire reazionario è una delle tante forme di reazione alla società di massa, condivisa da tutti i modernisti, che infatti come i new critics vedono nella poesia lo strumento salvifico che permette all’umanesimo di sopravvivere in un mondo dominato dalle macchine, dall’astrazione scientista e dal pensiero sociologico, un mondo dominato dalle quantità e non dalle qualità.

Sebbene di fatto reazionari, i new critics vedevano proprio nel linguaggio poetico quella diversità dagli intenti pratici, filosofici o scientifici, che dà alla letteratura la capacità di resistere alle imposizioni dell’ideologia e della politica dominanti. Essi perciò, sebbene conservatori, sono attestati pienamente su quelle posizioni, condivise dalla critica di sinistra, che attribuiscono costitutivamente all’arte il compito di dar voce alle opposizioni, o come si dice oggi di farsi portavoce dell’Altro, sennonché questo altro per i new critics andava cercato nelle grandi opere antiche e moderne, capaci di trascendere la banalità e la chiusura delle ideologie, mentre per la critica culturale di sinistra è piuttosto da cercare in tutto ciò che appare represso e, come si usa dire, marginalizzato.

La mia opinione è che la marginalizzazione vada distinta dalla repressione, e debba essere considerata invece come posizione in un certo senso privilegiata, come luogo in cui si elaborano i fermenti di rinnovamento e crescita delle culture. Nel sistema culturale il cosiddetto margine, lungi dall’essere il luogo del contenimento, ha la sua funzione preminente come laboratorio. La novità nasce ai margini e gradualmente matura, spostandosi al centro delle culture. E nasce ai margini proprio perché il margine è la fascia di contatto con le altre aree culturali, e dove l’interculturalità è una necessità. La marginalizzazione non va quindi considerata un processo di espulsione dai luoghi centrali del potere, bensì l’azione con cui una cultura protende le sue radici alla ricerca di nutrimento sperimentale. Ovviamente va vista anche come luogo dell’ingenuità, della relativa incoscienza, della rozzezza non sofisticata, tutti caratteri primitivi e giovanili che saranno modificati dalla lunga marcia di conquista e di imitazione del centro, raggiunto il quale si depositeranno nella tradizione. Basti pensare ai Beatles e ai Rolling Stones.

Il formalismo americano dunque non dimentica la storia, ma la filtra attraverso la filologia, e soprattutto supera la filologia stessa, inventando di fatto la critica letteraria propriamente tale, scissa dalla storia letteraria fatta di biografismo e nazionalismo, e comincia ad usare gli strumenti della semantica, della stilistica e della linguistica stessa, sull’esempio di Richards e poi di Wellek e di Jakobson, strumenti peraltro non privi di contaminazioni positivistiche che ai new critics, per i loro presupposti ideologici già ricordati, non sarebbero dovuti piacere.

Sistematizzare alcuni modi, ritenuti più adatti di altri, di leggere le opere letterarie porta comunque i new critics a prefigurare una teoria letteraria, che però non interessa in quanto tale, ma solo come patrimonio metodologico da porre al servizio di tutti per capire meglio la letteratura. Essi quindi sentivano di svolgere anche un compito di democrazia ideale, che servisse a spiegare come il piacere della lettura derivasse dalla complessità organica e anti-ideologica delle opere d’arte, complessità che costituiva anche un modo peculiare di conoscere, superiore a quello dell'astrazione scientifica, perché “universale” e “concreto” insieme. Per cui ad esempio mentre una definizione scientifica del cavallo può far capire solo la cavallinità, cioè un’idea generale comune a tutti i cavalli, la poesia invece può dare il senso di un cavallo nella sua particolarità e nella sua concretezza.

Ma una volta messa in moto, la teoria della critica evolve per conto proprio, si libera dei suoi scopi democratici e di servizio e si istituzionalizza in modo indipendente. Laddove i new critics nella loro ingenuità cercavano di dare il senso dell’autonomia metodologica della critica sotto la ragione sociale semiseria di “Criticism Inc.”, la nemesi fa sì che questo processo sfugga dalle loro mani di apprendisti stregoni, e diventi davvero un’impresa volta ad invadere tutte le discipline e ad occupare le istituzioni accademiche.

Si può anche dire che la prima parte della nostra storia vede il formalismo impegnato in un processo coesivo, volto a identificare la natura e la funzione della letteratura, ed è stato osservato che questa fase centripeta si conclude ironicamente col convegno del 1958 all’Università dell’Indiana su “Linguistica e letteratura” dove la storica relazione finale, tenuta da Jakobson, intitolata “Linguistics and Poetics”, recava appropriatamente come sottotitolo: “Concluding Statement”. Dopo di allora in effetti comincia tutta un’altra storia, e il paradigma teorico è preda delle forze centrifughe che tendono a smembrare l’oggetto letterario nelle più diverse direzioni.

Con lo strutturalismo, il formalismo vive il suo culmine, dopo di che la letteratura diventa campo di incursione di interessi non estetici, ma sociali e scientifici; la teoria non dipende più dalla pratica e, sotto l’effetto dell’interdisciplinarità, il significato stesso del termine “teoria critica” si avvicina a quello del pensiero sociologico della Scuola di Francoforte.

Ora siamo arrivati al punto che, per esempio, nell'annata 1998-99 di Critical Inquiry, una delle più eminenti riviste di critica pubblicate in America, su una quarantina di saggi, solo uno si occupava in modo diretto di letteratura. Tutti gli altri si occupavano di storia sociale e psichiatria, di fotografia e pornografia, di psicanalisi, filosofia, femminismo; si occupavano del corpo, di etnografia, di arte e altre cose, mischiate o separate.

Sin dall’inizio, questo spostamento di interessi si avverte anche nell’uso dominante del verbo “demistificare”, che viene usato principalmente per spogliare la letteratura del suo carattere privilegiato ed estetico, cioè in sostanza per smascherare l’ideale di disinteresse che, secondo l’estetica kantiana, l’opera d’arte attinge nella sua forma. Ciò fa sì che il testo letterario non sia più oggettivo come postulavano i new critics, bensì mobile e instabile, perché soggetto agli interessi mutevoli, sociali, economici e politici, dei lettori. La cosiddetta morte dell’autore è stata vista come la morte di un tiranno, che ha prodotto finalmente la libertà interpretativa del popolo dei lettori. La critica perciò, come ogni lettore, trova nei testi solo ciò che i suoi interessi contingenti vi hanno messo.

Se però applichiamo tale metodo anche ai demistificatori decostruzionisti, dovremmo concludere che anche la volontà di demistificare corrisponde ad un loro interesse contingente, e quindi la tesi che il disinteresse dell’arte è una mistificazione borghese è a sua volta un’invenzione interessata, che serve solo agli interessi di chi vuole apparire un demistificatore.

Un particolare risultato della morte dell’autore è per esempio l’incertezza sull’attribuzione del giudizio critico. Non è chiaro se, e in che modo, il critico decostruzionista sia interessato o no ad esprimere giudizi di valore sui testi. Ipotizziamo che li esprima: nel caso che siano giudizi negativi, se cioè quello che legge non gli piace, la colpa sarà solo sua, perché, secondo la sua teoria, non è l’autore, ma il lettore che porta nel testo tutto quello che c’è, e quindi anche tutti i motivi di insoddisfazione.

Nel caso che siano invece giudizi positivi, da cosa dipende il giudizio positivo? Dipende dal fatto che tali testi sono perfetti? Così perfetti da non prestarsi alla decostruzione? O, più probabilmente, dipende dal fatto che tali testi sono proprio quelli che, per la loro alta qualità mistificatoria, permettono al decostruttore di esibire nella sua performance tutta la sua abilità nello smascherarli? Se così fosse, poiché lo scopo della lettura e della critica è smascherare, il testo più apprezzabile sarebbe il testo più falso. E il testo più falso sarebbe appunto quello che finora è piaciuto di più. Insomma, quella che prima era considerata la perfezione della forma, cioè la bellezza, sarebbe di per sé ancora appetibile, ma come il massimo della falsità e della malafede. Perché, secondo tale teoria, ciò che ci piace ci inganna sempre. Per non essere ingannati dovremmo leggere solo ciò che non ci piace. La teoria decostruttiva sembra l’estetica del masochismo. E dopo aver dimostrato che i libri che ci piacciono ci ingannano e averli demistificati, ci possono piacere ancora o no? E se non ci piacciono più, questo cambiamento di opinione rende i testi brutti? E se li rende brutti, possiamo quindi, in senso decostruttivo, tornare ad apprezzarli? Ma se torniamo ad apprezzarli vuol dire che ci ingannano di nuovo? E così via all’infinito?

Questo tipo di complicazioni, ma anche soprattutto l’atteggiamento involutivo e quasi autoreferenziale del decostruzionismo, che non intende confrontarsi con altre metodologie le quali non accettano la perpetua instabilità dei significati, oppure hanno altri interessi preminenti, come il femminismo, gli studi post-coloniali, il nuovo storicismo e il materialismo culturale, porta, verso la metà dagli Anni Ottanta, ad accorgersi che nel frattempo, quasi improvvisamente, si è verificata una svolta verso i cosiddetti studi culturali.

In effetti accanto al decostruzionismo, oltre alla sopravvivenza del close reading e della critica archetipica e lo studio dei generi, si erano sviluppati altri metodi e interessi teorici, quali quelli della narratologia, della fenomenologia, della critica della ricezione e la cosiddetta reader-response criticism di Jauss e Iser in Germania e di Stanley Fish in America. E poi c’era sempre la critica di ispirazione marxista, la critica psicanalitica in varie versioni, e infine la critica ispirata alle minoranze etniche e sessuali. Molte di queste metodologie contaminano gli studi culturali, compreso il decostruzionismo stesso. Ma seguendo le trasformazioni della teoria, possiamo dire che, come il formalismo dei new critics aveva trovato la propria identità opponendosi al vecchio storicismo, ora che il formalismo si è complicato trasformandosi nel decostruzionismo, la storia riprende il sopravvento sotto forma di studi culturali e nuovo storicismo.

Perciò abbiamo quattro elementi: new criticism, decostruzionismo, vecchio storicismo e nuovo storicismo, che si confrontano e si oppongono a due a due in quattro combinazioni. Sul piano del rapporto tra storia e critica, a suo tempo il vecchio storicismo si opponeva al new criticism; così come oggi il nuovo storicismo e gli studi culturali si oppongono al decostruzionismo. Sul piano degli sviluppi metodologici della critica, il new criticism si oppone al decostruzionismo. Sul piano della storia, il vecchio storicismo si oppone al nuovo storicismo.                     

Partiamo da quest’ultima opposizione. Per non dilungarmi tralascerò gli aspetti propriamente americani del dibattito, che ha le sue radici nel Settecento, coi conflitti fra tory e whig, fra America e Inghilterra, tra individualismo protestante e universalismo cattolico. Dirò invece che i due storicismi, il vecchio e il nuovo, si differenziano per il diverso modo di concepire la storia stessa: per il vecchio storicismo la storia era un terreno stabile, scientificamente fondato, al quale riferire le opere letterarie prodotte da un determinato periodo storico: la storia, costituita di fatti concreti e documentati, era una base certa, in grado di aiutare a capire la letteratura, costituita invece da testi soggetti a interpretazioni opinabili.

Per il nuovo storicismo la storia è un discorso egualmente arbitrario e culturalmente costruito quanto ogni altro e quanto quello letterario stesso; perciò storia e letteratura giostrano in una circolarità di elementi mobili insieme alle altre scienze umane, in linea di principio senza prevalenza di nessuna sulle altre, ma di fatto lo scopo dell’analisi dei protocolli storici e letterari, non più distinguibili, mira a dimostrare la retoricità di ogni documento, considerato a sua volta il sintomo di una configurazione sociopolitica e di una repressione culturale.

Premesso che in linea di principio, tutti i tipi di critica, se condotti con intelligenza, danno un contributo utile alla conoscenza della letteratura, vorrei citare, come esempio di critica culturale, il modo in cui Stephen Greenblatt, che pure è uno dei maggiori esponenti di tale indirizzo, interpreta La tempesta di Shakespeare.

Egli comincia col dire che alla fine della sua carriera Shakespeare vuole sfruttare l’interesse dei suoi contemporanei per le scoperte geografiche. Poi sostiene che Shakespeare legittima in quest’opera le pretese degli europei di avere il diritto di impadronirsi delle nuove terre. Si sofferma a sottolineare, e qui non si capisce perché, che la magia di Prospero, in quanto magia, non è tanto legittima. Rimprovera poi genericamente a Shakespeare di non aver mai contestato nelle sue opere il potere monarchico. Lo loda invece perché fa parlare Calibano contro il potere di Prospero, con la voce degli oppressi. Conclude dicendo che il compito della critica culturale è analizzare le fonti del potere e prestare orecchio alle richieste di Calibano. 

Ora a parte il fatto di trascurare che Prospero, se si legge onestamente il testo, non è un colonizzatore, ma un profugo, un rifugiato politico perseguitato, che non ha nessuna voglia di rimanere sull’isola, e infatti se ne va appena possibile, lasciandola ben volentieri a Calibano; il punto è un altro e precisamente: che interesse ha lo spettatore per le questioni prese in considerazione da questo tipo di critica? Soprattutto in relazione a quello che vorrebbe essere il significato principale della Tempesta, cioè che la saggezza della maturità permette a Prospero di scegliere il perdono invece che la vendetta, sia personale sia politica.  Inoltre, avere dei poteri magici o non averli non è questione di legittimazione politica, mi pare, ma di genere letterario: nei romance i personaggi esercitano poteri sovrannaturali. Lo scopo di questa attribuzione è probabilmente di far divertire gli spettatori con effetti fantastici.

Ma proseguiamo: ascoltare la voce di Calibano va benissimo, ma non perché sia questo lo specifico compito della critica, bensì perché è una voce che Shakespeare ha inventato e a cui ha attribuito un particolare ruolo nell'insieme dell'opera. Se questo ruolo è la voce degli oppressi, questo sarebbe proprio un fatto da analizzare in dettaglio, perché dire gli oppressi in generale è generico e mistificante, e anche banale. Che tipo di oppressione? Per esempio quella di avergli insegnato a parlare? O di costringerlo a lavorare? Anche Ferdinando viene costretto a lavorare per Prospero, oltre naturalmente ad Ariel: sono tutti oppressi e oppressi allo stesso modo? E il lavoro è oppressione o un diritto, su cui, per esempio, si possono fondare le costituzioni? E la liberazione finale non è appunto l’effetto del lavoro magico di Prospero, ma anche di tutti gli altri abitatori dell’isola?

Infine venirci a dire che Shakespeare non scrive opere contro il potere della monarchia, quando le sue opere venivano rappresentate anche a corte, non mi sembra una scoperta critica. Se la critica deve occuparsi principalmente di questo mi sembra che perda il suo tempo con delle ovvietà.

Un’altra opposizione è quella tra vecchio storicismo e new criticism. Abbiamo già visto come il formalismo dei new critics si sia formato proprio per trascendere il determinismo di un insegnamento accademico che voleva la letteratura diretta conseguenza delle caratteristiche storico-sociali di un’epoca. Il new criticism cerca di elaborare invece un apparato di principi teorici in grado di cogliere le trasformazioni che i materiali storico-filosofici subiscono quando vengono utilizzati nella poesia e nella finzione, così da poter giudicare la letteratura per le sue qualità propriamente letterarie.

Ancora oggi infatti un valido modo di definire la letteratura (naturalmente per coloro che ritengono che sia ancora interessante farlo) è di considerarla come “linguaggio decontestualizzato”, libero da altri scopi se non quello di attirare l’attenzione su se stesso. Questo non toglie che la letteratura delle varie epoche abbia attirato l’attenzione su se stessa in modi molto diversi tra di loro, e questi modi risentivano a loro volta del contesto storico.

Vi è poi il rapporto tra new criticism e decostruzionismo: che è in sostanza il passaggio già menzionato dalla letteratura alla testualità. E’ anche il passaggio dal postulato dell’organicità dell’opera letteraria al postulato dell’aporia insanabile del linguaggio, il passaggio dalla ricerca del significato alla fluttuazione del significante, il tutto a partire dal distorcimento di ciò che Saussurre dice della lingua come sistema di segni, che per i decostruzionisti si trasforma, non si sa perché, in sistema di significanti, con perdita totale del significato. Perdita che i decostruzionisti chiamano differimento. A questo proposito si potrebbe dire che la teoria decostruzionista è anche un’arte dell’eufemismo.

Lo strutturalismo si proponeva di mostrare la sistematicità dei codici che rendono possibile il linguaggio, la coscienza, la significazione, la società, e vedeva nel lettore il luogo dove questi codici si attivano. Il post-strutturalismo predica invece l’impossibilità di portare a termine questo compito; evidenzia l’instabilità dei codici stessi e, a partire dal saggio di Derrida, “La struttura , il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane”, diventa decostruzione, perché, criticando il concetto di struttura come sistema organizzato, capace quindi di stabilizzare il significato, rivendica la libertà di quello che egli chiama il gioco. Il gioco è il continuo spostamento dei significati, in modo da rendere incerte e problematiche, in modo cioè da "decostruire", tutte le opposizioni di concetti: dentro/fuori, mente/corpo, presenza/assenza, natura/cultura, e ogni altra, che hanno reso possibile la storia della filosofia occidentale. Un effetto di ciò è quello scetticismo epistemologico che ho menzionato all’inizio.

I critici culturali ritengono che i decostruzionisti rimangono chiusi nella prigione del linguaggio, li accusano di rendere solo più sofisticati i metodi d’analisi dei formalisti, in una perpetua regressione che cerca di ritrovare nell’intertestualità le tracce del passaggio dei significati che il gioco interpretativo ha sempre di nuovo spostato altrove. Essi hanno invece una concezione militante della critica, volta a denunciare nel linguaggio la pressione del potere. Viceversa i decostruzionisti ritengono che uscire dal testo e cercare di toccare nella realtà i rapporti di forza del contesto sociale come luogo di origine del linguaggio sia un ritorno all’essenzialismo metafisico dell’ontologia, già criticata dal post-strutturalismo.

E’ a questo punto che i nuovi storicisti e i materialisti culturali, facendo, almeno in parte, fronte comune col femminismo e le culture minoritarie, abbandonano l’impresa della decostruzione e cercano di andare oltre il discorso, per scoprire chi è che dà la forma alle cosiddette formazioni del discorso, cioè le forze socio-politiche. Il loro scopo, come abbiamo già visto a proposito dell’esempio di Greenblatt, è di porre al testo le seguenti domande: chi esercita il potere? Contro chi? Con quali strategie retoriche? (E abbiamo già illustrato il caso della catacresi.) Quali interessi sono favoriti da certi usi del linguaggio? Di solito peraltro le risposte sono sempre le stesse: si mettono sotto accusa la retorica patriarcale, o razziale, o coloniale, o sessista. Ma adesso si scoprono nuovi bersagli: per esempio la retorica che privilegia le espressioni dello spirito e reprime quelle del corpo, che privilegia la sofisticazione intellettualistica e marginalizza il sentimentalismo e le sensazioni. Su questa linea si potrà escogitare una critica ecologista, animalista, e perché no, ufista, che si occupa della marginalizzazione degli ufo.

Se questo abbandono del decostruzionismo fa sì che neo-storicisti e critici culturali ritrovino una certa stabilità di significati nelle formazioni del discorso, non per questo li mette al riparo da altri dilemmi e contraddizioni, nemmeno tanto nuovi. Per esempio: rivalutare i generi popolari della cultura di massa è positivo perché significa prestare orecchio alla voce degli strati sociali finora marginalizzati ed oppressi, come sosteneva Raymond Williams in Inghilterra fin dall’inizio degli Anni Sessanta? O è negativo, perché giustifica l’esclusione delle masse popolari dalla fruizione della cultura alta, come sosteneva in America Dwight MacDonald, sempre nei mitici Anni Sessanta?

Ma alla luce degli sviluppi degli studi culturali, la letteratura popolare, ma in linea di principio ogni livello di cultura, non è forse comunque lo strumento con cui il potere produce e distribuisce le identità culturali dei vari gruppi e delle varie comunità?

E infine il cosiddetto potere, fatto si suppone di organizzazioni politiche, corpi e burocrazie statali, imprese multinazionali, industrie della comunicazione, plurimiliardari di Silicon Valley… questi dove prendono la loro identità culturale? Chi gliela fornisce? Ed è egualmente oppressiva anche per loro? O essi vivono felicemente liberi da ogni cultura e quindi da ogni oppressione? Insomma le masse sono stupide perché oppresse o la cultura di massa viene repressa ma non è stupida? Ripeto: le élites del potere, sono al potere senza cultura? O la loro cultura per loro non è repressiva? E allora non dovremmo condividerla tutti, come già proponeva Matthew Arnold nel tanto disprezzato Cultura e anarchia già nel 1869?

Torniamo invece al futuro. Il futuro della teoria, dopo la sua presunta morte, sembra prendere due strade, che di nuovo possono essere viste come ulteriore divaricazione tra autonomia ed eteronomia della letteratura e della critica, ma che hanno in comune l’interesse per il modo di produzione e riproduzione sia della letteratura o di ciò che l’ha sostituita, sia della critica.

Dopo aver fatto un passo indietro ritirandosi dall’analisi del significato dei testi all’analisi delle condizioni che rendono possibile il significato, la teoria ora sembra voler fare un altro passo indietro, ponendosi il problema di analizzare soprattutto quali condizioni rendono possibile le istituzioni entro le quali i lavoratori della cultura, e i professori di materie umanistiche in particolare, operano; per quali fini, e sulla base di quali valori.

Le condizioni di produzione della letteratura risentono della svolta multimediale, dell’ipertestualità, e della sempre maggiore necessità di investimenti finanziari per la fattibilità dei prodotti. A tal proposito la critica dovrebbe occuparsi dei nuovi consumi e dei nuovi modi indotti di fruizione, che sembrano accentuare gli aspetti ludici delle arti a danno degli aspetti intellettuali: una grande sofisticatezza ingegneresca è impiegata per produrre programmi che vengono poi consumati principalmente in termini di riflessi condizionati nel gioco interattivo dello stimolo-risposta.

D’altro lato la teoria riflette anche sulla convergenza di certe sue posizioni con gli effetti dello sviluppo telematico che, secondo George Landow e la sua scuola, permetterebbe di realizzare concretamente alcune delle ipotesi decostruzioniste, per esempio riguardo alla cooperazione del lettore come coautore di una variazione infinita di forme flessibili e di versioni non lineari del testo. 

L’altra via riguarda invece il destino della professione accademica e le scelte della politica pedagogica. Riassumendo un lungo e complesso dibattito, possiamo costruire uno spettro di posizioni che, dal punto di vista politico, si dispongono da destra a sinistra:

a) più a destra abbiamo coloro che ritengono che il compito del professore di materie umanistiche sia quello di leggere i testi con gli studenti;

b) procedendo gradualmente verso sinistra abbiamo coloro che vogliono leggere i testi, ma allargando il canone ai testi finora marginalizzati;

c) poi ci sono coloro che ritengono che occorra leggere non solo i testi, ma tutti i fenomeni socio-culturali, per insegnare agli studenti a interpretarli criticamente;

d) più a sinistra ancora ci sono coloro che ritengono che questo compito critico vada rivolto anche a noi stessi e alle nostre istituzioni, per esaminare il nostro ruolo come trasmettitori e consumatori di cultura;

e) ancora più in là coloro che ritengono che occorra essere consapevoli che, sia i professori, sia gli studenti non sono solo trasmettitori e consumatori di cultura, ma contribuiscono a produrla direttamente, con comportamenti pratici e atteggiamenti morali;

f) infine c’è chi ritiene che la cultura sia un luogo di scontro, dove occorre battersi per far emergere forze non ancora manipolate dal potere dominante.

Come si vede si aprono tante prospettive di discussione, ma “tempus fugit”, quindi più che verso una conclusione mi avvierò a una sospensione. Vorrei solo aggiungere che, mentre noi in Italia stiamo vivendo i tentativi di un cambiamento delle istituzioni universitarie, imposto dirigisticamente da un gruppo di burocrati in vena di imitare certe strutturazioni curriculari americane, in America ci si interroga sulla funzione dell’insegnamento o sulla divisione classista fra gli insegnanti che possono permettersi di dedicarsi alla ricerca e quelli che sono oberati dal carico didattico.

Non vorrei qui concludere con quella tipica nota pessimistica con cui di solito, da una generazione all’altra, ci si accorge che mentre noi pensavamo a come cambiare o mantenere il potere, nel frattempo il potere ha cambiato noi. Mi sembra invece ottimistico osservare che, secondo la mia esperienza, la tanto citata undicesima tesi di Marx su Feuerbach secondo cui non basta capire la realtà, ma bisogna cambiarla, assume nel rapporto pedagogico, per sua natura e con tutti i suoi limiti, una peculiare dimensione terapeutica, terminabile o interminabile che sia: quando faccio lezione, oltre a fornire un certo numero di nozioni, ho il sospetto di curare i miei ascoltatori, mentre i miei ascoltatori curano me.

 

 

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