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 LE RAGIONI SOCIALI E STORICHE DELLA DESTRA    

Introduzione
Il pensiero politico nazionale della destra
La difesa del lavoro nel pensiero della destra
Il pensiero economico della destra tra socializzazione e liberismo
La destra tra monetarismo ed interesse nazionale
La destra italiana tra irredentismo ed europeismo
Le ragioni sociali dell'Europa
Nazionalismo e mondialismo nel pensiero politico di destra
Unione monetaria, globalizzazione e stato nazionale
Relazione di sintesi
Dibattito

 
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Unità monetaria, globalizzazione e Stato Nazionale

Relazione di GianLuigi Cecchini della Università di Gorizia

1) Premessa
Come è noto, lo Stato moderno è un fenomeno relativamente recente, così come lo è la sovranità, che nella sua forma moderna, è una manifestazione, una rivendicazione politica del controllo esclusivo di un determinato territorio. La sovranità è dunque un concetto unitario e non può essere delegata, ne limitata. A ciò devono aggiungersi gli aspetti internazionali dello sviluppo della sovranità, ove si consideri che gli accordi tra gli Stati tesi a favorire la non interferenza nei rispettivi affari interni - accordi che hanno la funzione de garantire la domestic-jurisdiction - sono (stati) essenziali al fine di determinare il potere dello Stato al proprio interno e sulla comunità internazionale. Ciò che si può rilevare è che, dopo la fine della guerra fredda, si sono modificate le capacità di governo dello Stato nazionale, modifica che alimenta l'errata impressione di decadenza e di superamento dello Stato nazionale. In realtà, mentre si sono andate modificando le funzioni di gestire dello Stato, quest' ultimo continua a essere una istituzione di vitale importanza, non foss'altro perché è lo strumento attraverso cui dovrebbero potersi creare le condizioni necessarie per un efficiente governo internazionale.
Circa poi la modalità di gestione e il ruolo dello Stato, si deve prestare attenzione ad alcuni profili che riteniamo essenziali alla comprensione del fenomeno di cui ci stiamo occupando. Anzitutto, non sembra che l'economia internazionale corrisponda al modello di un sistema globalizzato, talché gli Stati svolgono un ruolo insostituibile nella gestione dei processi non solo nazionali, ma anche internazionali. Inoltre, le nuove forme di governo dei mercati internazionali e degli altri processi economici coinvolgono gli Stati (ed i rispettivi governi) quali entità sovrane e, in quanto tali, componenti di una comunità internazionale che cerca - sotto il profilo funzionale - di definire un sistema di governo internazionale in via di fatto, marcandone i requisiti in linea di diritto. In questo senso, le funzioni centrali dello Stato nazionale si potrebbero trasformare in funzioni di legittimazione dei meccanismi di gestione sovranazionali. Tuttavia, così facendo evidenzierebbero l'esercizio di una competenza esclusiva dello Stato sulla propria competenza che rimarcherebbe vieppiù la funzione di governo dello Stato nazionale. Infine, se i mercati internazionali, in ispecie quelli finanziari, e i nuovi mezzi di comunicazione, esercitano giocoforza un controllo sul territorio dello Stato, allentandone via via la esclusività, nondimeno esso conserva un ruolo primario che continua a garantirgli un significativo controllo territoriale, qual è quello esercitato nella popolazione. Le persone infatti sono meno mobili dei capitali, delle merci e delle idee, nel senso che rimangono nazionalizzate, identificate, dall'appartenenza ad uno Stato, dipendenti da passaporti, residenza (e relativi permessi). E' tutto ciò che rende la prospettiva dell'Unione europea anche nella sola versione monetaria ben più lunga di quanto i moderni esegeti del Trattato di Maastricht sembrano prospettare.
La creazione di un grande mercato unico presuppone flessibilità e mobilità dal lato della produzione e del lavoro: requisiti che non è dato cogliere nell'attuale, e in quello prossimo venturo, sistema europeo. Del resto, un ente può qualificarsi come "Stato" solo se autonomo e indipendente da altri soggetti, dotato di un territorio e di una popolazione entro e verso cui esercita effettivamente (criterio dell'effettività) il proprio potere autoritativo. In questo senso lo Stato è anche soggetto di diritto internazionale essendo dotato di capacità giuridica e di agire attraverso le quali opera nei suoi rapporti esterni. Ciò gli dà anche una legittimazione internazionale che nessun altro ente potrebbe vantare poiché solo lo Stato è interprete dei bisogni della sua popolazione, solo lo Stato può agire in nome e per conto di quest'ultima.

2) Il concetto di sovranità nazionale
I teorici della politica, i giuristi, ma anche i sociologi, affermano che la caratteristica distintiva dello Stato è il possesso e l' esercizio dei mezzi di coercizione nell'ambito di un dato territorio e nei confronti di quanti, con le proprie azioni, ne attentino all' integrità. Nel sistema degli Stati moderni sorto nel XVII secolo, il riconoscimento non ha funzione costruttiva ma solo politica esprimendo l'intenzione di altri Stati di voler intrattenere rapporti con lo Stato neo costituito. Quest' ultimo, dunque, esiste indipendentemente dall'atto volitivo degli altri Stati. Il punto essenziale del riconoscimento sta nel fatto che ogni stato deve essere inteso come unica autorità politica dotata di un determinato territorio: lo Stato era (e sotto certi aspetti lo è ancora) una auctoritas superiorem non recognoscens, nel senso che non accettava nessun altro ente come suo competitore. Il medioevo, periodo della storia della civiltà europea conosciuto come evo buio, non ha mai conosciuto un rapporto tra autorità e territorio così esclusivo, totalizzante, autoritario, assoluto. Eppure esistevano non solo autorità politiche ma anche altre forme specifiche di gestione (comunità religiose, corporazioni), sovrapposte e con rivendicazioni parallele e spesso contrastanti sulla stessa area. Alcuni ritengono che il periodo del predominio dello Stato nazionale, quale ente di governo, sia ormai giunto al termine e che il nuovo periodo sarà sempre più caratterizzato da una divisione tra governo e un territorio, nel senso che enti diversi saranno deputati al controllo di alcuni aspetti della gestione, anche su alcune pur importanti attività non si eserciterà più alcuna forma di regolamentazione. Se così fosse verrebbe meno il requisito della sovranità e, dunque, lo Stato stesso, in quanto ente sovrano, avrebbe esaurito il suo compito.
Uno Stato per essere tale deve esercitare la sua potestà autoritaria di governo entro un territorio e verso la popolazione ivi stanziata, viceversa non si è in presenza di un fenomeno statuale. Per contro, si evidenzia che quanto sostenuto da alcuni autori, pur configurandisi come ipotesi discutibili, non deve far dimenticare che la rivendicazione dello Stato nazionale di una sua esclusività gestionale non è prerogativa di un dato periodo storico. Gli Stati, forti dell' indipendenza da interferenze esterne sancita dal Trattato di Westfalia del 1648, poterono imporre la propria sovranità ed esercita la propria potestà autoritativa sulle rispettive società. La sovranità dell Stato, in questa prospettiva, avrebbe pertanto origine esterna, nel senso che originerebbe da accordi tra Stati stipulati all'interno di un' emergente comunità statuale. Lo Stato moderno si può pertanto affermare che sorga come potere politicamente dominante e territorialmente definito anche in forza di Trattati internazionali che riconoscano ai firmatari il possesso di siffatti attributi che la loro natura, hanno rilevanza anche giuridica. La dottrina della sovranità degli Stati nel nuovo diritto internazionale, il principio di non ingerenza coincidente con il riconoscimento dei rispettivi poteri e diritti interni, svolsero un ruolo significativo nella creazione di quel rapporto di possesso esclusivo quale espressione del rapporto tra potere e territorio. Gli accordi internazionali favorirono l'internazionalizzazione della politica e del potere interni allo Stato sempre più inteso come principale comunità politica, dotato della capacità di determinare lo status giuridico e la normativa applicabile a qualsiasi attività, purché riconducibile all'accettazione contemporanea di autorità legittima. Gli Stati, in quanto sovrani, determinavano al proprio interno e da se stessi la natura delle politiche interne ed esterne.
La Comunità di Stati era un mondo di soggetti autonomi e indipendenti, dove ognuno agiva (e interagiva) di propria volontà. I rapporti internazionali erano concepiti come interazioni casuali, limitate dal riconoscimento reciproco e dall' obbligo di non interferire negli affari interni degli altri Stati(8). L' anarchia su cui poggiava (e poggia) la comunità internazionale - dunque, i rapporti di interazione esterna fra gli Stati - e l' autonomia reciproca di questi ultimi hanno rappresentato (e ancora costituiscono) la conditio sine qua non per un efficace monopolio del potere all'interno. Nei secoli XIX e XX, i regimi liberali, democratici, totalitari, autocratici, autoritari, dinastici o nazionali ereditarono queste rivendicazioni della sovranità nell' ambito di un territorio unito e governato in via esclusiva, attribuendo inoltre nuove e più diffuse legittimazioni. La nozione di Stato nazionale non fece che rafforzare inevitabilmente l'idea di un potere sovrano attraverso il quale esercitare la più volte ricordata potestà autoritativa nei confronti di cittadini (all' epoca "sudditi") stanziati su un dato territorio.

3) I volti del nazionalismo
Il nazionalismo amplia la portata della sovranità richiedono, in particolare, che la cittadinanza si caratterizzi per una intrinseca conformità culturale. Da questo punto di vista, il nazionalismo non ha elaborato l' idea di Stato quale soggetto sovrano, l' ha semplicemente resa necessaria. Forse non s' è però considerato che il concetto di omogeneità culturale, entro uno Stato legittimamente sovrano, poteva giustificarne tanto la creazione quanto lo smembramento. Le ondate di nazionalismo succedutesi nel XIX secolo hanno comportato un aumento della popolazione della comunità anarchica degli Stati sovrani che ne sono parte, invece di modificare la natura. Il nazionalismo ha reso così più difficile la cooperazione internazionale, in quanto ha rafforzato il concetto di comunità nazionale come sola padrona del proprio destino. Sotto questo profilo, la democrazia non ha influito sulle caratteristiche dello Stato sovrano, un' entità politica creata, come è noto, in epoca predemocratica. Tutto ciò complica ulteriormente la questione definitoria del concetto di nazionalismo, perché non può sfuggire la difficoltà in cui ci si imbatte quando lo si voglia definire compiutamente.
A noi, tuttavia, non sembra errata l'idea di Bagehot che le nazioni fossero nate con la storia stessa delle civiltà, anche se il significato odierno del termine può farsi risalire al XVIII secolo, eccezion fatta di qualche rara anticipazione. Tuttavia, ancorché in termini generali, il nazionalismo può essere considerato "....anzitutto un principio politico che sostiene che l'unità nazionale e l'unità politica dovrebbero essere perfettamente coincidenti". Ma il principio nazionalista può anche avere uno spirito etico universalistico, se si considera che non sono mancati dei nazionalismi i quali hanno sostenuto che il nazionalismo era una dottrina "universalistica", ovvero più correttamente "internazionalistica", dottrina a cui avrebbero dovuto richiamarsi in egual modo tutte le nazioni. D'altronde è in questo quadro che si inserisce il principio di autodeterminazione dei popoli sancito dalla Carta ONU. Eppure non si può dire che il Nazionalismo sia stato sempre così mite, ragionevole e generoso. Del resto, la principale debolezza dell'uomo non è forse quella di fare eccezioni per se stesso e per la propria causa? E non è forse da questa debolezza che derivano le altre debolezze del sentimento nazionalista che, come l'egoismo inficiano e indeboliscono l' efficacia politica anche del sentimento nazionale, cosa ben diversa dal nazionalismo, spesso irrispettoso dell'altro per il solo fatto di essere tale?

4) Stato, nazione e Stato-nazione
"La definizione di Nazionalismo è in stretta correlazione con i termini Stato e nazione. Sotto il profilo sociologico, Weber definiva lo Stato come l'ente detentore del monopolio della violenza legittima all'interno della società di riferimento. Nelle società ben ordinate, la violenza privata è illegittima, con la qual cosa non si rende di per se illegittimo il conflitto, si afferma solo che quest'ultimo non può essere risolto dalla violenza privata. Dunque, la violenza può essere applicata soltanto dall'autorità politica centrale e da coloro ai quali è delegato tale diritto. In particolare, l'idea della forza - intesa quest'ultima come forma estrema di sanzione - può essere applicata soltanto da un entecentralizzato, un ente che, all'interno della società, svolga un ruolo speciale: lo Stato. Cionondimeno, ".....ci sono Stati che non hanno né la volontà né i mezzi di imporre il loro monopolio della violenza legittima pur essendo riconosciuti come tali. In generale, il quadro definitorio delineato da Weber sembra valido ancora oggi, ancorché influenzato da etnocentrismo e atteso soprattutto il suo tacito assunto dello Stato occidentale centralizzato. Va da sé che la forma dello Stato, aspetto di cui non ci si occupa in questa sede, è decisamente variabile. Si può solo affermare che, secondo l'anarchismo ed il marxismo, in un ordinamento industriale lo Stato con il maturare dei tempi diverrebbe superfluo. Noi non crediamo che queste tesi abbiano fondamento logico - razionale, poiché le Società industriali sono così grandi e dotate di un tenore di vita dipendente da un sistema di divisione internazionale del lavoro e di cooperazione assai complesso da rendere inevitabile l'intervento dello Stato, anche se, in teoria, il sistema potrebbe funzionare senza sanzioni a livello centrale. Ma la trasmutazione in regola costante della previsione di una siffatta eventualità rende poco credibile l'ipotesi appena formulata. Se queste considerazioni sono verosimili nel caso della società industriale, a maggior ragione trovano conferma nell'attuale società post-industriale, caratterizzata dal globalismo economico-finanziario, a meno che il concetto di globalizzazione non lo si voglia intendere con quello laissez faire. La definizione di nazione è ancora più complessa di quella necessaria a definire lo Stato. La pretesa, però, di voler considerare lo Stato nazionale come forma transeunte di organizzazione sociale, adducendo il fatto che lo Stato sarebbe estraneo alla organizzazione tribale, non sembra pertinente, anche se l'antropologia può essere utile alla comprensione dei motivi che sottendono alla organizzazione statuale. Ciò che a noi non pare infondato è che Nazioni e Stati non sono necessariamente identificabili, posto che lo Stato come organizzazione è una costruzione relativamente recente, mentre le nazioni sono esistite da sempre, nonostante pareri contrari.
Non sfugge, infatti, che la nazione è sorta indipendentemente dallo Stato, mentre è difficile immaginare che lo Stato emerga senza la nazione ove si consideri che è proprio l'idea normativo-giuridica di Stato a presupporre quella di nazione che, nella sua versione più moderna, presuppone lo Stato. Ma l'idea di nazione, così come il sentimento nazionale, non devono essere confusi con il nazionalismo, poiché è sufficiente richiamare le prime e imprecise anticipazioni medioevali, il pensiero di Federico II di Svevia, le ancora ambigue teorizzazioni cinquecentesche, la fondamentale definizione rousseauniana, il romanticismo - in cui sono già in nuce le interpretazioni dell'epoca dell'imperialismo - per aver ben chiara la differenza.

5) Sopravvivenza e sviluppo dello Stato-nazione
Come si è già ricordato, la democrazia non ha influito sulle caratteristiche dello Stato sovrano. un'entità che è sorta in un periodo predemocratico. La nozione di "popolo sovrano" spesso viene usata in sostituzione di quella di "sovranità" tout court, poiché si ritiene che le rivendicazioni di quest'ultima della suprema autorità, quale mezzo di decisione politica entro un dato territorio, spetti, appunto "al popolo". In siffatta prospettiva, quest' ultimo diventa una sorta di entità metafisica, un ectoplasma, posto che non si può immaginare l'actio governativa, di imperium staccata dall'organo a ciò deputato. Peraltro, democrazia e sovranità non sono incompatibili, purché si sia consapevoli del fatto che la democrazia necessita un notevole grado di omogeneità culturale.
Nel caso in cui ci si trovi di fronte ad uno Stato composto di comunità divise non ci si deve stupire che queste non accettino la logica implicita nel governo della maggioranza, né che quest'ultima tolleri i diritti delle minoranze. L'autodeterminazione nazionale è una rivendicazione politica legittimata dalla nozione di democrazia non meno che da quella di omogeneità culturale, poiché si tratta di una sorta di plebiscito circa l'indipendenza di un territorio caratterizzato da un elevato grado di coesione culturale. Rispetto al passato, la moderna teoria politica ha unito concetto che, quantomeno fino alla Rivoluzione Francese, presentavano non poche contraddittorietà: l'idea della sovranità della comunità e l'idea della sovranità del sovrano . E' solo dopo l'introduzione delle elezioni democratiche che legittimano i poteri sovrani delle istituzioni statali, che lo Stato viene concepito come l'organo di una comunità territoriale che si autogoverna. Il modello democratico di legittimazione del potere fornisce così allo Stato una base migliore di quanto non fosse quella garantita dalla volontà del principe. Non sfugge all'osservazione il fatto che la sovranità democratica ingloba i cittadini e li vincola mediante una comune appartenenza che non viene riconosciuta ad altri.
Anche in questo caso, tuttavia, non siamo di fronte a novità sconvolgenti se non per la forma che i profili in esame hanno via via assunto con il mutare delle epoche storiche. Così, se la nozione di comunità che si autogoverna trae origine dall'antichità è solo nella forma dello stato moderno che essa assume una particolare credibilità. In primo luogo, nella sua veste pre-democratica, lo Stato ha monopolizzato la coercizione, ha imposto un'amministrazione uniforme e ha provveduto aduno Stato di diritto. Dunque i cittadini potevano sentirsi garantiti contro la minaccia di nemici sia esterni sia interni. Ma questa idea di Stato e delle sue modalità di funzionamento ha assunto un rilievo fondamentale solo quando gli Stati non divenuti democrazie rappresentative e le questioni di guerra e di pace non si sono più potute ricondurre a mere ambizioni principesche e/o a considerazioni dinastiche. E' dai tempi di Kant che è andata consolidandosi la tesi, spesso smentita, che gli Stati liberali non si attaccano fra loro; una tesi che ha creato la speranza non solo in un mondo pacifico, quale risultato di un mondo di Stati nazionali, ma anche in un ruolo taumaturgico della democrazia interna quale fattore che avrebbe temperato i rapporti anarchici tra gli Stati. Inoltre, nello Stato moderno, il governo rappresentativo rinforza e legittima la capacità impositiva dello Stato, un potere sul quale esso può creare un uniforme sistema amministrativo.
Nel secolo XX, gli Stati hanno acquisito i mezzi per intervenire sulle e indirizzare le economie nazionali, vuoi ricorrendo all'anarchia, vuoi alla pianificazione statale, vuoi a misure Keynesiane; sono cosi' ricorsi alla leva monetaria e a quella fiscale per influenzare le decisioni degli operatori economici, cosi' facendo hanno alterato i risultati economici generali. Le rivolte del 1989 hanno determinato una diversa visione del mondo moderno, un mondo in cui gli Stati nazionali stanno ridefinendo il proprio ruolo di gestori dei processi sia a livello nazionale che internazionale. La guerra fredda ha per lungo tempo acuito la necessità dello Stato nazionale sia per le sue capacità militari che per le forme di regolamentazione economica. L'eventualità di una guerra (nucleare) e la paura della mobilitazione dell'avversario-nemico hanno reso necessaria l'esistenza degli Stati, al punto che può a ragione sostenersi che la loro sopravvivenza sia stata assicurata proprio da questo conflitto latente

6) L'idea di globalizzazione come "esercizio" di retorica
Sempre più spesso si afferma che l'era dello Stato nazionale è giunta al termine e che, a fronte di processi "globalizzanti" la dimensione nazionale della gestione del potere è inutile. La politica nazionale e le connesse decisioni sarebbero state spiazzate da forme di mercato più consistenti di quelle dei maggior Stati ad economia avanzata. I capitali sono mobili, Si muovono liberamente e, non essendo legati a nessun Paese, si localizzano là dove sono garantiti i più elevati profitti. Viceversa, il lavoro, che ha una sua localizzazione nazionale ed è relativamente statico, deve adattarsi all'andamento della competitività internazionale. Dopo il "crollo" del Muro di Berlino, con le crisi e le micro crisi economico-finanziarie che hanno accompagnato questo evento politico, i cui risvolti devono ancora essere attentamente studiati, è emersa con nitidezza l'obsolescenza di quei sistemi nazionali che prevedevano e disciplinavano lo sviluppo esponenziale dei diritti dei lavoratori con connessa una diffusa e capillare protezione sociale. Da tutto ciò ne è seguito un'ingessamento del mercato del lavoro privato di quella necessaria flessibilità che rende le economie nazionali più competitive. Ma non meno obsolete devono considerarsi quelle politiche monetarie e fiscali che contrastano le aspettative delle imprese transnazionali e dei mercati globali.
Peraltro, la compatibilità con gli interessi economici è sempre stata il criterio su cui lo Stato ha fondato le proprie decisioni in materia economica e finanziaria. Gli è che se prima quegli interessi erano di esclusiva natura nazionale, oggi - atteso l'intreccio di relazioni esistente fra gli Stati e la mobilità del capitale finanziario internazionale (che peraltro non è mai stato immobile) - hanno assunto, secondo alcuni studiosi, una dimensione tendenzialmente universale (globale). Ma, checché se ne pensi, è lo Stato il soggetto regolatore di quelle compatibilità. Pertanto la tesi che vuole gli Stati nazionali ridotti a mere entità locali del sistema globale dovrebbe essere considerata con diffidenza non solo dal giurista, ma anche dagli studiosi di altre discipline, nonostante presenti un certo fascino. Ma il fascino suscita l'innamoramento e l'innamoramento ha sempre qualcosa in sé di irrazionale.

7) I rapporti tra Stato nazionale ed economia globale
Sono finiti i tempi in cui la politica poteva essere prevalentemente concepita quale processo interno agli Stati nazionali, ovvero influenzata da interazioni esterne dominate da scenari di anarchia internazionale. La politica è tendenzialmente sempre più policentrica e gli Stati rappresentano soltanto un livello di un complesso sistema di enti di gestione sovrapposti e/o concorrenti. Questa complessità e molteplicità di livelli e di tipi di governo implica un mondo radicalmente diverso da quello vagheggiato dalla retorica della globalizzazione. In un mondo cosi' prefigurato c'è uno spazio definito, significativo e continuativo per lo Stato nazionale.
Il controllo dell'attività economica in un'economia internazionalizzata sempre più integrata è sia una questione di gestione, sia una questione di ruolo dei governi. Gli Stati nazionali hanno da sempre rivendicato, quale loro peculiare caratteristica, il diritto di determinare le modalità di governo di una qualsiasi attività entro il proprio territorio. Gli Stati nazionali rivendicavano il monopolio della funzione di gestione. Ciò non è di secondaria importanza, poiché consente di identificare il termine governo con quelle istituzioni statali che controllano e disciplinano la vita di una comunità territoriale. La gestione, congiuntamente al controllo di, un'attività con mezzi idonei a raggiungere una serie di risultati desiderati, è di competenza dello Stato, anche se può essere svolta da altri enti, il che non rende quella funzione "esclusiva". Ciò che è dato rilevare è che gli Stati nazionali continuano ad esserci anche se le finalità e il ruolo delle forme di gestione sono oggi radicalmente diversi dal passato. In questo scenario, lo Stato nazionale è l'elemento centrale di un processo di sutura tra le politiche e i processi utilizzati dagli Stati per distribuire il potere verso l'alto (a livello internazionale) e verso il basso (a livello a livello di enti subnazionali). L'autorità può essere pluralistica all'interno e tra gli Stati, invece di essere centralizzata a livello nazionale, ma per essere efficiente deve potersi collocare all'interno di un'architettura istituzionale relativamente coerente. I teorici più semplicisti della globalizzazione negano questa eventualità posto che, a causa dei mercati instabili e degli interessi divergenti, ritengono che l'economia mondiale sia ingovernabile e, tale da non consentire l'introduzione di un elemento progettuale, oppure ritengono che il mercato sia esso stesso un meccanismo di coordinamento che rende inutile qualsiasi tentativo di giungere a un' architettura istituzionale che la regoli.
Alcuni teorici, che estremizzano la teoria della globalizzazione, sostengono che nell'economia mondiale agiscono solo due forze (le forze del mercato globale e le imprese transnazionali) e che nessuna delle due si presta a un' efficiente gestione pubblica. In quest'ottica, i governi nazionali sarebbero da considerarsi come gli enti locali territoriali del sistema globale. La perdita della connotazione di nazionalità, si sarebbe riflessa sulle loro economie non più "nazionali". Essi stessi sarebbero efficaci come governi solo qualora accettassero il ruolo limitato di provvedere a livello locale ai servizi pubblici che vengono loro richiesti dall'economia globale. Rimane tuttavia da verificare se questa economia globale esista veramente (o stia per fare la sua comparsa), posto che c' è un'enorme differenza fra un'economia rigorosamente globale e un' economia estremamente internazionalizzata, nella quale la maggior parte delle imprese opera da sedi dislocate in territori distintamente nazionali. Nel primo caso, le politiche nazionali, soggette a molti limiti, entrano in crisi, in quanto i risultati economici verrebbero determinati dalle forze di mercato mondiali e dalle decisioni assunte all'interno delle imprese transnazionali. Nel secondo caso, le politiche nazionali assumono un rilievo centrale tanto da risultare essenziali per conservare lo stile e la forza propri della base economica nazionale e delle imprese che vi operano. Un'economia mondiale caratterizzata da un crescente livello di scambi e investimenti internazionali non è dunque, necessariamente un'economia globalizzata. Nell'ambito di questa economia, gli Stati nazionali svolgono ancora un ruolo fondamentale come enti gestori dei processi economici. Il problema dipende dal genere di economia internazionale a cui ci si intende richiamare: un' economia che è essenzialmente sovrannazionale, oppure un'economia sulla quale rimangono fondamentali i processi e le iniziative economiche a base nazionale. Tutti dati esaminati fino ad ora sugli aspetti fondamentali del problema in questione confermano che non si evidenzia alcuna forte tendenza a un'economia globalizzata e che la maggior parte delle nazioni avanzate continua a svolgere un ruolo preminente. Stante così la questione, dovremmo abbandonare i concetti troppo in voga di globalizzazione, mondializzazione, universalizzazione e ricercare modelli meno debilitanti sotto il profilo politico. L' idea sostenuta dagli estremisti della globalizzazione che le maggiori imprese trarranno vantaggi da un ambiente internazionale non regolamentato suona molto strana. Norme commerciali, diritti di proprietà - definiti e accettati a livello internazionale - e la stabilità dei cambi costituiscono un livello di sicurezza elementare che serve alle imprese per pianificare il proprio futuro e, quindi, sono un presupposto tanto per la crescita quanto per lo sviluppo di investimenti duraturi. Le imprese non sono in grado di creare da sole questi presupposti, ancorché siano transnazionali. Non sfugge, a questo proposito, l'osservazione secondo la quale la stabilità dell'economia internazionale può essere assicurata soltanto nel caso in cui gli Stati decidano di cooperare per disciplinarla e concordare comuni obiettivi e standard di gestione. Può darsi che le imprese vogliano il libero scambio e regimi comuni di standard commerciali, ma potranno averli solo se gli Stati collaboreranno alla definizione di una comune disciplina internazionale. Tuttavia, la collaborazione dipende dalla voluntas dello Stato, atteso che è su questa, e solo su questa, che si fonda qualsiasi Trattato internazionale.
Non meno strana è l'asserzione secondo la quale le imprese ambirebbero ad essere transnazionali per beneficiare della extraterritorialità. In realtà, all'efficienza economica dell'impresa contribuiscono anche le sedi economiche nazionali, dalle quali le imprese dirigono le loro operazioni, e non solo nel senso che forniscono infrastrutture a basso costo. Le imprese, infatti, sono radicate in una cultura degli affari specificamente nazionale che offre loro vantaggi intangibili, ma concreti. L' impresa dovrebbe diventare un valore in sé, il primo valore in assoluto. Invece, generalmente, la vera transnazionalità si è avuta con una forte mission ideologica che si è sostituita alla fedeltà al paese e allo Stato, come nel caso della Compagnia di Gesù. A noi non pare che le imprese riescano, (anche se forse lo desiderano),a misurarsi con questo fenomeno. I gesuiti sono indubbiamente "multi-nazionali" ma la loro dominante culturale è di tipo centralistico, cattolico-romana. Ebbene, è difficile che l' impresa diventi l'eslusivo "centro culturale" o centri di interessi della vita di un individuo, così come è difficile che gli individui assumano impegni duraturi, o esclusivi, verso una sola impresa. Inoltre, le imprese non traggono vantaggio solo dalle culture d'affari nazionali, ma anche dagli Stati in quanto organizzazioni delle comunità nazionali.
Forse lo Stato Nazionale non esiste più? In realtà siamo di fronte ad un fenomeno, il libertarismo, che consente all'uomo di esprimersi con "parole in libertà", tanto più apprezzate dalla moderna società di comunicazione quanto più sono estreme, non solo nel contenuto ma anche negli effetti che possono produrre. Ma come tutti gli estremismi, anche questa particolare forma è dominata dalla retorica e dalla esasperazione di situazioni ancora embrionali, perché pensare a rapporti universali, cosmopoliti e non più internazionali può forse essere una bella utopia (magari prefigurazione di una realtà futura), ma non la realtà del vissuto quotidiano. Purtroppo saggezza e umiltà non sembrano più appartenere a questo mondo e allora tanto più estreme e (pseudo) rivoluzionarie sono le tesi sostenute tanto più appaiono verosimili. L'esempio classico è quello dell' Unione Monetaria e dell' Unione Europea. Si vorrebbe far credere che lo stato nazionale abbia esaurito la sua forza propulsiva solo perché dal gennaio 1999 verrebbe introdotta la moneta europea. Si dimentica che tutto ciò nasce in forza di un accordo internazionale (il Trattato di Maastricht) e che per ciò stesso il continente europeo non si è trasformato in un "super Stato" o in uno Stato federale. Di più, si dimentica che tutte queste innovazioni al Trattato di Roma non modificano la natura organizzativa della originaria Comunità Europea.
Ma il pensée unique domina, ha tentacoli lunghi e fa presa sull'ignoranza dei più, il conformismo premia. Ma se si può essere "comprensivi" verso il conformismo degli atteggiamenti e dei comportamenti non lo si può essere verso il conformismo delle idee.