il manifesto22 Febbraio 2000
Che
scuola vogliamo?
Senza un progetto formativo vince il mercato
- ROSSANA ROSSANDA
A l "Corri, professore corri, chi arriva primo
strappa il gruzzolo" di Berlinguer ha risposto la grande protesta degli
insegnanti. Il ministro Berlinguer ha incassato il colpo. Ma nel commentare il
suo plof, Alba Sasso del Cidi si è chiesta sul manifesto del 15 febbraio se,
tolte di mezzo gare a premio, non ci sia un problema della qualità degli
insegnanti. E se si, come si valuta? Un giudizio di qualità è sempre difficile.
Ma si puo eludere?
Certo è che, vista dal fuori, la scuola dà
l'impressione d'un corpo sofferente e poco "perforante". Parto da me, dalla
grammatica, ortografia, sintassi, calcolo e cognizioni generali dei giornalisti
che mi tocca leggere o sentire. L'altro giorno sulla piu grande testata italiana
in un solo pezzo su Martinazzoli trovavo il "cupio dissolvendi" e il "pozzo
nero" della di lui esperienza (e la si voleva lodare). La categoria dei
giornalisti non sarà la peggio. Che diavolo insegnate, chedo agli amici
professori. Nessuno difende quel che fa se non contro il ministro. E molti
lasciano la scuola anzitempo per stanchezza e demotivazione.
Sono
malvagi? Corporativi? Nella scuola come è ora - lascio da parte l'Università,
sulla quale ha scritto Ceserani - chi è buon insegnante? Quello che lavora di
più fra lezioni e varie incombenze? Quello che meglio spiega la lezione? Quello
che più promuove o quello che più seleziona? Quello che concepisce l'allievo
come il ministro concepisce lui, buono sui quiz, o quello che, come l'eroe di
Starnone, utilizza gli anni in cui ha sottomano una giovane massa confusa e
incandescente per aiutarla a crescere, sappia o non sappia le guerre
sannitiche?Negli anni Sessanta e Settanta si è discusso molto sulla scuola, ma
senza gran profitto se si è passati fra l'estremo "basta che aiuti a essere e
non occorre che insegni a sapere" e l'estremo "basta che i ragazzi sappiano e
non occorre che siano" (voto politico/voto selettivo). Risultato, ogni
insegnante sceglie un po' così o un po' colà. E poi chi può esaminare, quello
che conosce l'allievo o quello che non lo conosce? Un po' questo e un po'
quello. Si direbbe che negli ultimi trenta anni sia stato tutto uno strappare e
un rammendare, disvelare un dubbioso addomesticamento e continuare come se non
lo si fosse svelato, continuando a non distinguere fra ammaestrare, trasmettere
e preparare - chi e a che cosa? Neanche allora si venne a capo del problema se
c'era un sapere da trasmettere, e come, e che cosa sia una criticità o se vada
solo affidata alla pluralita delle voci.
Quel che oggi si constata anche
dall'esterno è che si è liberata la scuola da una burocrazia piramidale, ma non
è chiaro se si sia innervata un'autentica sperimentazione, su quali punti, come
circoli. Quando uno capita negli istituti provvisti di maggiore "autonomia" ha
la sensazione che ciascun insegnante passa, se ne ha voglia, quel che può e come
gli viene, mentre famiglie e allievi intervengono con spinte che sempre meno
interpellano un'idea di "formazione". Perché poi di questo nella scuola
dell'obbligo si tratta, o no?
Quando Berlinguer cominciò si lesse un
documento d'una commissione di saggi che sembra finito in niente. Però ha
proceduto a una modifica dei cicli, rimandando a un'altra volta che cosa
metterci dentro. Oggi si sente dire che ai contenuti penserà Umberto Eco. Certo
non c'è segno di una discussione che esca dalle mura scolastiche o
ministeriali.
E allora un insegnante, anzi il corpo insegnante della
scuola dell'obbligo, che cosa insegna? Che cosa si prefigge? Un ragazzo che esca
dall'obbligo che cosa si presume che sappia? Penso sia all'alfabetizzazione che
ai "saperi". Perché siamo perplessi tutti. Che cosa resta dell'ortografia,
grammatica, sintassi e delle funzioni del calcolo in un periodo nel quale il
computer può supplire con la "sua" memoria e velocità? O può non restare nulla?
E se no, che cosa serve? E che intendiamo per istruzione successiva
all'alfabetizzazione, che cosa va trasmesso sul passato e segnalato sul
presente, quando in tutto ciò che non è scuola si grida che sono mutati i
paradigmi delle lettere (penso a tutti i post-), della storia (penso alla
devastazione delle categorie crociane o del seguente storicismo), della
coscienza (penso a Freud e Klein e successivi) della società privata (a partire
dai ruoli sessuali e dalla famiglia) e di quella economico-politica (dove il
solo messaggio che dilaga è che tutto è "nuovo")?
Ma se nella scuola il
ragazzo non si trova davanti a una alfabetizzazione a misura dei tempi e a un
insieme leggibile di interpretazioni del passato e sul presente, mentre fuori
dalla scuola i media lo bombardano con un messaggio che solo apparentemente è
plurale, che cosa sarà in grado di accettare o rifiutare, reazioni
indispensabili dell'apprendere? E il buon professore che cosa gli dice?Senza una
scommessa, un'esposizione della generazione adulta arrivata piena di lividi alle
soglie del duemila sul che cosa pensa essere e dover essere una scuola
formativa, al di là delle diverse sensibilità dell'insegnante, questi anni
passati fra i banchi diventano casuali, restano un transito burocratico, che per
essere deciso istituto per istituto invece che dal provveditore, sempre
burocratico è. Forse è questo che spiega perché l'insegnante che si incontra ti
spiega quanto è caduta la sua autorevolezza, quanto è stanco, quanto è incerto
su cultura e ruolo, quanto i colleghi siano sordi e i ragazzi idem.
E non
basta che da una parte della sinistra si affermi: la scuola non ha da essere
soltanto funzionale a mestieri e professioni o all'economia - che sono diverse
declinazioni della stessa cosa - se non si dice che cosa sia oggi l'istruzione
di base cui ha diritto il cittadino. Oggi, in piena crisi sociale e di idee e di
metodologia, prendendo "crisi" come punto di tensione vitale, interrogazione
radicale su di sé. Se una generazione, una società politica, il suo governo non
si espongono, non rischiano su un'elaborazione di contenuti e metodi, vince
l'idea comune (anche al ministro) che la scuola deve aiutarti a trovare lavoro e
soldi. Insomma insegnarti un mestiere; il quale oggi sembra essenzialmente saper
comprare e vendere, aiutati dalle tecnologie di comunicazione. Tremonti precisa:
informatica e inglese. Il resto, non dico creare ma anche solo produrre e
ricercare, interessa una minoranza.
Ma questo non implica già una
sorniona codificazione dei fini dell'apprendimento? Non è una forma di
"addomesticamento" a un non interrogato ma asseverato 2000?
Agli
insegnanti del Cidi, dei Cobas, della Gilda e del Mce vorrei chiedere se questo
che dico è vero, o no. Se è vero, il resto non è che un lavorio interessante e
periferico, o la giusta difesa d'una generica dignità della categoria. Di fatto
un accettare il sistema Berlinguer pur brontolando, e lasciando aperta la
domanda che ci rivolgemmo nel'68: a che serviamo?