I contributi al Convegno di alcuni Circoli

Il Circolo delle Telecomunicazioni

Il Circolo della Cooperazione Sociale

INDIETRO

Circolo delle Telecomunicazioni

Il presente documento nasce dall’esigenza di manifestare la situazione in cui versa il settore informatico e delle telecomunicazioni in Italia, allo scopo di invertire l’attuale direzione di marcia che minaccia e precarizza migliaia di posti di lavoro senza neanche la speranza di una riconversione industriale e di un futuro dignitoso per una parte consistente di cittadini italiani.

Perché ciò avvenga è necessario fondere operativamente ed idealmente gli attuali coordinamenti sindacali e politici del settore, rilanciando un’azione sinergica in un unico grande momento sublimato in atti politici condivisi.

E’ necessaria la volontà democratica di fare e ricostruire il sindacato a partire dalla progettualità e dai bisogni del cittadino e del lavoratore, legando l’analisi ed il progetto ai grandi temi della politica contemporanea, superando l’antistorica fase concertativa, ribadendo la lotta contro il capitalismo come obiettivo fondamentale dell’agire comune.

I lavoratori devono mettere in atto tutta la loro volontà di inchiesta e di lotta sul campo, giorno per giorno, eliminando progressivamente le divisioni che troppo spesso annullano la forza dei comunisti, ultimamente molto intellettuali ma poco marxisti e rivoluzionari.

Eppure la storia ci insegna che solo l’unità e l’antagonismo delle classi umili rispetto a quelle del potere aristocratico, religioso o borghese, hanno creato i presupposti delle loro vittorie sindacali e politiche.

Attraversiamo oggi un momento in cui la classe lavoratrice esiste virtualmente perché volutamente frammentata nella sua qualità di soggetto politico, incapace di apporre le sue istanze a quelle di altri soggetti sociali. La classe lavoratrice esiste ma rifiuta di prendere coscienza della sua esistenza forse perché la consapevolezza della propria forza rende sgomenti di fronte alla possibilità materiale di poter realmente cambiare questo sistema.

L’egoismo generato dalla paura del "padrone", dall’ipocrisia e dalla pigrizia mentale di massmediatico inquinamento, porta quindi i lavoratori a ripetere in modo automatico quel che avvenne la notte durante la quale affondò il Titanic : chi stava in salvo sulle scialuppe non mosse un dito per aiutare gli altri e lasciò che i flutti ed il gelo li uccidessero.

Riflettere quindi sui principi etici ed ideologici che cementano la formazione di un qualsiasi nuovo soggetto sociale è indispensabile per evitare che nasca una corporazione facilmente sfaldabile dai neri flutti della globalizzazione, piuttosto che una struttura atta a difendere e sostenere gli interessi collettivi, capace di garantire contemporaneamente i diritti degli uomini e di tutto l’ecosistema di cui facciamo parte e che continuamente violentiamo con cieco masochismo.

I meccanismi di abbattimento dello Stato Sociale che adesso anche noi in Italia tocchiamo con mano, vengono definiti nell’ambito di politiche "atlantiche", "europeiste" e "progressiste" ma di fatto a nostro avviso contribuiscono ad aumentare l’accumulazione di ricchezza e di povertà ai due poli della società mondiale, sfruttano la specie umana a prescindere dal sesso, dall’età e dall’area geografica di appartenenza, rendono sempre più evanescente il confine tra legalità ed illegalità, facendo spesso diventare leggi di Stato quelle condizioni e norme che un tempo sarebbero state definite fuori legge o criminali, rendono sempre più confusa la storia creando un oblio che nasconde la sostanza delle differenti dottrine politiche al solo fine di esaltare la non ideologia della globalizzazione.

Il declino dell’organizzazione fordista del lavoro e l’affermazione della globalizzazione come manifestazione nuova del capitalismo, determinano alcuni elementi fondamentali su cui ragionare quali :

- la devastazione dell’identità di classe ;

- la morte degli Stati Nazionali come soggetti geopolitici delle rivendicazioni sociali ;

- l’inidoneità endemica e manifesta del Capitalismo a risolvere la questione occupazionale ;

- lo sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali, fuori dalla capacità portante dell’ambiente ;

- l’inquinamento dell’ecosistema e della mente umana.

E’ necessario allora intraprendere un percorso che permetta ai lavoratori, ai cittadini ed alla sinistra comunista, ambientalista e democratica di attrezzarsi per combattere questa lunga e dura battaglia contro un nemico cinico e spietato che scambia la popolazione per "bit" o plusvalore azionistico.

Bisogna ridefnire e compattare immediatamente un novo soggetto sociale antagonista che veda nella riappropriazione della pratica dei bisogni il suo obiettivo principale di azione ed analisi economica sociale e politica.

Ci sembra che il mondo del non lavoro, del lavoro a termine, del lavoro nero, sia il nucleo di questo progetto su cui lavorare proponendo un’altra produttività da quella del profitto, disegnando gli scenari di un diverso modello di sviluppo attraverso una riprogettazione ed un rinnovamento radicale dell’intervento pubblico in economia, nello stato sociale e nella salvaguardia ambientale. Quanta occupazione potrebbe essere creata nel giro di pochi anni, a partire da un piano generale che scenda alle regioni, alle province, ai comuni, concepito come una nuova rivoluzione industriale : lavori socialmente utili ed agganciati alle cablature delle città, recupero dei patrimoni archeologici e boschivi, recupero architettonico dei fabbricati abbandonati da adibire a centri per attività sociali, culturali e ricreative.

Ma la realtà è ben altra.

Non sono più i Parlamenti ed i Governi Nazionali che decidono le politiche economiche del Paese, ma gli organismi internazionali creati e formati da banche e grandi gruppi multinazionali finanziari ed industriali (Banca Mondiale - OCSE - FMI) che stipulano "accordi" nel loro interesse e nella garanzia prima dei loro profitti, mentre i popoli vengono affamati e depredati delle loro risorse e ricchezze.

Tutto ciò altro non è, se non la manifestazione reale del capitalismo che muta la sua pelle come il protozoo Trypanosoma, cambia il suo codice genetico esterno finché non uccide l’organismo. L’etica è il motore del vivere sociale e nella matematica finanziaria non c’è etica e quindi non c’è in prospettiva "speranza di vita" sociale.

Il fine ultimo dell’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (MAI) è quello di rimuovere gran parte degli ostacoli ancora esistenti alla mobilità dei capitali e permettere così l’espansione degli investimenti diretti esteri (IDE) a livello globale, scrivere cioè gli ultimi tratti della formazione dell’economia globale, togliendo gli ultimi baluardi di potere sovrano rimasto nelle mani dei governi.

L’accordo, una volta ratificato, sarà il documento finale mediante il quale sarà sancito il modello economico definito CORPORATE GLOBALIZATION in virtù del quale verranno limitate le capacità degli Stati di subordinare le attività commerciali ed economiche alle proprie priorità di sviluppo.

Una volta messo in pratica, il trattato M.A.I. aprirebbe ogni settore economico e produttivo dei paesi firmatari, agli investimenti esteri.

Ogni restrizione all’accesso ai capitali esteri chiave per la sicurezza nazionale, verrà così eliminata.

Le linee guida dell’attuale politica industriale italiana ricalcano quindi le direttive che preludono all’applicazione di tali trattati, nell’ottica di un’applicazione di una Democrazia Anglosassone e di una PAX americana :

- controriforma del collocamento da ufficio pubblico preposto ad avviare i lavoratori esercitando un controllo sulle assunzioni, ad organo meramente burocratico ;

- libertà di licenziamento per le aziende (vedi riforma Giugni) ;

- variazione immediata della legge sulla rappresentanza sindacale per aumentare la democrazia nei posti di lavoro e contro il concetto di sindacato istituzionale, di fatto un vero e proprio partito politico che blocca qualsiasi istanza proveniente dalla base ;

- difesa, qualificazione e gestione democratica dei servizi sociali (scuola, sanità, trasporti, casa, comunicazione, energia) ;

- difesa ed ampliamento del diritto di sciopero, prefigurando una revisione della legge che lo regolamenta ;

- riaffermazione dei valori di antirazzismo ed antifascismo che se non difesi, rischiano di rafforzarsi proprio sul terreno delle contraddizioni materiali nel mondo del lavoro, dove la barbarie della concorrenza subordinata al profitto, rischia di alimentare guerra tra poveri e dove i nuovi trattati commerciali sono i forieri di una nuova fase di colonialismo economico ;

- riaffermare i principi che salvaguardano l’identità di Stato nazionale prima di qualsivoglia forma di federalismo monetaristico : lingua, cittadinanza, confine geografico inteso come aereo, marittimo, terrestre ed "elettronico" ;

- stabilire i nessi più profondi che legano il possesso di reti di telecomunicazione, audiovisive ed informatiche alla gestione del potere politico economico.

Troppo spesso il settore è stato trattato in termini solo mercantili, sottovalutando invece il suo ruolo prioritario nella Pubblica Sicurezza Nazionale e nella gestione capillare della Democrazia. A tal proposito, al di là del compito istituzionale di controllo affidato alle Autorità di Governo nel settore, è necessario che il Parlamento italiano svolga in modo deontologicamente inappuntabile il suo ruolo di controllo sulla salvaguardia degli interessi reali ed etici dei cittadini italiani, passando da una fase interpretativa legata al "senso comune delle cose" ad una fase politica nuova legata semplicemente al "buon senso", che chiuda con il passato e che "liberi" veramente l’uomo del terzo millennio dall’alienazione del lavoro.

Passare quindi da una fase post Fordista o Toyotista dell’organizzazione del lavoro, ad una fase democratica dove l’intellettuale collettivo, quello genetico della specie e quello infostrutturale depositato in rete, si fondino non per generare un mostro che controlla la mente, la natura e l’organizzazione sociale, bensì per alimentare nuove possibilità di comunicazione e di crescita del singolo e della collettività. L’Universo fisico tende al massimo grado di disorganizzazione della materia e l’energia che viene utilizzata per mantenere in vita qualsiasi organismo, tende di fatto a mantenere legate, organizzate e interdipendenti le cellule o gli atomi che compongono la materie inerte o vivente.

Senza apporto di energia esiste il caos subatomico, l’esplosione dell’organismo e la sua morte fisica così come lo intendiamo nell’accezione umana della parola, almeno su questo piano dimensionale.

Anche sul piano Sociale, la mancanza di cemento comune, di una forza aggregatrice di un soggetto sociale che rivendichi il diritto di essere, di esistere, a vivere dignitosamente, il venire meno di questa energia aggregante può generare il disfacimento del tessuto sociale e delle regole di vita democratica.

Ciò può portare in ultima analisi anche alla morte della società stessa con la riaffermazione dei principi medievali legati alla lotto di tutti contro tutti, della vittoria del più forte intesa come la vittoria del più prepotente, più ben armato, unto dal Signore o protetto da leggi speciali.

Può lo Stato liberale, liberista dell’Euro negare i diritti di cittadinanza di una parte notevole del suo popolo, primo fra tutti quello del lavoro sicuro ? !

Siamo ancora in tempo per riflettere e porre rimedio usando il buon senso.

E’ urgente pertanto creare un Piano Industriale Italiano legato allo sviluppo della piattaforma tecnologico-multimediale, che riscriva ex novo le necessità prioritarie per la salvaguardia dei :

- contratti di formazione lavoro ovvero aumento dei meccanismi di competitività tra i contrattisti, che accettano ogni condizione di lavoro pur di non essere tagliati fuori dalla riconferma del posto alla fine del contratto ;

- lavoro interinale, enorme regalo ai capitalisti perché il lavoratore interinale non ha garanzia di salario, viene pagato solo se lavora, può essere licenziato se il padrone non è soddisfatto del suo rendimento, non ha costi fissi (scatti di anzianità, il diritto al posto di lavoro in caso di maternità), non può programmare la sua vita perché vive in una continua incertezza rispetto alle prospettive di reddito.

- Inoltre le Agenzie private di collocamento del lavoro sono spesso multinazionale come la MonBwer (U.S.A.) che copre 34 paesi con 200 agenzie (4125 milioni di dollari di fatturato annuo) e movimenta giornalmente 200.000 lavoratori temporanei ; l’AIDA (Svizzera) 27 paesi, 1200 agenzie (2100 milioni di dollari di fatturato), 80.000 lavoratori movimentati ; l’ECCO (Francia) 24 paesi, 1.000 agenzie (1850 milioni di dollari di fatturato), 65.000 lavoratori movimentati.

- la SINTEX ha calcolato che l’Italia ha un bacino potenziale di 1.800.000 lavoratori interinali ;

- lo Stato, inoltre, ha fornito e fornisce (esempio legge Tremonti) sgravi e finanziamenti a "fondo perduto" alle imprese, per la loro modernizzazione e ristrutturazione tecnologica che si risolve in un minor uso di manodopera, con una ovvia espulsione di lavoratori che vanno ad ingrossare le file dei disoccupati favorendo, con il loro incremento, il ricatto nei confronti dei lavoratori che rimangono occupati (contratti di solidarietà).

L’art. 3 della Costituzione italiana afferma l’uguaglianza e la pari dignità dei cittadini e questo significa in concreto assicurare a tutti il diritto all’istruzione, alla salute, al lavoro, alla casa, alla pensione perché le vite diverse di tutti, siano qualitativamente migliori ed ognuno possa sviluppare la propria personalità.

Ed a tal proposito bisogna purtroppo affermare che siamo arrivati ad un bivio, da una parte uno sbocco autoritario da America Latina, dall’altro uno sbocco che ribadisca i principi di libertà, solidarietà ed uguaglianza. Lo scenario prossimo venturo è comunque speculare all’attuale organizzazione sociale degli Stati Uniti d’America, dove i cittadini poveri non godono più di diritti civili.

Il Circolo delle Telecomunicazioni del P.R.C. di Roma, composto da gente comune, ha deciso di non voler più soggiacere a tutte le condizioni fin qui elencate e quindi si è mobilitato affinché la sua piccola lotta quotidiana, faccia parte di un quadro più alto, un quadro più internazionale.

In questo contesto è bene accetta la condivisione di tali idealità ed azioni di lotta con tutte le organizzazioni sindacali, sociali, circoli del Partito e dei Partiti Democratici di Centro Sinistra che intendono percorre in modo coordinato un pezzo di storia insieme contro le aberrazioni capitalistiche.

La strada giusta è a nostro avviso quella della autonomia progettuale e della lotta continua per :

- la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario e ritmi (orario legale si intende) ;

- reddito garantito per le donne e gli uomini disoccupati :

- piano di lavori socialmente utili e sganciato dalla logica dei profitti ; proponiamo che i soldi accumulati dall’IRI con le privatizzazioni, vengano immediatamente reimpiegati per il recupero e la manutenzione dell’assetto idrogeologico nazionale e per il monitoraggio ed il controllo del rischio sismico e vulcanic ;

- blocco dei processi di flessibilità e precarizzazione del lavoro ;

- rassetto del sistema pensionistico.

Il Circolo delle Telecomunicazioni, in relazione a quanto fin ora affermato, ritiene indispensabile effettuare un convegno pubblico propedeutico ad un impegno di opposizione e lotta politica di tutto il settore delle comunicazioni, che veda la partecipazione delle R.S.U., dei centri sociali, degli studenti, dei Circoli Aziendali e dei lavoratori democratici.

Insistiamo sulla parola Democrazia, perché il liberismo non è sinonimo di Democrazie e dobbiamo scegliere ora quale strada intraprendere ; non si può stare con un piede su due staffe per troppo tempo.

Tale iniziativa, da verificare congiuntamente nelle modalità di attuazione, sarà la cartina di tornasole per stabilire se nel nostro contesto, alle soglie del 2000, esiste la possibilità di ricreare una identità politica, un soggetto politico comune per tutti i lavoratori ed i cittadini che si identificano negli ideali anticolonialisti, anitimperialisti, antifascisti e di ecologia della mente.

 


Circolo dei cooperatori sociali

OLTRE IL COLLATERALISMO: IL CONFLITTO COME PARTECIPAZIONE .

Note per un dibattito su movimento comunista e Terzo Settore

Il nostro contributo al dibattito non può prescindere da un dato balzato prepotentemente agli occhi in questi giorni, ma che è ormai una costante della vita politica italiana; ci riferiamo al crescente tasso di astensionismo elettorale, che nelle ultime consultazioni amministrative ha spesso superato il 50% ma che era in crescita già da anni, precisamente dall’introduzione dei diversi sistemi maggioritari, compreso quello per l’elezione del Sindaco. Fino a qualche giorno fa, a sinistra erano in pochi a farlo notare e ancora meno quelli che se ne rammaricavano, probabilmente perché questo fenomeno finiva quasi sempre per premiare proprio le forze del centrosinistra, che si trovavano a governare il Paese e molte delle città più importanti pur esprimendo una minoranza dei cittadini...non dimentichiamo che, in numeri assoluti, le ultime elezioni politiche sarebbero state vinte dal Polo di centro-destra e che, se sommiamo anche i voti ottenuti dalla Lega, si conferma la considerazione che la sinistra e i suoi alleati di centro non rappresentano affatto la maggioranza degli italiani.

Ma la consapevolezza di dover giocare con regole truccate non può essere la sola spiegazione della disaffezione al voto di grandi masse, elemento fino a pochissimi anni fa sconosciuto alla vita politica repubblicana; i motivi profondi dell’allontanamento anche dalla forma più elementare di partecipazione politica, quale è appunto il voto, vanno cercati nel sempre più accentuato distacco fra la politica stessa e la vita reale, nella deriva postideologica che ha talmente annacquato le differenze di proposta e di programma da rendere quasi indistinguibili gli schieramenti che si contendono governi centrali e locali. Anche senza volere andare molto lontano, è sufficiente leggere le lettere che sta pubblicando in questi giorni il nostro quotidiano per comprendere i motivi che allontanano dalle urne la nostra gente, quel "popolo di sinistra" che va molto oltre l’area dei simpatizzanti di Rifondazione Comunista e la cui sofferenza politica non può essere ancora liquidata con il brutto termine di "malpancismo"; non di mal di pancia dobbiamo parlare, ma di disincanto, di frustrazione, di vera e propria disperazione, che qualcuno - per fortuna - riesce anche a definire, come il lavoratore della sanità che scrive "Semplicemente non ho partecipato al grande rito della democrazia, non ho voluto pagare lo scontrino al supermarket della politica. Sugli scaffali di questi tempi c’è troppa merce avariata, soldi alle scuole cattoliche, presidenzialismo, maggioritario, patto sociale. C’è Cossiga che va a spasso per Roma con Pasqualina Napoletano, c’è un governo di sinistra che persegue con ostinazione una politica moderata. Dov’è allora una politica di sinistra, un programma, un’idea diversa di governare?".

Sta a noi trovare le risposte a queste domande, anche affrontando coraggiosamente i nostri errori...perché qualche errore dovrà pur esserci, se in tre anni si perdono a Roma e provincia più di 72.000 voti, di cui oltre 52.000 nei collegi di Roma città (Ostia compresa).

La crisi della partecipazione politica non è solo una conseguenza, ma un obiettivo della diminuzione di democrazia rappresentata dal sistema maggioritario; un Paese dove vada a votare, per "scegliere" fra due schieramenti sostanzialmente identici, la metà o anche meno degli aventi diritto è l’obiettivo del Paese normale voluto non dall’estrema destra ma dal leader del primo partito della sinistra e attuale Presidente del Consiglio, l’Onorevole Massimo D’Alema; svuotare di significato, dopo averla scarnificata, la rappresentanza politica, è funzionale alla realizzazione di quella democrazia dei mercati finanziari che costituisce ormai il solo orizzonte di quella che ci ostiniamo a definire "sinistra moderata" anche quando appare evidente che di sinistra non ha proprio più nulla. Le riforme istituzionali vanno tutte nella stessa direzione, così come le riforme "di struttura" del sistema pubblico, del ruolo dello Stato, dalla scuola alla magistratura, dai servizi strategici (trasporti, energia, comunicazioni) a quelli sociali. La "sinistra moderata" è l’asse portante di questa strategia, non il suo elemento di temperamento; nelle sue articolazioni sociali e finanziarie troviamo il personale tecnico e la base di massa organici alle trasformazioni proposte, i soggetti sociali che dovrebbero trarne beneficio...pensiamo ai fondi pensione e alle agenzie di lavoro interinale gestiti da Legacoop, tanto per fare un primo esempio.

Naturalmente, il blocco sociale espresso e rappresentato dalla "sinistra moderata" va a confrontarsi con quello espresso e rappresentato dagli altri schieramenti, ma questo è per noi poco interessante; preferiamo ragionare sugli esclusi, cioè su quei soggetti che il processo sociale e politico bipolare lascia ai margini, condanna all’esclusione, di cui la non partecipazione al voto è contemporaneamente ratifica e presa di coscienza.

Quando parliamo di esclusione non ci riferiamo ad un pulviscolo indefinito e minoritario di soggettività marginali; abbiamo in mente le grandi masse di lavoratori interne al ciclo produttivo ma sempre più povere di reddito e garanzie, così come i milioni di ex lavoratori in balia dello smantellamento del sistema pensionistico e previdenziale; pensiamo a quegli otto milioni di precari di cui si è accorto anche il Ministero del Lavoro, precari irregolari, occupati a tempo pieno che però agiscono nell’area del sommerso, quelli che entrano ed escono dal mercato del lavoro fino a cinque volte in un anno; guardiamo a quei tre milioni di disoccupati cronici che hanno perso anche la speranza di un’inclusione sociale attraverso il lavoro. Questa composizione di classe, differenziata anche per aree geografiche, pone un problema di organizzazione, prima ancora che di rappresentanza, non risolvibile con i vecchi strumenti che abbiamo a disposizione.

Non vogliamo entrare in questa sede nel merito di un’analisi dettagliata della nuova e attuale composizione tecnica del proletariato italiano, sia perché il Partito nel suo insieme vi sta lavorando con un’inchiesta nazionale, sia perché ci sembra più utile per questo dibattito fornire ai compagni informazioni e valutazioni sul nostro settore di intervento e di organizzazione, informazioni e valutazioni che, peraltro, rimandano continuamente al quadro generale in cui deve collocarsi l’iniziativa del Partito.

Da più di tre anni il dibattito sul ruolo e la funzione del cosiddetto Terzo Settore appassiona la sinistra sociale e politica; si è passati - forse troppo bruscamente - da una fase in cui il Terzo Settore era semplicemente ignorato ad una che vede una moltiplicazione di "esperti" e di sostenitori entusiasti delle magnifiche e progressive sorti delle attività non profit.

Guardiamo la realtà, come emerge dai dati disponibili, non prima di una doverosa premessa: quello che viene genericamente definito Terzo Settore - lo spazio economico, sociale e produttivo che si collocherebbe al di fuori tanto dello Stato che del mercato - è un arcipelago di entità formalmente e sostanzialmente differenti, persino da un punto di vista giuridico, per cui già questo dovrebbe far riflettere chi, anche a sinistra, tende a guardarlo come un mondo sì articolato, ma essenzialmente coeso. Niente di più falso: fra le associazioni di volontariato e le cooperative sociali, per esempio, esistono più differenze di quante ne possano esistere fra il giorno e la notte. Scorporiamo dunque dal nostro ragionamento la questione del volontariato, perché qui è importante riflettere sulla dimensione politica e culturale assunta da una forma di lavoro che, per quanto particolare, riveste pur sempre le caratteristiche fondamentali del lavoro salariato.

I dati, allora: secondo quelli del Ministero del Lavoro, alla fine del 1996 le cooperative sociali in Italia erano 3.857, con una crescita impetuosa (oltre 1.000 in più) rispetto all’anno precedente. Se quella tendenza venisse confermata, vorrebbe dire che in Italia si formano più di tre cooperative sociali al giorno, escluse le feste comandate.

Il totale dei soci delle cooperative sociali (sempre al 31.12.1996) assommava a 118.472, di cui solo 10.857 soci volontari; un primo elemento di riflessione è dunque il fatto che il volontariato rappresenta una percentuale inferiore al 10% delle persone impegnate nella cooperazione sociale, che si conferma dunque a pieno titolo strumento di produzione e lavoro, mentre chi intende fornire gratuitamente e volontariamente il proprio tempo per attività sociali continua a preferire altre strutture, quali le associazioni di volontariato.

Le persone svantaggiate utilizzate dalle cooperative sociali erano alla stessa data 15.746, impiegate in 1.288 cooperative sociali, il che significa che solo una cooperativa sociale su tre si propone come obiettivo l’inserimento lavorativo delle categorie ufficialmente riconosciute come a rischio di esclusione.

Insomma, è evidente che la cooperazione sociale, dal punto di vista del mercato del lavoro, si sta rivelando strumento per l’inserimento di cittadini in larga prevalenza "normali", piuttosto che "passaporto" per fare uscire dall’esclusione attraverso il lavoro settori sociali particolarmente sfavoriti.

Proseguendo nell’analisi, dobbiamo osservare le attività in cui sono concretamente impiegati i lavoratori della cooperazione sociale e "scopriamo" che si tratta a larghissima maggioranza della gestione di servizi sociali, assistenziali e educativi di vario genere per conto di enti pubblici e amministrazioni locali; vale a dire che la cooperazione sociale si pone anche come strumento per l’erogazione di servizi pubblici che il pubblico in quanto tale non può o non vuole gestire direttamente. I motivi per cui questo avviene sono noti: la maggiore flessibilità della cooperazione consente una più ampia articolazione dell’offerta di servizi all’utenza, unita ad un notevole risparmio sui costi per la Pubblica Amministrazione. Entrando nel merito di queste argomentazioni, c’è da dire che la prima è senz’altro corretta, nel senso che la creatività e lo spirito di innovazione espressi dalla cooperazione sociale hanno prodotto molto sul terreno delle risposte ai bisogni sociali, collaborando anche all’emersione di questi bisogni, spesso misconosciuti prima ancora di essere negati; d’altra parte, il risparmio sui costi per la P.A. deriva sostanzialmente dalla arbitraria riduzione del costo del lavoro degli operatori sociali, attraverso la considerazione che per i soci delle cooperative non valgono le regole contrattuali dei lavoratori dipendenti.

Si è così innescato un meccanismo perverso: lo Stato dismette i servizi sociali e li affida al "mercato"; la cooperazione sociale si dimostra "concorrenziale" sul mercato dei servizi principalmente per i costi più bassi; i costi più bassi significano meno reddito e meno diritti per gli operatori sociali; la carenza di reddito e diritti rende a loro volta gli operatori sociali, che devono combattere l’esclusione, soggetti a rischio di esclusione.

Tornando alla questione del rapporto di lavoro salariato che va ad instaurarsi nella cooperazione sociale, c’è dunque da dire che la recente proliferazione di "esperti" e apologeti del Terzo Settore lascia il tempo che trova e si configura più come l’ennesimo abbaglio ideologico di un ceto politico - intellettuale in via di rottamazione che come un contributo positivo al dibattito sull’attualità e le prospettive di quella sinistra sociale in nome della quale si dicono e si fanno tante cose che molto di sinistra non sono. Parliamo, ovviamente, di quegli esponenti del Forum del Terzo Settore che prima hanno massacrato il nostro Partito per la scelta di uscire dalla maggioranza che sosteneva il Governo Prodi perché questo avrebbe favorito la conquista del potere da parte della Destra di Fini e Berlusconi, per poi firmare l’appello in favore del principio di sussidiarietà - cioè dello smantellamento dei servizi pubblici - insieme allo stesso Berlusconi e ad altri galantuomini come D’Antoni e Romiti. Il fatto che compagni di alcuni centri sociali si trovino a collaborare con quegli esponenti e che questi compagni siano gli stessi che vanno a braccetto con le Ministre Turco e Russo - Iervolino non fa altro che confermarci nella nostra preoccupazione rispetto alla loro deriva corporativa e collateralista.

Sui rapporti di lavoro un dato, fornitoci dalla CGIL e già oggetto di riflessione nel corso del convegno nazionale sulla cooperazione sociale del 17 ottobre scorso, contribuisce ad arricchire di contraddizioni un quadro già di per sé pieno di incongruenze: su 80.000 soci lavoratori della cooperazione sociale, ben 25.000 sono iscritti ai sindacati, mentre risale al 1992 il primo CCNL delle cooperative sociali sottoscritto da CGIL - CISL - UIL e dalle centrali nazionali, Lega, Confcooperative e AGCI. Ebbene, quasi tutti i lavoratori sindacalizzati sono concentrati nelle Regioni settentrionali, per il semplice fatto che, da Firenze in giù, le cooperative sociali negano lo stesso diritto all’esistenza delle rappresentanze sindacali.

La situazione è particolarmente grave a Roma, dove la costituzione delle rappresentanze sindacali è di fatto vietata in quasi tutte le cooperative sociali e dove i comportamenti antisindacali non si contano: vogliamo qui ricordare la vicenda dei due sindacalisti della CGIL licenziati dalla cooperativa Iskra (Legacoop) nella scorsa primavera, mentre altre compagne e compagni sono letteralmente costretti alla clandestinità. L’assenza forzata di relazioni sindacali è lo specchio delle contraddizioni insolute della cooperazione sociale a Roma, così come il largo impiego di operatori dequalificati e senza garanzie contrattuali, parte consistente del nuovo "popolo del 10%".

La vicenda rappresentata dalla cooperativa Arca di Noè è paradigmatica, sia perché si tratta di una delle più grandi cooperative sociali del Lazio, sia perché presenta in parte caratteristiche di avanguardia, sia perché illumina il rapporto che si viene a determinare fra la cooperazione sociale stessa e gli enti pubblici.

Nell’Arca di Noè - che gestisce servizi a Roma e in alcuni grandi Comuni limitrofi - sono presenti un’ottantina di soci, a fronte di 110 dipendenti e alcune decine di "collaboratori", eufemismo che indica i lavoratori privi di tutela contrattuale. Abbiamo così una stratificazione gerarchica determinata non dalle differenti mansioni svolte, ma dal differente trattamento economico e normativo; il risultato è un processo di desolidarizzazione interna e di "padronalizzazione" di una parte dei soci lavoratori, che si percepiscono come datori di lavoro nei confronti di persone che fanno il loro stesso lavoro. Naturalmente, c’è anche una motivazione strettamente economica: per quanto riguarda i "collaboratori" siamo letteralmente all’affamamento...fino al luglio scorso - quando uno sciopero indetto dalle RdB ha paralizzato l’assistenza ai disabili - erano pagati poco più di 9.000 lire nette all’ora, mentre oggi arrivano a circa 10.500 lire. Paghe da fame, senza ferie, trattamento di malattia, ecc. che consentono alla cooperativa di lucrare circa 10.000 lire su quanto le paga l’Ente Locale per ogni ora di lavoro effettuato. Anche sul lavoro dei dipendenti - a cui viene applicato il CCNL scaduto nel 1995 e non quello attualmente in vigore - il lucro è di tutto rispetto, mentre è inferiore su quello dei soci, che sono (e si sentono profondamente) privilegiati rispetto agli altri, corporativamente decisi a mantenere questi privilegi, per quanto miseri possano essere. L’alto numero di dipendenti ha reso impossibile "proibire" la presenza sindacale, rappresentata a Roma dalla CGIL e dalle RdB e in altri Comuni anche dalla UIL: i rapporti fra le oo. ss. e la Direzione della cooperativa sono ovviamente difficili e, nel caso delle RdB, assolutamente conflittuali.

La qualità dei servizi erogati all’utenza è comprensibilmente bassa, sia per la demotivazione degli operatori, sia per il disinteresse degli enti locali: siamo arrivati al punto che lo stesso Comune di Roma ha autorizzato la cooperativa ad utilizzare per l’assistenza ai disabili personale non qualificato, anche a costo di violare la Legge Regionale che regola la gestione dei servizi sociosanitari.

Gerarchizzazione, desolidarizzazione e dequalificazione del privato sociale si sposano dunque con la strategia del disinteresse da parte della pubblica amministrazione, il cui obiettivo politico dichiarato è quello della ritirata definitiva del pubblico dalla gestione dei servizi sociali e dei servizi in generale; il Terzo Settore, in un simile contesto, si riduce fatalmente ad essere il surrogato povero dello Stato sociale, abdicando ad ogni funzione creativa e innovativa. Il volto affascinante dell’autogestione si trasfigura nel grugno livido dell’autosfruttamento e dello sfruttamento altrui, nella complicità e nel collateralismo con uno Stato sempre meno sociale e sempre più alieno dalla vita reale delle persone in carne ed ossa.

Le caratteristiche intrinseche del rapporto di lavoro che si viene a configurare nella cooperazione sociale, nel contesto dato, replicano una sorta di toyotismo accattone, con il lavoratore tanto coinvolto ideologicamente nell’esecuzione della prestazione lavorativa quanto è estraneo alla sua progettazione, tanto sussunto nella struttura organizzativa quanto estraniato da una verifica effettiva del "che cosa" sta producendo, "perché" lo sta producendo e "per chi". La flessibilità selvaggia, la disponibilità totale, l’impensabilità del conflitto sono gli elementi costitutivi di questo toyotismo di risulta, per cui non c’è da stupirsi se i dirigenti delle cooperative "rosse" utilizzano linguaggi e comportamenti da FIAT di Melfi o da azienda del Nord Est, come quella Diesel (tessile) dove ci si fa un vanto dell’altissima produttività, dell’inesistenza di scorte di magazzino, della velocità dei centri decisionali e, naturalmente, dell’assenza di quell’elemento di disturbo rappresentato dai sindacati.

Una prospettiva positiva per la cooperazione sociale - e in generale per il Terzo Settore - deve dunque prevedere una sua radicale rifondazione, a partire dal proprio negarsi al collateralismo subordinato allo smantellamento del pubblico, per guadagnare l’autorganizzazione popolare come dimensione dell’esistenza, come proposta migliorativa e non sostitutiva dei livelli qualitativi conquistati dalla classe nel compromesso fordista. Immaginiamo una cooperazione sociale che sappia misurarsi sull’individuazione dei bisogni e sull’ideazione delle risposte, che riannodi il filo con le esperienze della liberazione dai manicomi, con il riscatto degli esclusi, con l’affermazione dei diritti sociali e di cittadinanza.

Lo sforzo, di ricerca ma anche organizzativo, del Partito della Rifondazione Comunista sta da tempo andando in questa direzione, soprattutto per l’impegno dei compagni del Dipartimento

Stato Sociale, ma sarebbe sciocco nascondersi che abbiamo ancora un grande lavoro da fare; per esempio, al primo Circolo degli operatori sociali nato a Roma ormai da un anno, dovranno affiancarsene altri in altre città; pensiamo che sia necessario allargare la sfera di intervento e di organizzazione del Circolo stesso, prefigurando l’obiettivo - indicato nel convegno del 17 ottobre - dell’unificazione contrattuale dei lavoratori dei servizi sociali, assistenziali e educativi del pubblico e del privato sociale, sviluppando politicamente l’impostazione che, sul piano sindacale, si è data la CGIL, che organizza tutti questi lavoratori nel comparto della Funzione Pubblica, sia pure con contratti diversi.

Per avviare questo percorso, si è già reso necessario andare oltre la forma organizzativa del Circolo aziendale, privo di senso nel nostro come in altri settori che, difatti, si sono dati o si stanno dando forme organizzative interaziendali, come i compagni delle telecomunicazioni o dell’energia. Alla polverizzazione sociale indotta dal neoliberismo i comunisti devono opporre proposte di ricomposizione; in altre parole, dobbiamo prefigurare sul terreno dell’organizzazione quello che ci proponiamo come costruzione della società: la qualità del nostro progetto politico si misura tanto su questo quanto sulla capacità di essere opposizione sociale antagonista.

IL RITORNO DI ULISSE

Consegniamo alla riflessione delle compagne e dei compagni alcune considerazioni sullo stato dell’iniziativa del Partito nel nostro contesto operativo, la metropoli romana, dove abbiamo avuto la possibilità di sperimentare concretamente - a volte sulla nostra pelle - i riscontri della collaborazione con i partiti del centrosinistra nel governo degli Enti Locali.

Sei mesi or sono parlavamo della Tela di Penelope come metafora della contraddizione fra il lavoro politico svolto dai compagni nel territorio e sui posti di lavoro e le risultanti dell’operato della Giunta Rutelli, sostenuta anche dal PRC; oggi, e a maggior ragione dopo i risultati elettorali di cui abbiamo già detto, riteniamo che anche la raffigurazione della Tela di Penelope sia ampiamente superata dai fatti.

Premesso che confermiamo il nostro rifiuto di ogni automatismo nel rapporto fra le scelte del Partito sul governo nazionale e quelle sui diversi governi locali, il perdurare del sostegno dei comunisti alla Giunta Rutelli ci appare semplicemente impensabile. Per alcuni ottimi motivi.

Dell’astensionismo come messaggio si è già detto e il dibattito nel Partito è aperto; si è ragionato poco, invece, sul perché della crisi di consenso del Partito a Roma. Crisi di consenso, perché in una città la perdita del 40% dei voti nel volgere di un triennio non si può chiamare con altri nomi, a meno che non si voglia accedere alla cultura del maggioritario e dell’esclusione, in base alla quale chi non vota non conta, anzi non esiste.

Francamente, non si capisce per quale motivo il "popolo di sinistra" - e i nostri simpatizzanti in particolare - dovrebbero entusiasmarsi per un centrosinistra che ha abbandonato anche i più timidi tentativi riformatori; lo spauracchio della Destra, di Roma governata da un fascista, non funziona più, è come uno spaventapasseri su cui ormai passeri, corvi e volatili di ogni specie si posano per riposarsi come su un qualsiasi ramo di albero, perché non fa più paura a nessuno. E comunque non si costruisce una linea politica sulla paura che fanno o non fanno gli avversari.

Questa Giunta, dopo aver rimesso in discussione anche gli accordi presi con i lavoratori della Centrale del Latte e dello zoo, insulta e criminalizza i lavoratori dell’ATAC, procede come uno schiacciasassi verso la privatizzazione dell’ACEA, dispone milioni di metri cubi di cemento sull’Aurelia e a Tor Marancia; questa Giunta non solo non affronta seriamente la problematica dei lavoratori socialmente utili o di pubblica utilità, ma li licenzia in tronco quando osano ribellarsi a disposizioni illegittime, come ha fatto la signora Farinelli con 43 operatori sociali del progetto Polis...e, a proposito, che fine hanno fatto i 50.000 posti di lavoro promessi da Rutelli quattro anni fa? O dobbiamo sfottere solo Berlusconi e il suo milione? Ancora: dove è finita la "rivoluzione amministrativa" che doveva fare piazza pulita di funzionari e dirigenti ereditati dagli anni di Giubilo, Sbardella e Carraro? Sbagliamo, o sono ancora tutti al loro posto? E i quattro Consiglieri Comunali aggiunti che avrebbero dovuto rappresentare in Campidoglio i cittadini extracomunitari, che fine hanno fatto?

Le politiche sociali, poi...occorre un’ostinazione caprina per negare l’evidenza del nullismo, che non basta l’elemosina di qualche miliardo in più a nascondere; elemosina, come le poche decine di migliaia di lire al mese per le pensioni sociali con cui il Governo Prodi voleva comprare la connivenza del nostro Partito.

Nella sostanza, non è cambiato nulla, se non il fatto che oggi Roma può essere fiera di ospitare la baraccopoli più grande d’Europa, il mostruoso campo di Casilino 700, per cui la sola idea dell’Assessore Piva era quella di recintarlo...già, Piva, quello che può permettersi di dire sugli zingari le stesse cose che dicevano i fascisti Buontempo e Gramazio, con la differenza che contro di loro noi scendevamo in piazza e lottavamo, mentre con Piva stiamo zitti e governiamo.

Potremmo continuare, ma non occorre: i fatti parlano da soli. Come i risultati elettorali.

Rivolgiamo, anzi rilanciamo l’appello che già facemmo il 21 luglio all’Attivo del Partito per una grande manifestazione che porti in piazza i lavoratori delle aziende municipalizzate, privatizzate e in via di privatizzazione, i precari, i disoccupati, gli esclusi, i "nuovi poveri", gli sfrattati, gli utenti delle scuole e dei servizi, perché il Partito si assuma visibilmente la responsabilità di organizzarli e di costruire uno sbocco politico per la loro/nostra rabbia, perché non si esprima con la fuga dalle urne o con il voto alla destra.

Questo significa che dobbiamo presentare il conto a Rutelli e ai suoi boys? Ci sembra evidente. E’ arrivato il momento di lavorare per restituire dignità e credibilità al nostro ruolo di moderno partito comunista anche nella nostra città, e non possiamo più pretendere di farlo rimanendo abbracciati ad una Giunta liberista, antipopolare e sempre più impopolare. La tortura forse più crudele dell’antichità consisteva nel seppellire una persona viva strettamente legata ad un cadavere; non condanniamoci a questa sorte.

A maggio scrivevamo che Penelope, un giorno, smise di fare e disfare la sua tela; oggi, ci sentiamo di dire che pregustiamo il momento del ritorno di Ulisse.