Gli interventi al Convegno

nella giornata del 18 dicembre

INDIETRO

- Introduzione di Massimiliano Smeriglio

- Patrizia Sentinelli (segretaria federazione Roma PRC)

- Il Progetto : Il laboratorio di quartiere, Circolo Garbatella

- La Rete Territoriale : Città ideale, forum antirazzista, serv. legale popolare, Circolo Primavalle

- La Vertenza : Il parco di Tormarancia,

- La Cooperazione sociale , Circolo degli operatori sociali

- Lavoro e comunicazione, Circolo delle Telecomunicazioni

- Il partito nel territorio : L’esperienza degli sportelli informativi lavoro, Coord. Sportelli

- L’inchiesta, Coord. cittadino sull’inchiesta sul lavoro

- Paolo Ferrero (segreteria nazionale Prc)


" Introduzione "

Massimiliano SMERIGLIO

(Circolo PRC Garbatella)

Saluto tutti i convenuti al Convegno di oggi, in particolare la nostra segretaria Patrizia Sentinelli, perché impegnata in queste ore nella votazione sull’Acea in Consiglio Comunale. Quindi è venuta ed assisterà solo all’introduzione, interverrà e poi andrà via.

Dopo l’introduzione e l’intervento di Patrizia, ci saranno alcuni interventi, che segnano appunto il percorso del convegno e cioè interventi sulle esperienze fatte in questi anni sul territorio su temi specifici. Questo è un po’ il senso di queste giornate. Ricordo anche la mattinata presto di domani, perché il pomeriggio c’è il corteo, ed è importante, però la mattinata presto di domani ci si ritrova qui, in tre commissioni, proprio per sintetizzare, per dare un senso più compiuto agli interventi, alle elaborazioni che usciranno fuori oggi.

Gli interventi che seguiranno e la parte introduttiva, la ritrovate in un plico che abbiamo preparato, dove è possibile leggere con più attenzione le cose che io in 20 minuti dovrei sintetizzare.

Quindi il mio compito è davvero difficile, perché devo presentare un po’ il percorso che abbiamo fatto in questi due mesi di preparazione del convegno.

Il convegno nasce da un’idea di questo circolo, ed è proprio l’idea che sta alla base del manifesto, della brochure e dei ragionamenti successivi, e cioè provare a fare un ragionamento più collettivo, non soltanto come singolo circolo, su quello che andavamo facendo, del perché, ad esempio, aprivamo degli sportelli sul lavoro, un tentativo di organizzare, articolare servizi sul territorio, del perché, ad esempio, lanciavamo in questa circoscrizione il laboratorio municipale di quartiere, strumento pubblico e di privato sociale, che ci ha permesso di mettere insieme una decina di associazioni del territorio e ci ha permesso di fare un ragionamento che, dopo un compagno del circolo spiegherà più approfonditamente.

E però, dopo due anni di sperimentazione in questo senso, l’esigenza di confrontarci con la Federazione, ma anche con altri circoli che, in maniera più o meno sparsa sul territorio romano, si ponevano un po’ gli stessi obiettivi, sentivano lo stesso bisogno di uscire da una visione un po’ liturgica della vita e delle giornate che si trascorrono dentro i nostri circoli.

Questa è stata un po’ l’idea iniziale. In più l’idea è stata rafforzata, noi almeno l’abbiamo intesa così, come una risposta sana ad una nota aggiuntiva, cioè a un ragionamento che da questa estate si è sviluppato sui giornali su tutto il percorso che poi ha portato alla scissione. A quell’autonomia del politico che noi, nel nostro piccolo, contrapponiamo ad una visione che pone tutta la sua attenzione sulla composizione sociale, sulla utilità stessa dell’esserci in un territorio o in un posto di lavoro.

Questa idea camminando ha incontrato altri circoli e questo, per noi, è una delle poche volte in cui veramente il mezzo diventa anche il fine. Per noi è stato importante anche il percorso che ci ha portato ad oggi ; cioè il discutere con altri compagni, che, in altri quartieri, fanno esperienze simili, o anche un po’ differenti, ma che comunque sentono questo bisogno. In più, questo approdo odierno per noi è un momento importantissimo, pero’ non lo intendiamo, non vogliamo che sia la fine di un percorso. Speriamo, vogliamo che quel plico, questi ragionamenti, gli interventi che seguiranno, vogliamo credere, vogliamo sperare che siano in vario modo messi a disposizione nel percorso congressuale che ci accingiamo ad iniziare nei prossimi giorni.

L’idea nasce come al solito da ragionamenti che nei nostri circoli ormai si susseguono da diversi anni, senza trovare però delle articolazioni pratiche diffuse. Cioè a dire che l’organizzazione che ereditiamo, che abbiamo, in cui ci ritroviamo, è un’organizzazione che sicuramente nasce da lontano, e cioè nasce dal ‘900, nasce da quella composizione sociale che il ‘900 ha espresso, nasce da una forma che leninisticamente era speculare alla forma Stato ed alla composizione sociale, come il fordismo si è organizzato dal ‘900 in poi.

Il problema che ci siamo posti è che, forse, questa forma parte da troppo lontano. Parte da lontano e va bene perché è la nostra radice, la nostra memoria, ma rispetto all’oggi denota alcune crepe perché cambia complessivamente la composizione sociale, cambia la forma stato e quella forma che noi abbiamo ereditato, che, più o meno funzionante è pressoché simile alle forme che i partiti socialdemocratici e comunisti si sono dati dal primo ‘900 in poi, rispondeva a quello stato moderno, a uno stato pervasivo che sussumeva tutta una serie di funzioni, di servizi e che quindi andava combattuto su quel piano, specularmente.

Oggi, io credo sia evidente a tutti che questa forma Stato non c’è più, lo Stato diventa un altra cosa ,il processo produttivo è già da almeno quindici anni un’altra cosa ; anche qui non più concentrazione, ma esternalizzazione, produzione molecolare sui territori, e però noi a tutto questo, ancora oggi, rispondiamo con una forma organizzativa, con delle pratiche, che attengono ad una fase che probabilmente è passata.

Questo è stato il primo elemento che ci ha portato a fare pratica sociale come circolo, ma anche a provare a ragionare su questa pratica sociale, perché crediamo che questo non sia un problema che debba vivere un singolo circolo o più circoli, crediamo che questo sia il problema della rifondazione oggi. Come interpretare, come leggere le modificazioni e come attrezzarsi per contrastarle. Ovviamente vogliamo essere anche molto franchi su questo, come al solito il rischio è che si confonda una pagliuzza con una trave. La pagliuzza potrebbe essere un’accapigliarsi nel nostro partito, speriamo oggi un po’ meno, tra movimentisti e istituzionalisti. Questo non è un ragionamento che noi poniamo come compagni più attenti ai movimenti. Forse è anche questo, ma non solo, perché questo tipo di ragionamento lo fanno anche nelle piccole istituzioni locali, nella circoscrizione, per esempio. Non è questo il problema. Il problema è come presidiare davvero le trasformazioni sociali e produttive, questo è. Quindi speriamo, che sin da oggi, non ci si divida su questo crinale qui, che non è "il crinale". Potrebbe essere appunto una discussione meramente tattica, mentre a noi interessa la prospettiva, la strategia con cui interveniamo su questo piano.

In questo senso crediamo che il nascente Partito dei Comunisti italiani, sia un partito che possiamo definire "ex ante", che cioè "nasce prima" e che non si interroga sulle trasformazioni, perennemente tattico, liturgico e quindi destinato, probabilmente anche a sopravvivere sul piano istituzionale, ma a non ad interpretare e ad interrogarsi su quanto avviene. Noi invece immaginiamo un partito che è in itinere, che legge, che si trasforma, che sperimenta forme nuove. E in questo senso, questa scissione, - anche se non è mai bello ragionare di scissioni - ci viene utile per fissare queste due modalità : da una parte l’autonomia del politico, delle compatibilità, di una simbologia, di una memoria, che ha tutto il futuro alle spalle, cioè che guarda all’indietro, a una composizione, a dei riti che riguardavano un grande Partito Comunista che non c’è più.

Noi, oggi, siamo quasi nel 2000. Tutto questo ce lo siamo detto mille volte, il problema è come interrogarci, in avanti, su tutto questo.

Siamo partititi da un dato che vale per tutti e tre i ragionamenti che abbiamo sviluppato, e che trovate nel plico. Che, per noi, per ricostruire lo spazio della politica, c’è bisogno di ricostruire uno spazio nella società, cioè uno spazio democratico, un’agibilità più ampia, in cui poi sarà possibile, anche per i comunisti, articolare percorsi di intervento, di egemonia, .... chiamateli come volete.

Ci siamo interrogati su tre temi fondamentali per noi : il primo è stato quello dei nuovi lavori, per l’appunto a leggere in maniera un po’ più approfondita le trasformazioni che il modello produttivo ha subito e quindi il superamento del modello fordista, a partire dalla destrutturazione del mercato del lavoro.

Abbiamo dato come data simbolica il 1983, anno di nascita dei contratti di formazione lavoro, dove è evidente che, in quel momento, chi ha memoria se lo ricorda, sembrava fosse il massimo della destrutturazione : i contratti di formazione lavoro, una differenziazione salariale a parità di lavoro, ...

Oggi, a 15 anni da quella data, forse i contratti di formazione lavoro sono uno degli strumenti più garantisti ( ?) che rimane per accedere a un mondo del lavoro dipendente. Di forme, di sostanze e di articolazioni normative ne sono passate molte altre e ben peggiori.

Quello che per noi rimane un dato su cui ragionare, è come in questi anni, soprattutto in questi ultimi quindici anni, non siamo stati in grado di garantire un piano della mediazione politica. Laddove la pervasività delle merci, del mercato inducevano a processi di questo tipo : destrutturazione e sempre minor diritti per chi lavora, per le varie forme del lavoro ; dall’altra parte la mediazione politica non ha assolto il ruolo che storicamente, e soprattutto nel ‘900, si era data.

Noi crediamo che la riflessione debba partire da questo. Da come ricostruiamo lo spazio della politica, di come cerchiamo di dare risposte concrete a questa nuova composizione di classe.

Difficile da indagare, perché oggi chi è sotto i trenta anni sa bene che può, avere già cambiato lavoro almeno tre o quattro volte, e, sia che si tratti di lavori molto dequalificati per soggetti a bassa scolarizzazione, ma anche lavori nell’ambito dell’immateriale, di quello che viene definito intellettuale massa, sa bene che difficilmente ritroverà forme di garanzie che i suoi padri e i suoi nonni hanno conosciuto.

Come noi, singoli circoli, ci poniamo rispetto a questa trasformazione, non solo sul piano della propaganda, dell’azione che normalmente un circolo fa. Questo è un convegno di partito e si può dire : ovviamente noi crediamo sia strategica la battaglia sulle 35 ore, ma la composizione di questo circolo è fatta da compagni che stanno al di sotto dei trenta anni e questa non è la loro battaglia, è una battaglia strategica di civiltà, di allargamento, però non è la loro battaglia, come composizione sociale, perché vivono condizioni materiali, di lavoro, di sfruttamento e che quindi si pongono il problema di come organizzare risposte concrete rispetto al loro vissuto e questo, secondo me è un dato importante, non è un dato di ultrasoggettività, è un dato di come ci si interroga su una composizione che comunque anche dentro Rifondazione esiste.

E allora, per noi, diventa importante superare quel grosso gap che c’è tra ciò che diciamo nei convegni, anche in questo convegno probabilmente, nei congressi. Soprattutto quello che dice, nel migliore dei modi possibili, il nostro segretario, sulle nuove forme dell’aggregazione. Pensiamo a tutta la parte sulle case del popolo per sintetizzare. E allora il problema è superare questo gap tra il dire e il fare, o forse il non fare o fare male : come noi oggi proviamo ad aggredire questa nuova composizione partendo da alcuni ragionamenti che nel partito sono stati fatti, ma che difficilmente riusciamo a mettere in campo con forza, con voglia, fortemente motivati.

Su queste tematiche, per esempio, sarebbe interessante che, magari dal prossimo congresso, ogni federazione riesca a proporsi, a fissarsi un piano di sperimentazioni : una sperimentazione.

Se magari nella nostra federazione si decidesse come partito, non singolarmente come è successo in un singolo circolo, di fare una sperimentazione, su questi temi.

Una sperimentazione che metta insieme, appunto, le esigenze di questa nuova composizione sociale.

Pensiamo a forme di auto-aiuto, di mutuo soccorso, recuperando, per l’appunto, pezzi di ragionamento che fanno parte del movimento operaio, e, guarda caso, ne fanno parte proprio in quella fase in cui lo stato moderno non era ancora così pervasivo, che sussume forme e servizi. La classe si era data autonomamente delle risposte, che andavano da delle forme di mutuo soccorso per vedove ed orfani, quando un lavoratore moriva, ai club del penny contro lo strozzinaggio, ai club della bara perché non c’erano neppure i soldi per garantire una sepoltura dignitosa a chi moriva Quindi, non è che diciamo di rifare tutto questo, ma che bisogna riprendere il ragionamento in un momento in cui lo stato diventa altro.

L’altro pezzo non è soltanto sul piano dell’autorganizzazione. E’ anche un nuovo ragionamento forte su quello che potrebbe essere un welfare mutuato a livello municipale, e su questo, ad esempio, vi possono essere delle risposte interessanti che i comuni le circoscrizioni possono dare. Alcune cose stanno già accadendo. Pensiamo, ad esempio, ad una gestione più oculata della legge 285 da parte del comune di Roma. Alcune opportunità, risorse, percorsi, che i Comuni potrebbero articolare, è secondo me l’altro corno di questo problema : cercare di costruire forme di integrazione e di assistenza, a partire dalla comunità locale, anche dall’ente locale. Autotutela e forme più istituzionali, a partire dalle nostre piccole esperienze. Penso ai servizi che alcuni circoli riescono a mettere in campo, fino appunto agli sportelli informativi lavoro.

Altro elemento: l’altro corno del nostro ragionamento era sulle reti associative. Sul terzo settore in genere- c’è un documento su questo - Intanto come presa d’atto e non come ragionamento astratto sul terzo settore. Un mondo, un corpaccione che c’è e che cresce, pieno di contraddizioni, ma che comunque rappresenta la partecipazione e, sicuramente, un anticorpo democratico. La possibilità di partecipare, di esserci è il dato più positivo che noi leggiamo nel terzo settore, anche perché re-inventa un agire e rimette al centro quell’aggregazione a progetto che per noi è importante, cioè il fatto che delle persone si incontrano, si organizzano e costruiscono risposte concrete rispetto a problemi concreti.

Questo è un dato interessante su cui ragionare, senza dimenticare quelli che sono i rischi. Pensiamo al rischio di cinghia di trasmissione governativa, o di sostituzione a basso costo del welfare state, che abbiamo conosciuto. Tutto questo c’è, ci è presente. E però crediamo che questo ambiente, questo terreno, sia per noi un terreno importante, su cui stare, con il quale comunicare, confrontarci, crearlo anche laddove non c’è. Come abbiamo fatto noi in questo territorio, in questi ultimi due anni, e non pensare come anche tanti compagni ed amici, per esempio di alcuni centri sociali pensano, come ad una forma di piccola lobby del terzo settore più alternativa e più a sinistra di qualcun altro.

Non è questo. Non credo che noi dovremmo ragionare in questi termini ; oppure su quanti compagni riusciamo a mettere nel direttivo dell’Arci, della Lega delle cooperative o da qualche altra parte.

Penso che il ragionamento è proprio sul territorio, è la che va giocata questa sfida. In questo senso assumere questa complessità e pensare al partito come "uno" dei luoghi, uno dei luoghi in cui i compagni si incontrano, crescono, ma anche uno dei luoghi che è in grado di confrontarsi, di mettersi in discussione, con umiltà. ed incontrare soggetti diversi.

L’ultima cosa era sul territorio, il territorio inteso come lo spazio in cui si intrecciano la produzione, la nuova produzione molecolare, e la riproduzione sociale, il lavoro, il consumo, il tempo libero, la famiglia, gli affetti. Questo è il territorio. In particolare, il rischio che alle soglie del Giubileo, che Roma diventi sul piano del territorio quella che alcune compagne hanno definito una novella Disneyland archeologico-culturale c’è tutto, perché i rischi di veder trasformare in maniera negativa i nostri quartieri, anche a partire dal tempo libero e dall’evento giubilare, secondo noi ci sono tutti.

L’altro elemento è come ragionare un po’ di più e meglio, su come mettere in collegamento il piano vertenziale, (pensiamo alle questioni dei trasporti al lavoro, al progetto Polis ad esempio, al piano regolatore, alla battaglia che stiamo facendo qua su Tormarancia contro l’edificazione) e la mediazione politica, cioè il ruolo che svolgono i nostri compagni in Circoscrizione, al Comune in Regione.

Va fatto un ragionamento più pieno tra le vertenze e il piano istituzionale, perché non sempre funziona, e non può funzionare basandosi soltanto sulla buona volontà di alcuni compagni. Magari non tutti hanno buona volontà in questo senso.

L’ultima cosa è come noi intendiamo il territorio. Rifondazione, le articolazioni sociali, come agenti di sviluppo del territorio, come soggetti in grado di interrogarsi, di interpretare, ri-progettare il territorio.

Non è, badate bene, la classica battaglia per la fontanella che era cara al Partito Comunista. Non è soltanto questo. Perché lì cornice, il quadro, il contesto era dato. Era soltanto un piano di miglioramento continuo delle condizioni, un piano di miglioramento giustissimo.

Oggi, purtroppo, la sfida è un po’ più complessa e dura, e noi crediamo che il nostro ruolo sia quello di starci, di esserci e di essere in grado, riproponendo anche forme e processi formativi per i compagni, ma non "ideologici", ma processi formativi sul saper fare, sul saper costruire il partito dal basso e davvero.

Questo per noi è la sfida più grossa, e lo dico in conclusione, perché su questo, a nostro parere si gioca gran parte della sfida che Rifondazione cercherà di rimettere in campo da qui ai prossimi anni


Patrizia SENTINELLI

(Segretaria Federazione Roma Prc)

Abbiamo provato tanto con Massimiliano e altri compagni a trovare una giornata utile per una discussione approfondita e anche per un confronto di merito tra di noi, un po’ libero dagli impegni di altri giorni. Sembra invece che non ci siamo riusciti perché il calendario che ci siamo dati, oggi per quanto che mi riguarda è saltato.

E’ un rammarico personale il fatto di dover andare via, non mi sento tanto in difetto nei vostri confronti, quanto verso me stessa che purtroppo non riesce a sentire le vostre comunicazioni e i vostri interventi.

Nella discussione precedente, perlomeno nell’impostazione di questo incontro che mi è stata presentata da alcuni compagni, e tra essi, da Massimiliano, vi era un vero interesse, per vari aspetti che sono stati toccati anche qui oggi, e che toccherete voi. Intanto perché a me è sembrato, anche dalla relazione di Massimiliano, che questo convegno ha di interesse questo : prova ad interrogarsi sulle forme e sull’organizzazione del partito, non in astratto, ma provando, perlomeno così è la dichiarazione e il lavoro che sin qui è stato compiuto, intrecciando questa riflessione politica alla pratica, all’agire.

Quindi, rimettendo la discussione del partito, delle sue forme, della sua organizzazione, non solo dentro a una sperimentazione, ma anche dentro ad una riflessione di ciò che si è fatto e che si sta facendo.

Mi sembra molto importante questo, perché oggi, per le questioni che venivano poste alla nostra attenzione anche da Massimiliano, a me non pare che ci sia solo un’esigenza di ridefinire la forma del partito e la comunicazione che il nostro partito deve adeguare alla fase, ma vi è anche da riflettere sulla fase, e sulla rottura dei soggetti ; la frammentazione l’abbiamo chiamata, dei soggetti che in questa fase si è andata a consumare. Questa fase particolare che abbiamo definito di modernizzazione capitalistica, che veniva richiamata da Massimiliano nel suo intervento.

Abbiamo un’esigenza duplice, che mi sembra si situi tutta dentro la discussione che stiamo facendo qui : ritornare a ridefinire le condizioni e le caratteristiche possibili, da verificare peraltro, e non da sancire in modo dogmatico, di un nuovo partito radicato o di massa e anche su questo la discussione è aperta, anche sui termini, e quindi, per questa esigenza, passare anche attraverso un’analisi e una ri-definizione su chi sono oggi i soggetti di riferimento, o comunque i soggetti sociali scomposti.

Mi sembra importante tenere tutte e due le facce presenti. Noi ne discuteremo, io spero ancora in modo collettivo, nella preparazione e durante il congresso che faremo tra qualche tempo.

Stamattina abbiamo rimesso a punto un documento che deve essere sottoposto all’attenzione dei circoli per il congresso, quindi non anticipo discussioni che si faranno successivamente, ma la nostra riflessione di oggi sta dentro questo percorso, il percorso congressuale.

Mi pare anche per un altro aspetto importante questo convegno e questo incontro, che non è stato sottolineato nell’introduzione, ma che sta nel manifesto di convocazione, e che era poi presente nelle immagini un po’ disturbate del video comunque bello che avete proposto : la rabbia : "Su tutto quello che è accettato mettici il fuoco della tua rabbia". Secondo me, non so quanto pensato, ( io non c’entro, nel senso che non mi è stato sottoposto), l’ho visto e lo trovo molto dentro al percorso che voi qui proponete alla discussione, perché raccoglie, con questa immagine e con queste parole, un portato che è il frutto della discussione già fatta, ma che ancora deve essere approfondita, dell’integrazione e della cooptazione al sistema dato.

Noi abbiamo davanti a noi due aspetti che oggi inquietano e che devono essere assunti dall’iniziativa del partito : la possibile integrazione e cooptazione, e quindi la passivizzazione. Dall’altro, il rinvio a noi, come opporsi, come ostacolare, quindi come costruire una pratica che sappia mettere dentro l’alternativa e la definizione di un altro tipo, non di situazione politica ma anche di situazione sociale, o, se volete, di situazione sociale perché è la premessa per ridefinire un’altra situazione politica. Questo è il nucleo di grandi problemi che dobbiamo approfondire. Come costruire e dare corpo, attraverso anche pratiche di sperimentazione, l’alternativa. Per la definizione di un’alternativa politica, non si può non passare attraverso nuove consapevolezze, nuove aggregazione, nuove identità che ci diamo, di riconoscimento di se’, (non identità ideologiche, ma identità di se’) insieme ad altri. Perché la riconnessione dei soggetti, la riconnessione delle ridefinizioni di un’apartenenza, ridefiniscono le premesse per un’alternativa politica. E non invece il contrario.

Per questo noi abbiamo sentito con nettezza e con fastidio, e ci siamo ribellati, anche durante il dibattito che ha portato alla scissione, a quella esperienza che determinava dalla politica, l’essere della politica, mentre appariva poco il fare della politica. La scissione si era determinata proprio dalla politica verso il sociale. Per cui la scissione reale, che poi abbiamo subito dentro il partito, era il frutto di questa scissione che si era determinata nella idea, nella consapevolezza, nella definizione dell’agenda politica, di quei compagni che poi sono andati via. Si è consumata la scissione, sostanzialmente perché si è creata una diversa impostazione all’interno del partito, una diversa valutazione di fase, e quindi della nostra collocazione rispetto al governo, ai governi, al governo come entità.

Per questo io penso che questa interessante discussione, che dobbiamo ancora fare, sulla forma partito, sulla forma dell’organizzazione sociale strettamente connessa, è oggi il nodo di fondo della situazione politica e sociale che noi attraversiamo e che abbiamo impostato dal punto di vista politico, come opposizione. Noi, oggi, stiamo in una situazione di opposizione nella collocazione parlamentare, ma lo siamo perché pensiamo che debba partire una opposizione sociale, con forme, contenuti ed esperienze da determinare. Non è che abbiamo costruito il modello dell’opposizione. C’è un nucleo di problematica politica, ed è da qui che ci si invita anche ad intervenire sugli aspetti particolari su cui dobbiamo agire.

Io credo che l’interesse prevalente, in questo momento, debba essere questo : dalla situazione di opposizione che noi abbiamo aperto, perché vi è oggi quella passivizzazione e frantumazione sociale che richiede una riconnessione attraverso politiche di riappropriazione anche di se’, insieme agli agli altri, c’è la domanda di come essere durante questo percorso che costruisce l’alternativa.

Come essere e che cosa fare. Qui, credo che sia molto interessante il metodo, che voi avete anche messo nella preparazione di questo convegno. Un convegno che non termina qui, mi pare importante sottolinearlo ancora, che non c’è un convegno che si conclude domani mattina. Vi è un percorso che nasce da qualche tempo alle nostre spalle, che sta’ oggi qui, nella riflessione intermedia, che riprende. Io raccolgo anche l’invito, da questo punto di vista, a mettere anche in atto un’ipotesi di sperimentazione del lavoro della federazione, che veniva detto nella relazione di Massimiliano. Anche se su questo, proprio per non dire solo parole, ma anche per provare a fare esperienza di ciò che è avvenuto, noi abbiamo provato a lanciare, io stessa, questa necessità di sperimentare anche forme di conflitto. Quando dico forme di conflitto, dico forme parziali, non segmenti di conflitto. Ebbene, non ci siamo neppure riusciti ad individuare delle forme di sperimentazione. Abbiamo, invece, e questo mi sembra comunque un fatto positivo, assunto le sperimentazioni che i Circoli di Roma, non soltanto quelli che sono qui, hanno provato a mettere in atto. Lo dico anche a proposito (c’è Marco, c’è Germano, Roberto....)

Quando io partecipai al Congresso di costituzione del Circolo degli operatori sociali, (è un invito a una discussione che mi piacerebbe rifare con voi, non lo farò stasera), che anche dentro quella ipotesi, vi era un invito di questo tipo. C’era un’idea che doveva essere più ricca di quella che, probabilmente, fin qui è stata. La nostra ipotesi era di ricostruire, a partire da quell’esperienza, sia un punto di osservazione e di lavoro politico su un segmento di lavoro sociale, che doveva servire anche ad altri e ad altre all’interno del nostro corpo politico, e invece forse non siamo riusciti molto, ne’ ad indagare, ad esempio attraverso gli operatori sociali, che cosa all’interno del terzo settore si muove, ne’ a dare luoghi e forme diverse dell’organizzazione anche per altri Circoli. E’ stata finora un’idea che non è fecondata fino in fondo. Poi per altri, ci sono esperienze di Circoli territoriali, come questo di Garbatella, che, mi pare, stiano dentro la strada del fare e dell’interrogarsi mentre si fa, e questo è molto importante, nel metodo, sempre che si ponga al servizio dell’intero partito.

Io "archivio" in modo positivo, per rimetterlo poi in apertura e in circolazione, quelle esperienze che si conducono, come gli Sportelli, e come tutte quelle attività connesse alla produzione di servizi nel territorio in cui si opera. Io credo che questo sia un aspetto molto importante. Un partito, radicato, insediato, un partito strumento, capace anche di leggere, ma non di dismettere la sua capacità di luogo dell’organizzazione che si oppone con rabbia all’integrazione ed alla passivizzazione, è anche un elemento di coagulo delle esperienze che attorno possono concretizzarsi. E in questo senso gli Sportelli ed i servizi in generale sono una cosa molto interessante.

L’ultimissima questione, che lascio alla riflessione di domani, perché su questo ci siamo impegnati già nell’ultimo Comitato federale di Roma, dell’altra settimana, a riprenderlo a gennaio, sul bilancio della nostra esperienza al Consiglio Comunale. Ma, se non vuole essere un’esperienza slegata da quello che ha prodotto dentro la dinamica sociale, sarebbe bene su entrambi i fronti : che cosa un partito, che è anche impegnato a livello locale nelle istituzioni, può, con quella esperienza istituzionale maturare rispetto anche a dinamiche di movimento. Questo, io credo sia molto importante, perché spesso e volentieri, coloro che lavorano a livello istituzionale, lavorano come esperienza separata dal resto, sostanzialmente autoreferenziale, o comunque autonoma dal resto del partito. Io credo, invece, che le esperienze delle istituzioni locali debbano servire ad innescare meccanismi di dinamismo sociale. Noi, ad esempio, in questi giorni, in Consiglio comunale si discute di bilancio. Noi stiamo ragionando sulla possibilità di inserire dei fondi e dei contributi per nuovi rivolti a quegli aspetti, che sinteticamente diciamo del terzo settore, ma che riguardano tutte quelle professionalità ed esperienza da promuovere, che sono, da parte nostra, attivabili anche come aggregazione.

Non un semplice lavoro in cui si mettono dei fondi senza ricaduta, quindi anche attraverso queste forme, io credo che possa essere interessante ricostruire i nessi che ci sono tra le esperienze istituzionali e le esperienze sociali, a partire anche dalle realtà aggregative che possiamo situare all’interno dei circoli.

Questa era un’appendice, che mi sembrava utile nel ragionamento che noi stiamo facendo delle forme della politica ed anche della forma tra politica, istituzioni e sociale.

L’ultima cosa, ma è solo un nome, perché vorrei ritornare, è uno dei temi che non possiamo lasciare non svolti dentro il congresso, è il tema del genere. Come questo partito che si deve, e che già si sta’ interrogando sul rapporto tra politico e sociale, deve cambiare per far sì che le donne, le compagne, riescano ad entrare, a pieno titolo, nei nostri luoghi. Non essere, cioè, ne’ considerate neutre, ne’ essere considerate di appendice, ma protagoniste attive di un processo anche di ridefinizione di se’ nel momento in cui si ridefiniscono le forme dell’organizzazione e della politica.


" Il progetto : il laboratorio di quartiere "

Andrea CATARCI

(Circolo PRC Garbatella)

Come ha detto Massimiliano, già nell’introduzione, il percorso di questo convegno è stato lungo e faticoso, è difficilmente sintetizzabile in un intervento, anche per quel che riguarda i contributi dei circoli.

Voglio partire da una premessa, l’idea di costruire questo convegno e gli obiettivi di questo convegno sono stati quelli di mettere a fuoco, nella maniera più consona possibile e partendo da noi, quelle che sono le priorità, le metodologie politiche, quelli che sono gli obiettivi del nostro agire politico quotidiano. Interrogandoci, non tanto sulla cronaca di quello che facciamo, su quello che tutti i giorni mettiamo in pratica, dandolo per scontato, ma invece sul perché lo facciamo.

La premessa che ci premeva fare, come compagni di Garbatella, è che in questi mesi di lavoro lungo, per la costruzione di questo convegno, e per mettere a fuoco questi temi, si è dato vita ad un percorso di contaminazione, di esperienze territoriali e lavorative, di settori e di parti di città molto diverse. Questo ci ha fatto verificare essenzialmente due cose : delle sensibilità comuni, nell’impostazione, nelle motivazioni, nelle scelte strategiche che ci conducono poi a porre in essere il nostro agire quotidiano nei territori o nei settori di riferimento, che dunque esistono in questo partito; e un secondo elemento, anche questo fondamentale, che siamo riusciti a mettere a confronto differenze, diverse per caratteristiche, per scelte, per metodologie, di presenza sociale del nostro partito all’interno, appunto, dei quartieri e dei settori del mondo del lavoro, che, anche questi, esistono, ci sono.

Per cui ci sentiamo di parlare, sì come compagni del circolo di Garbatella, sì sulla nostra esperienza di costruzione del laboratorio di quartiere in XI Circoscrizione, ma anche come pezzo di questa contaminazione, che speriamo essere appena iniziata, e che speriamo che con questa ed altre modalità, tutte da inventare, possa coinvolgere altri pezzi di partito e altre sperimentazioni, che, sicuramente, ci sono all’interno della nostra città e del nostro partito tutto.

Tre considerazioni sul convegno. La prima: siamo partiti dalle esperienze di pratica sociale perché crediamo che queste stesse esperienze siano sottovalutate nell’individuazione di quella che è la linea politica del nostro partito. Da un punto di vista della prospettiva politica poco dicono o poco riescono a dire nel nostro partito. Con esse, crediamo che non sia sottovalutata soltanto la singola esperienza, questa o quella di un altro quartiere, ma che sia sottovalutata l’idea stessa della sperimentazione. Questo, non tanto nelle parole; dai documenti congressuali, ai nostri interventi in tutti i livelli, crediamo che si riconosca un’indubbia necessità di aggredire il reale, quanto nei fatti. Crediamo, infatti, che l’importanza che si da’ ad alcune cose, ad alcune esperienze, in questo caso la sperimentazione, va misurata su quanto ci si investe, sulle energie, umane ed economiche, su ciò che ci si mette vicino per cercare di far diventare l’idea, la teoria, un pezzo della prassi quotidiana. Ebbene, da questo punto di vista, e do soltanto due titoli esemplificativi, casa del popolo e camere metropolitane dei lavori, vediamo quanto ne abbiamo parlato e quanto abbiamo speso per tentare di costruirle nella realtà concreta anche come forme di sperimentazione simbolica.

Crediamo che questo partito rimanga una struttura, un’organizzazione completamente ancorata al fordismo ed alla sua composizione sociale. Per puntare oltre, per andare avanti, per riuscire a presidiare le nuove produzioni, i nuovi lavori, in tutti i nuovi settori, questo non è probabilmente sufficiente, e dobbiamo inventare, anche se non sappiamo ancora come, ma in fretta e bene, i nostri modi di inventare, di spendere e di proporre militanza e adesione politica.

Un secondo elemento è la metodologia di questo convegno. Ci teniamo particolarmente a sottolinearlo. Questo convegno è stato addirittura definito da alcuni compagni abusivo e pericoloso. Abusivo perché non codificato nello Statuto e pericoloso perché veniva in una fase difficile, dopo la scissione del Partito dei comunisti italiani. Ebbene, il tentativo è stato quello di una costruzione orizzontale di questo convegno, a partire da una proposta di un circolo, investendo gli altri circoli, fino ad arrivare alla federazione, alla segreteria, a tutto quello che potevamo pensare di poter mettere dentro queste due giornate. Crediamo, quindi, al contrario, che lo scenario di cui preoccuparsi sia proprio l’opposto: non di un’iniziativa che nasca dal basso, dai circoli e che tende di investire tutto, ma sia invece quella passivizzazione che abbiamo, purtroppo, visto, avvertito, sperimentato e conosciuto su noi stessi quest’estate; quando a fronte di un dibattito scorrettissimo e di attacchi personali, non un circolo è riuscito a prendere la parola e dire basta. Non è possibile andare avanti in questo modo, con questo tipo di scorrettezze.

Una terza considerazione, che rimanda alle precedenti, è la necessità impellente di elaborare politicamente la scissione del partito dei comunisti italiani. Dopo un momento di sbandamento, comprensibilissimo, è venuto il momento di capirla. Non tanto di capire le ragioni di chi se n’è andato, ma per capire le nostre, per capire perché, ad un certo punto, malgrado la possibilità della scissione fosse probabile, abbiamo strategicamente scelto di non fermarci di fronte al ricatto dell’autonomia del politico che i comunisti italiani avevano messo in campo.

Crediamo che questo tipo di elaborazione politica, della scissione che abbiamo subito, ci debba sempre più convincere della necessità di un partito, che invece nelle istituzioni ci sta’, perché sta’ al servizio di pratiche sociali e di esperienze concrete, che debbono trovare un riferimento e un di raccordo tra il sociale ed il politico con la nostra rappresentanza istituzionale.

Vengo al Laboratorio di quartiere.

L’esperienza del laboratorio nasce appellandosi ad una delibera comunale che prevede l’istituzione dei laboratori di quartiere come strumenti, che si mettono al servizio di idee proposte dal basso per farle diventare progetti. Una volta appurata l’impraticabilità, semplicemente perché questa delibera non ha i soldi per essere applicata, le associazioni che hanno dato vita a questo percorso, inizialmente cinque, oggi una ventina, hanno aperto una vertenza con la Circoscrizione. L’ultimo passaggio è di circa un mese fa : con un’Assemblea molto partecipata nella sala circoscrizionale dell’XI, in cui si sono individuati i tre punti del lavoro odierno del laboratorio :

Intanto l’apertura di un luogo fisico, vertenza che proprio in questi giorni sembra stia per arrivare a un risultato concreto.

Secondo: una caratterizzazione di questo luogo fisico come luogo di informazione e di analisi del territorio, di osservatorio sul territorio, in cui confluiscono, da una parte le singole esperienze, capacità e competenze di associazioni e singoli del quartiere, sistematizzandoli, proprio ad archivio, con i bandi, le opportunità, le informazioni, le notizie che arrivano dai livelli di rappresentanze istituzionali più vicina a noi : Circoscrizione e Comune.

Terzo: agire da piccola agenzia per lo sviluppo e per la nascita del no profit, cercando di immettere una specie di effetto moltiplicatore per dare un aiuto, a chi vuole costruire iniziativa sociale, in tutte le forme, organizzate o meno che siano, ed in particolare a chi vuole farlo in forme organizzate sul modello delle associazioni o delle imprese sociali in genere.

Questa è la storia. Crediamo che la tenacia con cui le associazioni hanno costruito, rafforzato ed ampliato, come numero di associazioni e come territorio di riferimento, che inizialmente era solo Garbatella e che oggi è il territorio dell’XI Circoscrizione, ha alla base una necessità impellente, avvertita un po’ in tutte le associazioni spontanee, di uscire dalla paura dell’isolamento, della parcellizzazione. Su questo crediamo che sia ripartito, con forza, il dibattito e la riflessione che ha poi portato all’allargamento del Laboratorio.

L’esigenza di sottrarsi all’isolamento e all’incomunicabilità partendo però dagli elementi comuni che abbiamo ravvisato, primo tra tutti quello di cercare di stare dalla parte dei soggetti sociali più deboli, o comunque laddove c’è una carenza in termini di servizi.

Il fatto che molti compagni tra noi stiano lavorando dentro questa realtà, non è perché intendiamo definirci un circolo aperto, ma per scelta strategica, quella di costruire reti associative, in quanto senza la ricostruzione di tessuti sociali, non possiamo pensare di ricostruire un tessuto politico che promani dal basso e che possa riuscire a incidere concretamente sui nuovi luoghi della produzione e della riproduzione.

D’altronde, crediamo che la demonizzazione del terzo settore paghi molto poco. Non starci dentro e dire soltanto, questo è buono, questo è cattivo, non ci sembra che aiuti i singoli ad entrare nei nostri circoli, o, quando entrano, il che è molto raro, a cercare e trovare una collocazione che gli consenta poi di rimanerci e di mettere a frutto i buoni propositi che li hanno fatti entrare. Oltretutto, la crisi della militanza politica non è un elemento che riguarda solo noi, ne’ solo di oggi, a fronte, invece, in questi ultimi quindici anni, di una crescita notevole delle militanze in varie forme dell’associazionismo. Crediamo, quindi, che questo debba essere un elemento di riflessione, che ci aiuta nell’analisi per capire questo pezzo di società che altrimenti continuerà a sfuggire alla nostra comprensione. Alternative al fare società, al fare politica, crediamo non ce ne siano, non ci salva stare alla finestra.

Ci siamo posti questo interrogativo : se ricomporre un tessuto associativo, ricomporre quello che c’è in termini di realtà del no-profit vagamente inteso (soprattutto in riferimento alle strutture piccole) possa essere un elemento che ci aiuta anche ad intercettare le nuove figure sociali atomizzate e parcellizzate che vivono nei rivoli di questa produzione ormai frantumata.

Dalla grande fabbrica è uscito fuori veramente di tutto, quindi crediamo che, soprattutto in una città come Roma, dove del terzo settore vivono parecchie persone tra cui anche molti compagni, poter costruire questi luoghi di riferimento dell’associazionismo può poter significare anche intercettare queste figure sociali di riferimento.

Non sappiamo ancora come e quanto ci consentirà di farlo un’esperienza come il laboratorio ma crediamo che su questo dobbiamo scommetterci molto. Con una chiarezza di fondo: anche in questo mondo dobbiamo perlomeno dire una cosa molto semplice, dobbiamo riuscire a distinguere, come ha scritto anche Ferrero un po’ di tempo fa, il volontariato vero e proprio dal lavoro sociale, per il semplice motivo che il volontariato, essendo per definizione una prestazione gratuita non può essere sostitutivo del lavoro, e da questo punto di vista dobbiamo riuscire ad impostare una grossa battaglia politica.

Il lavoro sociale che ci piaccia o no, che lo vogliamo accettare o no, non è più sostitutivo di niente, per il semplice fatto che un intervento pubblico da sostituire non c’è più o c’è in termini così minimali da risultare trascurabile. Ci piaccia o no ripeto, il lavoro sociale è una delle nuove forme del lavoro e per questo bisogna considerarlo.

Due elementi ulteriori di cui do soltanto i titoli : il primo è la diminuizione dei militanti nel terzo settore. Purtroppo si assiste ad un dato molto preoccupante, l’ultimo rapporto Iref del ’98 dice che per la prima volta da 15 anni a questa parte i militanti sono in diminuzione anche nel terzo settore, anche in questo settore così variegato. Questo costituisce un enorme elemento di preoccupazione per chiunque vive e pensa che la partecipazione diffusa sia l’elemento da ricandidare per poter ricostruire un intervento politico.

Il secondo è il tentativo di subordinazione, direttamente agli interessi dell’area governativa, che è in atto ad opera, prima del governo Prodi e poi del governo D’Alema, con la legge sull’associazionismo di promozione sociale, con cui si svilisce ulteriormente la possibilità di partecipare. Chi non sarà presente in cinque regioni e venti province, cioè gran parte dell’associazionismo piccolo e medio, sarà tagliato fuori da ogni forma di finanziamento e da ogni possibilità di realizzare le proprie buone intenzioni.

Dunque anche questo è un forte elemento di preoccupazione. Ancor più, quindi, crediamo che il compito sia quello di ricostruire un tessuto di socialità, di mutualismo, di ricostruire la "Casa del popolo" che, però, solo nella simbologia possiamo rinchiudere in qualche angusto edificio, e che nella realtà dobbiamo riuscire a far vivere nella molteplicità di queste reti territoriali e dei linguaggi sociali che esprimono.

Ultimissima cosa e concludo, pensiamo a un partito perlomeno che debba essere fortemente impegnato su tre fronti : un partito di coesione sociale che riesca a rimettere insieme tutto questo, un partito di servizio in grado anche di ricandidarsi, a fare politica, intercettare bisogni, a partire dai servizi, ed un partito che faccia dell’impegno istituzionale, in relazione alle stesse ragioni della nostra rottura strategica con il partito dei comunisti italiani, un forte avamposto delle lotte sociali

Su questi obiettivi possiamo ragionare per riuscire a capire, sia le ragioni della nostra rottura con il Partito dei Comunisti Italiani, sia quello che può essere il nostro percorso, per tentare appunto di lavorare per candidare e ricandidare un pensiero e una pratica comunista alle soglie del duemila.


" La rete territoriale :

citta’ ideale, forum antirazzista, seervizio legale popolare "

Paolo CAPPAI

(Circolo PRC "G.Puletti" Primavalle)

Abbiamo deciso, nel preparare collettivamente questo intervento, di raccontare la storia del circolo "Guido Puletti" dando rilievo alle ragioni ed alle analisi che ci hanno guidato nella nostra esperienza.

Partiamo dal 1994, dopo che si era esaurita la spinta e l’entusiasmo che avevano segnato la nascita di Rifondazione, dopo che, lo scontro perenne tra componenti aveva allontanato parte rilevante del quadro attivo.

Abbiamo iniziato ad operare nella consapevolezza che non fosse sufficiente lavorare esclusivamente ad una crescita quantitativa del Partito.Se gli anni ’80 avevano segnato la sconfitta dei valori e delle ragioni della sinistra, non potevamo riproporre la vecchia cantilena del "bisogna stare in mezzo alla gente".

La frammentazione dei soggetti sociali di cui parlavamo tanto doveva pur significare qualcosa per il nostro agire politico quotidiano.Si trattava quindi, di ricostruire prima di tutto il tessuto democratico e civile che pure in un quartiere storicamente di sinistra come Primavalle, si era disperso.

Era quindi necessario costruire una rete di mobolitazioni strutture democratiche ed associative perché solo così poteva riacquistare un senso e ruolo il Partito della Rifondazione Comunista.

Scegliemmo tre indicazioni di metodo per il nostro agire politico :

la valorizzazione delle competenze e degli interessi delle singole compagne e compagni in alternativa ad un’idea neutra e apparentemente oggettiva della scelta delle priorità ;La costruzione diretta di esperienze associative e, soprattutto, l’individuazione di progetti significativi su cui costruire reti di intervento territoriale che riattivassero il flusso comunicativo tra soggetti più o meno organizzati.

Nascono così : l’investimento di energie nella costruzione del Forum Antirazzista (oggi Kif-Kif), la costruzione dell’Associazione Pedro 19 (Servizio Legale popolare e Segretariato Sociale), l’impegno per la nascita del Coordinamento città ideale che vede oggi raccolte circa 30 associazioni impegnate per un progetto di riutilizzo del Comprensorio del S. Maria della Pietà ed infine il giornale "Diciannovesima", un giornale non formalmente di Partito, ma con un forte taglio politico-culturale.

La logica che ci ha guidato è stata quella del "Partito - strumento" luogo e motore dell’aggregazione politica e sociale piuttosto che contesto autoreferenziale, pura enunciazione di posizioni politiche.

Le realtà associative del nostro territorio, riconoscono oggi il ruolo di interlocutore privilegiato, paritario, nel rispetto delle differenze e delle caratteristiche di ogni soggetto.

Questo tipo di impegno ha costituito, oltre che l’acquisizione di un ruolo politico forte del Partito sul territorio, la conquista graduale di un’identità collettiva dei compagni attivi nel circolo fondata sulla centralità delle relazioni esterne, sulla scoperta di linguaggi comuni e soprattutto sulla ricerca di un metodo nostro.

Ma il Partito nel suo insieme, come reagiva ad un Circolo che esprimeva una identità ed una soggettività politica ? Tanto più che questa non corrispondeva a nessuna delle "tendenze" legittimate sul piano nazionale.

Da parte nostra, esprimere una forte identità soggettiva che riguardasse il metodo, il linguaggio e la pratica voleva essere un modo per arricchire tutto il Partito, il nostro contributo alla Rifondazione.

D’altra parte, nel Partito a livello cittadino, venivamo visti con diffidenza.

Nelle sedi formali del Partito capitava spesso di essere guardati come marziani. Cosa a volte reciproca. In molte occasioni, specialmente nei Congressi e nell’organizzazione delle Feste cittadine, la difficoltà maggiore stava proprio nel mettere in relazione la creatività soggettiva del Circolo con le strettoie di un’organizzazione nel contempo confusionaria e poco incline ai cambiamenti.

Il risalto cittadino dell’iniziativa sul S. Maria della Pietà, l’elezione di una Presidente circoscrizionale di Rifondazione (esito anche del riconoscimento del lavoro territoriale del circolo), un cambiamento di indirizzo nazionale e cittadino, hanno fatto sì che queste difficoltà di rapporto si attenuassero e che il rapporto con la Federazione tendesse a migliorare.

Tuttavia, il processo di crescita del circolo ha subito dal 1997 un calo di iniziativa parallelo a quello che, a nostro avviso, ha colpito il Partito a livello Nazionale. Il problema era ed è tuttora, l’esigenza non corrisposta di molti compagni di vedere la propria esperienza valorizzata nel dibattito politico.

E’ evidente che esperienze innovative, sperimentazioni anche ricche, hanno il fiato corto se la ricerca sulle pratiche sul metodo e sulle forme non coinvolge tutto il Partito. Lo dimostra il momento di difficoltà che sta’ attraversando il nostro circolo, non tanto a causa di divergenze sui contenuti, quanto per il bisogno di molti di trarre un bilancio di questa esperienza al fine di costruire un’opzione politica complessiva.

Ovvero, la pratica può diventare progetto ed il progetto linea politica ? E ancora, il metodo, la forma partito, la centralità del rapporto con la società organizzata, diventeranno priorità, oppure, continueranno ad essere aspetti non affrontati collettivamente da tutto il Partito ma delegati alla buona volontà di singoli circoli o addirittura di singoli compagni ?

A queste domande, e, al senso di isolamento che spesso abbiamo vissuto nelle fatiche quotidiane della nostra militanza comunista, chiediamo risposte, dagli altri compagni, dai gruppi dirigenti del Partito, dal Congresso, anche da molti compagni del nostro circolo.

A queste domande, crediamo fortemente, possa iniziare a rispondere questo Convegno.

Tutto questo, nella certezza che il Partito, così come oggi si organizza, non risulta adeguato alle esigenze di una società complessa ed è necessario iniziare quel processo di rifondazione finora rinviato.

 


" La vertenza: il parco di tormarancia "

Susy FANTINO

(Comitato per il Referendum e contro l’edificazione di Tormarancia )

Nel 1991 alcune esperienze di base a carattere territoriale hanno dato vita al primo comitato in difesa dell'area del Fosso di Tor Carbone/Tor Marancia. Un'area che si estende per circa 220 ettari, circondata dai quartieri Ardeatino, Tor Marancia, Poggio Ameno, Il Sogno, Rinnovamento, Roma 70.

Il Comitato , che nel '96 prende il nome di "A. Cederna", ha percorso la strada del confronto con le istituzioni con l'obiettivo di contrastare il progetto di cementificazione previsto dal PRG di Roma. Così con le Varianti di salvaguardia (91'/95'/96') e con la Legge Regionale Parchi del '97 si ottiene una riduzione dell'area edificabile e l'annessione di un centinaio di ettari al Parco dell'Appia Antica.

Questi provvedimenti però non hanno fatto altro, nonostante il ridimensionamento del progetto originario, che confermare un piano di edificazione che definire insostenibile da un punto di vista ambientale è dir poco.

Nel 1997, anche a seguito di una fuoriuscita di alcuni aderenti dal Comitato "A. Cederna", si costituisce un nuovo Comitato che, in collegamento anche con il Gruppo comunale del PRC, decide di utilizzare un dispositivo previsto dallo Statuto comunale: il Referendum consultivo circoscrizionale. Si sceglie la modalità del Referendum per imprimere alla battaglia su Tor Marancia una svolta a livello partecipativo, di impegno democratico dei cittadini, di pressione politica dal basso contro la speculazione edilizia.

Il PRC si inserisce così nel conflitto tra poteri forti (i costruttori) e le forze politiche che li sostengono da una parte e la cittadinanza dall'altra.

Ma è proprio con la partecipazione del nostro partito a questo conflitto, che si sono aperte alcune contraddizioni al nostro interno, per esempio tra il nostro ruolo di rappresentanti nelle istituzioni e le forme che la battaglia sociale di volta in volta assume.

L'esperienza legata alla lotta contro la cementificazione del Fosso di Tor Carbone/Tor Marancia è, a nostro avviso, emblematica proprio per le contraddizioni che lascia emergere, in questa fase, tra pratica sociale ed organizzazione del conflitto.

Lo è su molti versanti. Tor Marancia, non è solo un problema cittadino; se ne è discusso, per le implicazione che le sono proprie, anche in sede di Unione europea. Eppure, oggi, Rutelli è riuscito a ridurla ad un problema d'interesse più che locale. Per dirla tutta, non riguarda neppure l'intera città ma solo quel segmento di cittadinanza che abita in prossimità dell'area edificabile: da questione di interesse generale a resistenza corporativa di qualche migliaia di residenti.

Così - per uno strano rovesciamento di ruoli, proprio di questa epoca illuminata dalle teorie del nuovismo -, un sindaco verde, Rutelli, che promuove un progetto di cementificazione di un'area verde e archeologicamente rilevante, si presenta e viene presentato come il modernizzatore, mentre coloro che si preoccupano della difesa e della tutela del patrimonio ambientale e culturale pubblico come i conservatori.

Se comprendiamo, quali sono i motivi che hanno portato l'attuale giunta alla decisione di aggredire l'area di Tor Marancia, meno comprensibile rimane la scarsa attenzione o la diffidenza verso una battaglia legata all'uso dell'ambiente urbano da parte di quelle forze politiche e sociali che per loro storia e identità politica dovrebbero essere i principali promotori di un modello di città a dimensione umana.

Ci sentiamo di dire che anche nel nostro Partito riscontriamo una mancanza di convinzione. Noi compagni di Rifondazione che lavoriamo nel Comitato per Tor Marancia, riteniamo che la battaglia in cui siamo impegnati sia importante. Lo sia perché è necessario salvaguardare, quelle aree verdi non ancora aggredite da una espansione urbana immotivata, o, peggio ancora, motivata da un modello di sviluppo urbano basato sul profitto e la speculazione; lo sia perché‚ è necessario riprendersi il diritto a decidere su ciò che ci riguarda contro una giunta che si muove, come ha già fatto in precedenza, (per esempio con la privatizzazione di alcune municipalizzate), non tenendo conto neppure delle sensibilità del proprio elettorato.

Quindi siamo in presenza di una battaglia che coinvolge sia la qualità della programmazione urbanistica, sia la democrazia sostanziale in questa città. Su entrambi questi versanti, francamente, ci si aspetterebbe un atteggiamento ed un'attenzione ben diversi da parte di una giunta di centro sinistra, oltre ai rituali commenti di rammarico sull'astensionismo crescente dopo ogni tornata elettorale.

Ma questa carenza di sensibilità è registrabile anche al nostro interno. Al di là delle iniziative che pure, come circoli territoriali dell'XI, abbiamo realizzato (raccolta di firme, presenza nel Comitato, ...), non siamo infatti riusciti a delineare una strategia organica sui temi ambientali e della gestione del territorio a partire da un problema specifico come quello di Tor Marancia. Una strategia di più ampio respiro, ci permetterebbe sicuramente di evidenziare, attraverso la vertenza, quale qualità della vita e che tipo di città proponiamo: "non più il profitto sulle aeree libere e di pregio, ma uno sviluppo sostenibile che coniughi i valori storici ed ambientali dell'Agro romano con attività che creano occupazione stabile per precari e disoccupati e non effimera come l'edilizia".

A livello cittadino le altre vertenze aperte (Bufalotta, Veio, Malafede, Valle dei Casali, oppure un caso particolare come il Santa Maria della Pietà, ecc.,), che vedono l'impegno di molti compagni di Rifondazione, non hanno trovato finora momenti di raccordo, di riflessione comune e di elaborazione di strategie da parte del Partito.

Sentiamo la necessità che proprio la Federazione si faccia carico, in modo non burocratico o gerarchico, di questa domanda di raccordo. Infatti, se non si può dire che la Federazione non abbia presente l'importanza di questi problemi, i rapporti con essa, su questi temi, sono tuttora episodici. Compito della Federazione non può essere solo quello di trasmettere ai circoli le direttive che partono dai vertici, ma anche quello di raccogliere e fare proprie le domande d'iniziativa che vengono dai circoli.

Nonostante i vuoti e le difficoltà, il Comitato per Tor Marancia ha fatto un salto di qualità nell'ultimo periodo. Ad esso si sono affiancate nuove forze (Associazioni, Centri sociali, Comitati, Invisibili, ...), che ci hanno permesso di uscire dalla pura cornice locale in cui ci eravamo ritrovati esiliati, dopo che il Tar aveva dichiarato inammissibile, per vizio di forma, la raccolta di firme per indire un referendum. Attualmente stiamo lavorando su due ipotesi d'intervento parallele:

1 - una raccolta di firme (5.000) a livello cittadino per presentare una delibera d'iniziativa popolare da discutere nel Consiglio comunale;

2 - la definizione di un percorso che abbia come obiettivo finale un referendum autogestito .

Sono due diverse modalità per la medesima finalità: la prima più istituzionale, la seconda più di movimento.

La struttura organizzativa che stiamo cercando di costruire, per armonizzare queste due modalità è quella della rete. Ogni soggetto sociale e politico si inserisce all'interno del progetto con le proprie specificità, proponendo in piena autonomia le iniziative che intende portare avanti in coordinamento con gli altri.

Attraverso questo percorso, che deve lasciare spazio alla creatività di ognuno, pensiamo che sia possibile la costruzione di un movimento e di alleanze intorno ad un progetto, definizione di ambiti organizzativi e di partecipazione delle forze autorganizzate territorialmente (circoli, centri sociali, comitati, associazioni, singoli cittadini), rapporto diretto tra rappresentanti e rappresentati, battaglia politica all'interno delle istituzioni.

All'interno delle realtà che lavorano su Tor Marancia, ci siamo trovati in passato a discutere quale delle due ipotesi fosse la migliore e la più praticabile. Oggi possiamo dire di aver superato le contrapposizioni.

Senza entrare nel merito degli argomenti che vengono portati a sostegno di una tesi invece di un'altra, va detto che una scelta netta a favore della prima o della seconda ipotesi, avrebbe probabilmente comportato, per il Comitato, la perdita di una parte degli attori attualmente in gioco.

Siamo invece riusciti a superare la logica dicotomica istituzionalisti/movimentisti, perchè abbiamo compreso che non c'era contrapposizione tra queste due modalità, e che, invece, potevano essere una complementare all'altra nella realizzazione del nostro comune obiettivo: fermare la cementificazione.

Per vincere la battaglia su Tor Marancia dobbiamo costruire coscienza e cultura antagonista, costruendo percorsi di partecipazione e articolando alleanze.

Senza questo sforzo di organizzazione e coinvolgimento alla partecipazione, limitandoci magari a chiedere solo una firma riprodurremo un meccanismo di pura delega che darebbe forse visibilità a Rifondazione sul piano istituzionale, ma che avrebbe una scarsa ricaduta sul territorio in termine di radicamento sociale.

Il nostro compito è quello di costruire alleanze sociali e politiche che vadano oltre questa battaglia specifica e che durino nel tempo.

Un'ultima cosa prima di chiudere. Abbiamo evidenziato sin qui alcune problematiche inerenti l'ambito del nostro partito: differenti sensibilità sull'ambientalismo, difficoltà nel costruire un intervento a rete tra i circoli sul territorio, scarso coordinamento e comunicazione tra circoli coinvolti e Federazione, rapporto con gli eletti. Ma registriamo anche sul fronte delle altre realtà autorganizzate o di 'movimento', contraddizioni nel rapporto con le istituzioni e la pratica sociale, la rappresentanza e gli strumenti della rappresentanza, il locale e il globale. Poniamo il problema perché ci preme evidenziare che alcune questioni sono trasversali, cioè che si propongono entro tutti gli ambiti dell'agire politico e sociale. Abbiamo tutti presenti il dibattito che si è aperto in seno ai centri sociali o alle tute bianche proprio in questi giorni. Sicuramente il confronto su progetti comuni è un ambito di sperimentazione che ci auguriamo ci permetta di affrontare e sciogliere i nodi che tutti abbiamo di fronte.

Per concludere. vorremmo proporre alla Federazione di Roma di organizzare una struttura di coordinamento con il compito di raccordare le varie situazioni e vertenze, come momenti di riflessione comune, sulle questioni che riguardano lo sviluppo di questa città.


" La cooperazione sociale "

Germano MONTI

(Circolo PRC della Cooperazione Sociale "M.Sanna")

Con "terzo settore" si intende quel settore che non è né stato né mercato e, secondo me, già qui c’è un vizio di fondo, perché in realtà è un settore che dipende o dallo Stato o dal mercato, perché comunque i fondi materiali per andare avanti da qualche parte vengono fuori, specialmente se consideriamo giusto quello che noi sosteniamo essere il "Terzo settore", non un blocco organico, non un settore in quanto tale, ma un luogo di scontro. Uno dei comparti in cui oggi si organizza la società, in cui oggi si organizza anche la composizione di classe e che quindi, inevitabilmente, al proprio interno, riproduce le dinamiche dello scontro di classe.

Fermo restando che poi con questo termine "Terzo settore" si intendono tante di quelle cose che possiamo dire tutto e il contrario di tutto. Pensate soltanto che nel Terzo settore" ci sono le associazioni di volontariato, le associazioni di difesa degli utenti, senza toccare gli estremi delle associazioni come la Confindustria, o come Sodalitas, l’associazione sociale della Fiat, però ci sono associazioni di volontariato, associazioni di difesa degli utenti, come Codacons, e rappresentano effettivamente spezzoni di società civile che si organizzano, in questo caso per la difesa dei propri diritti, ed imprese sociali che partecipano a pieno titolo allo smantellamento del welfare.

Le cooperative sociali nascono per garantire l’inserimento al lavoro dei soggetti destinati all’esclusione. Nascono quindi per garantire servizi educativi e per garantire l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Al loro interno è prevista anche una quota di volontariato. I dati del Ministero del Lavoro ci fanno riflettere. Anzitutto, la componente di volontariato è statisticamente poco rilevante, non raggiungendo il 10 %, a dimostrazione comunque, che chi intende esercitare la propria attività volontaria, al di fuori dell’orario di lavoro, non retribuito ecc.., continua a preferire le forme classiche già date. E’ più importante il dato che riguarda il lavoro : i soggetti svantaggiati inseriti attraverso questo strumento nel mondo del lavoro sono a loro volta poco più del 10% degli impiegati nella cooperazione sociale. La grande massa, e parliamo di 85 mila e 90 mila persone, sono persone normale, cittadini normodotati, che soltanto attraverso questo strumento hanno trovato una collocazione nel mondo del lavoro. Quindi, questa parte di terzo settore non viene più a svolgere un compito di inclusione di soggetti svantaggiati, ma ha assunto un compito di inclusione di soggetti normali, perché i normali strumenti di accesso al lavoro non funzionano più. Si preferisce ricorrere a questi. Tanto è vero che se si guardano le attività svolte dalla cooperazione sociale, nel 90% dei casi sono attività pubbliche, che lo Stato dismette e che vengono gestite da questa forma di impresa

Un ragionamento sull’intervento del partito in questo settore e la possibilità di valorizzarne l’autonomia, va fatto partendo da questo dato. Oggi non possiamo individuare questo settore come un tutto unico, come un elemento di per se’ ricompositivo, come un elemento che presidia la democrazia. E’ così per un certo tipo di associazionismo, non è così per l’impresa sociale.

E’ un elemento di contraddizione in cui noi dobbiamo trovare i termini per inserire una prospettiva per un conflitto che già esiste, che non si manifesta nelle forme classiche, perché non è classica la forma di organizzazione del lavoro. L’abbiamo definitiva "toyotismo straccione" con un alto grado di coinvolgimento ideologico del lavoratore nell’esecuzione della prestazione d’opera non nell’ideazione, non nella progettazione, però sempre un rapporto di lavoro di tipo salariato nei confronti del quale noi dobbiamo trovare le forme di organizzazione adeguate a rappresentarlo, e ovviamente non possiamo farlo solo come partito, o solo come soggetti politici, dobbiamo darci degli strumenti che consentano di intervenire sull’arco completo delle contraddizioni. Per questo per esempio nel campo dei servizi c’è una grande attenzione al coinvolgimento degli atri soggetti in cui si entra in rapporto : gli utenti, le loro associazioni, gli altri cittadini, gli esclusi, o perché disabili, o perché anziani. La possibilità di organizzare questo settore, sta’ molto nel rapporto che si riesce a costruire anche al di fuori del rapporto salariato in quanto tale, quindi anche nel coinvolgimento dell’utenza. C’è un intreccio, quindi, tra le metodologie classiche dell’organizzazione del conflitto e della presenza di un partito nel posto di lavoro e le metodologie che vengono usate, per esempio, dai compagni dei comitati per l’ambiente, dei comitati di quartiere, perché la dimensione dell’intervento si va sviluppando oltre la questione pura e semplice del rapporto di lavoro salariato, che pur restando centrale, non può essere assunta come totalizzante. Questo ci riporta in qualche modo al primo punto : quello della contrapposizione nel rapporto tra l’autonomia del politico e composizione di classe, tra la ricerca dell’intervento nel sociale e le istituzioni.

La vicenda SAVI (trasformazione del servizio di assistenza agli handicappati in denaro dato direttamente agli utenti) può costituire un esempio. La delibera comunale non è passata, non perché ci fosse un nostro assessore in giunta, perché altri e ben peggiori provvedimenti sono comunque passati sotto il naso dei nostri assessori che hanno firmato ad occhi chiusi, la delibera non è passata perché c’è stata la capacità di costruire uno schieramento tra il Circolo, e quindi il Partito, le associazioni degli utenti, i sindacati, altre forze politiche, un terreno comune di ragionamento di opposizione e di lotta contro quella delibera. Per questo non è passata, non per la presenza di un assessore.

Questo ci dà l’idea della necessità di lavorare su questo distacco che esiste fra una concezione della politica autonoma dalla vita reale ed una concezione della politica che si vive, come proiezione di ciò che esiste nel sociale, che lo vuole organizzare, prima ancora che rappresentare.

Io credo che la proposta sulla sperimentazione sia la più interessante che sia venuta finora. Abbiamo la necessità di sperimentare queste nuove forme di aggregazione, ma soprattutto abbiamo la necessità di riconoscerle, di vederle e di fare in modo che esse stesse si riconoscano e si vedano. Nell’unico attivo del Partito che c’è stato a Roma nel ’98, un nostro compagno, partendo dal dato sulle nuove povertà che investono anche i lavoratori con un posto regolare, aveva proposto di portare in strada e di rendere visibile, su un dato unificante, quella che noi definiamo la "galassia" dell’esclusione e dell’emergenza sociale a Roma, e che noi intendiamo rappresentare ed organizzare : lavoratori degli enti locali, come delle aziende municipalizzate o in via di privatizzazione, i lavoratori del privato ed i precari, i disoccupati e gli anziani, le famiglie che vivono di servizi che devono essergli garantiti dall’ente locale ; insomma, gli esclusi veri e propri e quelli che lavorano sull’esclusione.

Ponendola come passaggio di sperimentazione che come partito romano dobbiamo intraprendere, la proposta è quella di dare visibilità a questa galassia, in strada, in piazza, in forme che poi troveremo, in cui, a partire da questa nuova identità dei nuovi poverio, possiamo cercare di far riconoscere quei soggetti diversi che oggi non si riconoscono neanche rispetto a se stessi e che quindi figuriamoci se riescono a riconoscersi come un elemento di collettività.

Noi dobbiamo lavorare su questo riconoscimento di identità collettiva. Proviamo a fare questo passaggio, vediamo che cosa succede, soprattutto rendiamoci conto che la necessità forte oggi è quella di ridurre il distacco fra la politica, la vita reale e l’organizzazione delle masse che sta’ drammaticamente segnando questa fase anche del nostro partito.


" Lavoro e comunicazione "

Emilio CARBONI

(Circolo PRC della Telecomunicazioni)

Il Circolo delle Telecomunicazioni di Roma, si è formato nel 1996 per dare un contributo, a partire dai luoghi di lavoro, alla ricomposizione di una forza d’urto di classe che si opponga alla dilagante non ideologia della globalizzazione.

Il nostro impegno è quello di aumentare la sinergia tra i compagni e le compagne militanti in circoli aziendali e territoriali, che incrementi soprattutto la coesione di tutto il comparto della convergenza tecnologica e crei un punto di fulcro necessario per arginare il processo di frammentazione della ideologia comunista e della stessa esistenza del sindacato, come forma di rappresentanza condivisa degli interessi di classe sui posti di lavoro.

Abbiamo denominato il nostro Circolo Telecomunicazioni e non Telecom Italia, nonostante la prevalenza degli iscritti sia Telecom Italia, ponendo, forse tra i primi nel partito, l’esigenza di passare da una forma di organizzazione legata solo al proprio contratto o luogo lavorativo, a quella di un circolo tematico, allargata a tutte le componenti aziendali, territoriali e culturali che avessero attinenza con le comunicazioni di massa. A tal proposito, sottolineiamo che nella federazione di Roma esistono altri Circoli del settore comunicazione, ma che, viceversa, hanno nella loro natura istitutiva il presupposto di analizzare l’esistente, dando una forte prevalenza alle dinamiche imposte dall’azienda o società di appartenenza; per esempio, la Rai, le Poste, l’Olivetti.

La scelta predetta, ci ha permesso di iscrivere compagni contrattualmente diversi, ma simili dal punto di vista formativo e professionale, perché appartenenti allo stesso ciclo produttivo, che parte ad esempio dalle holding finanziarie Albacom e Telecom Italia ed arriva alla società impiantistica Sirti o manifatturiera Italtel.

In questa visione di superamento di vecchi schemi sindacali ed anche di partito, basata sulla sistematizzazione dei compagni in funzione del contratto : metalmeccanici, telefonici, elettrici, e molto spesso avulsa dal contesto sociale e territoriale, è contenuto il nostro embrionale messaggio di risposta al fenomeno di portata storica denominato "globalizzazione dei mercati".

Il capitalismo si trasforma ed è sempre in movimento, cambiando pelle, dobbiamo fare altrettanto.

Mentre la destra si compatta a livello planetario, esportando parole d’ordine condivise da Roma a Singapore, le forme di risposta sindacale, infatti, rimangono nostrane, scarsamente rappresentative, soggiogate dall’esigenza del mercato neo-liberista, mentre la politica cede il passo all’economia, o per meglio dire, il diritto pubblico scompare per lasciare il posto al diritto commerciale.

Sfogliando i piani industriali ed i comunicati sindacali delle principali aziende informatiche e di telecomunicazioni, coinvolte nel processo di convergenza tecnologica, di formazione di una piattaforma multimediale, è facile cogliere il nesso che accomuna le sorti delle società - aziende leader del settore.

Trasformazione delle società mandatarie in holding finanziarie, tant’è vero che sarebbe errato chiamarla Telecom Italia, bisognerebbe chiamarla Stet, Stet finanziaria: non è più una società d’esercizio o di gestione, ma è proprio come una banca.

Tagli occupazionali effettuati attuando scorpori di rami di azienda, mediante outsourcing di alcuni pezzi del ciclo produttivo, attraverso pre-pensionamenti o licenziamenti, utilizzando in taluni casi l’esternalizzazione del lavoro mediante il tele-lavoro, forma di lavoro para-subordinato con scarse garanzie contrattuali; praticamente nulla.

Dismissioni di attività non core-business, (settore principale, fondamentale, strategico dell’azienda) ad altre società e il riposizionamento strategico a carattere internazionale.

Questa interpretazione neo-liberista dell’economia politica, porta a gestire i capitali e gli obiettivi aziendali solo per aumentare il valore delle azioni, con una selezione degli investimenti sulla base dei ritorni economici attesi. Tanto per fare un esempio, c’è il blocco del " Socrate " e di " Fido " che si inseriscono in questa ottica.

Nelle telecomunicazioni, lo scopo sociale è stato già scardinato. E’ vero infatti che, attualmente, non esiste un piano industriale nazionale, e quantomeno europeo, che crei una politica del settore. A tal proposito, sottolineiamo anche, che i problemi di sicurezza nazionale, di cui nessuno parla mai sui giornali, se non Liberazione, legati alla gestione delle telecomunicazioni, che di fatto non hanno un confine tra civile e militare, sono completamente subordinate agli interessi statunitensi e della Nato, ed anche la tutela della segretezza potrebbe diventare un nuovo fattore di business per le aziende competitrici.

In questo contesto, il passaggio dal controllo pubblico a quello privato della Stet finanziaria, ha generato scelte di politica industriale che di fatto hanno bloccato lo sviluppo di aziende manifatturiere e di impiantistica, che sono state scaraventate nel mare in burrasca della competizione internazionale, smembrate a pezzi e rivendute al miglior offerente, generando un impoverimento della nazione sul piano della ricerca, della competizione tecnologica, dell’occupazione, ma anche dello sviluppo sociale di alcune aree, prima di tutte il Meridione, colpite dal vento della finanziarizzazione.

Il tradimento in atto perpetrato nei vertici degli Stati, che fanno e disfano accordi internazionali, senza per niente considerare i parametri dettati dalle loro stesse Costituzioni d’origine, trattati Nafta, Apec, Mai

permette la sottomissione della politica a livello nazionale, regionale, comunale, agli interessi d’azienda.

Già oggi è diventato un crimine contro gli interessi delle Aziende-Stato parlare di clausole sociali o di inquinamento. Dichiarare che l’attuale sindacalismo confederale è spostato a destra è un atto di sovversione.

Tra poco scioperare sarà anti-costituzionale e chi lo farà sarà punito economicamente o licenziato per aver arrecato danni materiali e d’immagine all’azienda, com’è avvenuto in questi giorni ai compagni delle Poste di Milano.

Cofferati e Giugni si stanno adoperando per dare un ultima stretta alla libertà di sciopero, per spianare la strada alla firma del Trattato Mai, in un’ottica di condivisione del pensiero unico che va da Fossa a D’Alema, da Bassolino, a Marcegaglia.

Ed allora, noi del Circolo delle Telecomunicazioni, pensiamo che prima di parlare di nuove forme di organizzazione del partito, è necessario far chiarezza al nostro interno su quali sono i bisogni dai quali partire per il nostro agire politico quotidiano.

Non tutti i compagni e le compagne infatti, sono sensibili allo stesso bisogno di opporsi a questa drammatica situazione che ho in parte descritto, sfuggendo alle nicchie sindacali o partitiche istituzionali ed aprendosi al confronto con la mera realtà che si prefigura nel terzo millennio.

L’idea di coordinare il nostro operato, la nostra analisi politica, con il resto dei compagni e dei lavoratori del settore, l’esigenza di aprirci, per quanto reso possibile dalla nostra capacità organizzativa, alle istanze dei disoccupati, dei centri sociali, degli studenti e delle studentesse, nasce non solo dalla volontà di rilanciare un sindacalismo alternativo e di classe, ma anche dalla necessità di omogeneizzare le scelte politiche con tutti gli altri soggetti sociali, sfuggendo sia alle limitazioni dottrinali, a volte troppo intellettuali, quanto alle tesi riduttive dei compagni che guardano solo alla propria area di provenienza politica, territoriale, sindacale, accostandosi con diffidenza agli altri.

Con questi presupposti abbiamo dato un contributo alla costruzione del coordinamento nazionale delle telecomunicazioni e combatteremo l’idea di un partito tana sicura dove vivere dinamiche proprie ma scollate dalla realtà

I volantinaggi non bastano più, perché quella che è in corso è una guerra fredda a tutto campo.

Buon lavoro.


" Il partito nel Territorio

L’esperienza degli sportelli informativi sul lavoro "

Claudia PITACCIO

(Coordinamento cittadino degli "Sportelli informativi sul lavoro")

Come coordinamento degli sportelli informativi sul lavoro che operano a Roma, volevamo raccontare la nostra esperienza e capirne un po’ il senso. Noi, come compagne e compagni, ci siamo ritrovati a mettere in campo questo progetto dopo esserci incontrati in una delle poche cose vere e reali, secondo me, che sono nate a Roma negli ultimi anni. Nel ’95 a Roma, è sorto spontaneamente un coordinamento dei disoccupati, sulla scia del decreto Treu, che azzerava l’anzianità di iscrizione al collocamento. Noi, chiaramente, siamo stati subito dentro quell’esperienza, riconoscendo i nostri limiti di chi fa politica per mestiere, rispetto a chi mette in campo realmente dei bisogni . Proprio quell’esperienza, ci ha convinto che ci fosse, fondamentalmente, un problema di accesso all’informazione rispetto al mondo della disoccupazione e dell’inoccupazione.

Quando noi parliamo di Sportello lavoro, in realtà è una cosa molto semplice, anche se poi ha destato non poche perplessità anche dentro il partito. Parliamo di una cosa semplicissima per cui, dei compagni, anzi spesso delle compagne, (perché alla fine succede che sono le compagne che nei circoli danno vita agli Sportelli Lavoro, con quella tipica praticità femminile che tante volte non è nei forum, nei luoghi e nelle altre cose di donne), forniscono semplicemente informazioni. Giornali, riviste, gazzette ufficiali, bandi di concorso, utilizzando tutto il materiale che è a disposizione.

Però, questa che sembra una cosa molto semplice, in realtà ci siamo accorti che ha una sua centralità.

La difficoltà di reperire informazioni in una società in cui l’accesso alle informazioni è difficilissimo per chi viene ai nostri Sportelli.

Questi Sportelli sono diventati per noi anche uno strumento di inchiesta. Quando i disoccupati, le disoccupate vengono allo Sportello, noi facciamo una scheda, che ci è tornata molto utile, proprio in termine di inchiesta sul territorio. Ci ha permesso di fare anche un’analisi della composizione di classe che noi abbiamo nei nostri territori. L’anno scorso per esempio siamo andati a raffrontarla nei diversi circoli dove operano gli Sportelli.

Oltre a mettere in campo uno strumento, un servizio, rispetto a un bisogno che è quello della comunicazione, per noi è divenuto anche un termometro del malessere sociale. Un po’ tutti quanti abbiamo riscontrato come ai nostri Sportelli spesso non vengano direttamente i disoccupati e le disoccupate, ma vengano i nonni, i genitori, e, credo che questo sia un segnale di grosso malessere sociale, di grosso disagio sociale. Non è come qualcuno lo vuol far passare, quasi che fossero giovanotti che non hanno voglia di lavorare, non hanno voglia di spostarsi, non hanno voglia di far nulla e mandano mamma o papà a cercare lavoro. Per noi significa piuttosto la percezione che uno ha di se’, del non poter fare assolutamente niente, del non contare niente, del non poter mettere in campo niente,

Questo diventa l’altro punto centrale, attorno a cui hanno ruotato gli Sportelli, la socializzazione, la ricostruzione di un tessuto sociale.

Credo che siamo un po’ tutti stanchi di sentire vertenze, iniziative e progetti che vengono messi in campo da ceto politico, fondamentalmente, e non con una partecipazione diretta dei diretti interessati. Credo che come partito il problema non è quello di essere in grado di fornire le risposte. Credo che in questo ci sia una perversione di tecnicismo, per cui troviamo noi la risposta, noi il modo. E’ un po’ la difficoltà che abbiamo trovato rispetto alla vertenza degli stabili Iacp. Ad un certo punto abbiamo detto : il patrimonio immobiliare comunale non offre servizi rispetto ai lavori di manutenzione ordinaria, pur prendendo soldi dagli inquilini, e ci siamo incartati sul come trovare noi la risposta, che tipo di progetto forniamo, chiediamo cooperative, chiediamo lavori di pubblica utilità ..... , perdendo di vista anche quello che dovrebbe essere il nostro lavoro vero, cioè quello di ricostruire un soggetto politico che mette in campo un problema, apre una contraddizione. Un altro trovi la forma giusta, non siamo noi a dover fare questo. In questo, è stata tutta la nostra difficoltà tutto il nostro limite nel riuscire a costruire vertenze.

Il nostro progetto è quindi quello di riuscire a ricostruire nei nostri territori un momento di incontro e di lì la possibilità di aprire vertenze. Riuscire a ri-incontrare nei territori, tutte quelle figure professionali che io ho sentito citare prima negli altri interventi.

Abbiamo ad esempio parlato di costruzione delle camere del lavoro metropolitano. Penso che nei territori sia facile incontrare i pony-express, tanti lavorativi delle cooperative, tutti quelli, in fondo come noi, che il lavoro lo cambiano ogni "tot" mesi.

Non credo quindi, che il nostro lavoro possa considerarsi finito a giugno, quando chiudiamo il nostro Sportello. Semplicemente stiamo pensando ad uno strumento che il partito si da’ per incontrare bisogni diversi, che il partito si dà per rispondere in modo diverso.


" L’inchiesta "

Riccardo FARANDA

(Responsabile Inchiesta sul lavoro della Federazione di Roma del Prc)

Dagli interventi dei compagni e dall’introduzione, credo che il lavoro di inchiesta che io sto’ curando insieme ad altri compagni per la Federazione romana - all’interno del progetto generale di inchiesta che è stato ormai da un anno lanciato a livello nazionale - si integra perfettamente con l’iniziativa di questo convegno e, in qualche modo può dare alcune risposte nella proiezione di questo tipo di lavoro di pratica politica ad alcune delle domande che sono state poste qui stasera dai compagni in maniera sostanziosa e con forza.

Prima di queste domande, come interrogarci collettivamente e come affrontare collettivamente nella pratica quotidiana l’idea della crisi della forma partito e la riqualificazione di una diversa soggettività, di una diversa presenza dei comunisti all’interno della società, come costruire un progetto di ricollocazione dei comunisti all’interno della società.

Questo è l’interrogativo che attraversa trasversalmente tutto il partito. Si è accennato anche al problema della scissione, su cui non tornerò per motivi di brevità, però oggi al di la del problema della scissione che ha messo allo scoperto alcuni nervi di questo partito, il problema è che forse mai prima di oggi proprio dentro questo partito una tematica così importante sia stata affrontata. Si è vissuto di rimandi finché, ad un certo punto, la situazione ci è esplosa tra le mani. Allora, se abbiamo questa consapevolezza, da qui in poi cominciamo ad avviare un percorso differente e credo che questo convegno sia un ottimo punto, non di partenza (perché riassume in se’ l’esperienza, i percorsi che i diversi circoli, i diversi compagni hanno fatto) per avviare, anche nella federazione, un dibattito anche all’interno di un percorso congressuale che noi ci stiamo dando.

Non vengo dal PCI, ma dall’esperienza della cosiddetta nuova sinistra e la tematica della crisi della forma partito ce l’ho dentro la pelle da 20 anni. Ci sono cresciuto insieme, perché già venti anni fa quando il grande Moloch del PCI sembrava che non fosse minimamente scalfito da questo, e nel momento in cui la società veniva invece investita da grossi movimenti di massa, quello del ’68 e poi quello del ’77, all’interno della nuova sinistra, che in qualche modo era molto più permeabile rispetto a questi movimenti, la tematica della crisi della forma partito era stata - anche grazie al contributo determinante delle compagne e del movimento femminista - dirompente.

Oggi interrogarci di nuovo collettivamente su come ricostruire un concetto di militanza, una presenza dei comunisti all’interno della società, è uno degli assi portanti del nostro ragionamento anche, ripeto, in vista del congresso.

Detto questo andiamo all’inchiesta: quando il nostro gruppo dirigente nazionale ha lanciato l’idea dell’inchiesta, un anno fa, lo ha fatto per dare ai compagni dei circoli la massima libertà sulla ricerca degli ambiti dei soggetti e degli strumenti dell’inchiesta, ma lo ha fatto anche dando ai compagni due raccomandazioni fondamentali : la prima è che l’inchiesta non fosse vissuta in termini sociologici, cioè come lettura della realtà in termini di semplice conoscenza, anche se la conoscenza della realtà e della società, per i comunisti è fondamentale, ma lo è per chiunque voglia muoversi come animale politico. L’altro pericolo, e quindi la seconda raccomandazione, di cercare di evitare, attraverso l’inchiesta, semplicemente la verifica sul campo, nella realtà, di una linea politica già preconfezionata a priori.

Entrambe queste possibilità avrebbero snaturato completamente di senso e significato politico l’inchiesta che invece il partito proponeva ai compagni.

In questo anno i compagni in tutte le parti di Italia hanno lavorato bene. A Roma abbiamo in qualche modo sviluppato l’inchiesta sul lavoro in alcuni settori, in maniera prevalente più sui settori di impiego stabile. C’è mancata invece quell’inchiesta che, ad esempio a Napoli e in Sicilia ed in altri posti, i compagni hanno sviluppato, relativa al lavoro ed al non lavoro, ai lavori diffusi, al lavoro autonomo di seconda generazione, tutte tematiche che all’interno di questo stesso convegno sono affiorate e l’hanno vissuto da protagoniste.

E’ quindi su questi settori che noi stiamo lavorando per rilanciare a Roma l’inchiesta.

Le compagne del Forum hanno lavorato bene sul settore del lavoro precario femminile. Questa esperienza andrebbe generalizzata e fatta propria dai compagni, in particolare degli sportelli - Claudia prima accennava al lavoro di inchiesta che è stato fatto attraverso gli sportelli informa lavoro - estesa ai compagni giovani comunisti ed ai compagni dei circoli territoriali .

Questa è un’altra cosa importante che ritengo debba essere rimarcata, il ruolo dei circoli territoriali all’interno di una tematica che sembrerebbe esterna al loro lavoro, e che purtroppo fino ad oggi lo è stata : quella dell’inchiesta sul mondo del lavoro. Oggi il ruolo dei circoli territoriali va ricercato, va riqualificato e nuovamente identificato. Dall’introduzione e dagli interventi fatti da diversi compagni, credo che proprio su questa strada stia marciando l’iniziativa che da questo convegno può partire.

Perché l’altro pericolo per il partito è di concepire l’inchiesta, semplicemente come una campagna.

Forse è un limite che questo partito si è portato dietro dalla sua nascita, quello di lavorare per campagne e non per progetti. Oggi il salto di qualità dovrebbe essere quello di lavorare su progetti. Non perché non ce ne siano stati, ma perché troppo spesso abbiamo vissuto l’iniziativa politica come "campagna", cioè come iniziative che nascevano e morivano, mentre l’inchiesta non può essere pensata come un’iniziativa limitata nel tempo che nasce e muore, che dà dei risultati che si analizzano poi.

Il successo dell’inchiesta, rispetto al primo interrogativo che avevo posto questa sera, e cioè a come ridefinire il ruolo dei comunisti, la militanza dei comunisti all’interno di questa società, in questa determinata fase politica : ecco, l’inchiesta ha un significato politico e porta una trasformazione effettiva se viene vista non come un’iniziativa a fianco ad "altre" iniziative, ma se diventa pratica quotidiana permanente, uno stile di lavoro permanente dei compagni, senza dover richiamare frasi celebri di chi ci ha preceduto che affermava che chi non fa l’inchiesta non ha diritto di parola nel partito.

Trasformare l’inchiesta da un’iniziativa ad una pratica politica dei compagni può significare cominciare a trasformare l’atteggiamento dei compagni nei confronti della politica ed in qualche modo qualificare anche l’idea di militanza all’interno di questo partito.

Credo che legare questi due momenti, della sperimentazione sul campo e dell’inchiesta, non sia solo un percorso naturale, ma sia quello che più di ogni altro ci può tornare utile nel progetto anche di trasformazione del nostro partito e di cui tutti abbiamo un grosso bisogno.


Paolo FERRERO

(Segreteria azionale PRC)

Vorrei provare ad interloquire con il vostro dibattito attorno al nodo della forma partito, mettendo - se possibile - altra carne al fuoco. E’ evidente che la forma organizzativa è strettamente connessa al progetto politico e non si può definire una forma organizzativa separata da cosa vuole fare quella organizzazione.

Per affrontare seriamente questo problema, ed è questo il primo elemento che vorrei introdurre, noi dobbiamo compiere una seria analisi delle modifiche del capitalismo, da intrecciare con l’analisi delle sconfitte che il movimento comunista ha avuto in questo secolo.

Come diceva nell’introduzione Massimiliano Smeriglio, noi abbiamo un problema di forma partito, che è stata pensata in connessione con un ciclo di accumulazione capitalistico ed una modalità di organizzazione della produzione e della riproduzione sociale. Dobbiamo però anche tener presente che quella forma partito era funzionale ad una impostazione politica, ad una idea di comunismo e di trasformazione sociale specifica e datata. A mio parere bisogna muoversi tenendo presenti questi due elementi : le modifiche della società, della struttura dell’accumulazione capitalistica e l’analisi del perché - come comunisti - abbiamo perso, in questo secolo, la battaglia sul superamento del capitalismo. Si tratta quindi di ragionare su quali nodi vi sono dietro alle proposte e alle analisi che avete qui avanzato.

Voi siete giustamente partiti delle sperimentazioni, su cui volete adesso ragionare ed approfondire anche per provare a sistematizzare alcuni elementi. Mi pare il metodo giusto, perché la sperimentazione oggi non rappresenta per noi un optional, un lusso un po' naif, ma rappresenta invece uno dei punti centrali del possibile sviluppo dell'iniziativa del partito. Non si può continuare tutto come prima; la sperimentazione, la riflessione sui risultati della medesima, la correzione processuale del nostro modo d'essere collettivo sono a mio parere uno dei punti fondamentali con cui dobbiamo misurarci. In questo mio intervento affronterò quindi alcuni punti su cui - a mio parere - è necessario operare un'innovazione.

 

Costruire il soggetto della trasformazione

Primo punto : noi ci troviamo di fronte una situazione in cui la classe è pesantemente frantumata.

Questa è un patrimonio comune, addirittura, l’asse centrale del documento congressuale ruota attorno alla coppia frantumazione sociale/integrazione politica, cooptazione delle rappresentanze: lo stato oggi attraverso la concertazione punta a riprodursi in forma allargata cooptando le rappresentanze e distruggendo i soggetti; per quella via governa un processo di accumulazione capitalistico basato su bassi salari e precarizzazione del lavoro. E’ questa una strada di "gestione autoritaria della frantumazione del conflitto sociale", molto diversa dal modello redistribuitivo socialdemocratico, che insieme alle rappresentanze prova anche ad inglobare i soggetti sociali. Oggi si inglobano le rappresentanze e si distruggono i soggetti sociali.

Quindi, il nodo della frantumazione è assolutamente centrale, per certi versi è il principale portato della ristrutturazione capitalistica: il capitale in questi anni, non ha solo sconfitto la classe ma, per sconfiggerla, l’ha frantumata, disarticolata, destrutturata. Tanto è vero che nella classe non si ha solo il senso della sconfitta, ma in larghi strati si ha oramai la perdita del senso di appartenenza ad una classe.

Siamo in una situazione molto diversa dagli anni ’50 in cui la consapevolezza della sconfitta coesisteva con la speranza e la voglia di ripartire. Oggi, secondo me, per strati significativi del proletariato siamo all’annichilimento della coscienza di essere parte di una classe, perché addirittura è scomparso il nemico; il capitale ha vinto così tanto che è "scomparso" come nemico, come "parte" e si presenta - e viene percepito - come naturale ed oggettivo. Quando Rifondazione Comunista rompe con il governo, non ci accusano di essere portatori di una tesi politica sbagliata, ma ci dicono di essere matti.

Se Marx ha scritto il Capitale per dimostrare scientificamente che il sistema capitalistico è un prodotto storico e non un dato naturale, oggettivo, oggi per certi versi ci troviamo in una situazione premarxista, di piena egemonia capitalistica.

Se la questione della frantumazione sociale è centrale, a me pare evidente che oltre un’innovazione di linea politica, che in parte cerchiamo di fare, questa richiede anche un’innovazione di pratiche organizzative e addirittura ci chiede di cambiare il terreno stesso dell'iniziativa politica; ci pone il problema di quale sia il compito di un partito comunista, di allargare lo spettro dell'iniziativa politica.

Voglio dire che, a mio parere, le organizzazioni storiche del movimento operaio si sono mosse soprattutto sul terreno della rappresentanza. In sostanza il partito rappresentava la classe nelle istituzioni e nella politica delle alleanze (vero oggetto della Politica con la P maiuscola) mentre il sindacato la rappresentava dal punto di vista dei suoi interessi materiali.

L’idea era che in qualche modo esistesse una soggettività antagonista già definita, per cui il problema dei comunisti era quello di rappresentare, meglio degli altri, più coerentemente degli altri, gli interessi della classe, direttamente nello scontro sindacale o sul terreno della politica. Da questo punto di vista è emblematico che negli anni scorsi il confronto tra Nuova sinistra e PCI verteva proprio su questo nodo. Su chi rappresentava in modo più coerente e/o efficace gli interessi della classe.

 

La politica non è solo rappresentanza

L’idea era quella che ci fosse un soggetto sociale, che aveva una sua identità definita e che il problema era unicamente quello di rappresentarlo al meglio. Io credo che oggi non siamo più in questa situazione. Oltre al nodo della rappresentanza, noi abbiamo il problema della costruzione del soggetto vero e proprio. Non c’è solo il problema di rappresentare i lavoratori meglio degli altri; c’è il problema che quel soggetto lì, il lavoro, è oggi in larga parte disarticolato; il lavoro non è oggi portatore di un progetto autonomo. Per questo il problema del partito non è solo quello della rappresentanza ma è quello della costruzione del soggetto.

Io credo che questo sia un elemento assolutamente fondamentale e non deve determinare una tensione, una lacerazione tra presenza nelle istituzioni e movimento, tra partito e movimento, tra lavoro sociale e lavoro istituzionale. Semplicemente dobbiamo prendere atto - fino in fondo - che il lavoro istituzionale è solo un pezzo del lavoro politico e che, in assenza di un altro pezzo (che è quello dedicato alla costruzione del soggetto antagonista, alla ricostruzione di una soggettività antagonista), il progetto è monco; il partito si riduce ad essere il potenziale rappresentante di una soggettività che non esiste più. Il partito si riduce a testimonianza istituzionale.

Questa acquisizione ci pone un problema di innovazione delle forme del far politica. Il modo di far politica che abbiamo complessivamente ereditato, è in larga parte funzionale ad un partito di rappresentanza. Non a caso il nostro partito si mobilita moltissimo nelle campagne elettorali, molto meno nei mesi che intercorrono fra una campagna elettorale e l’altra.

Invece oggi, un partito comunista si deve muovere tutto l’anno con una stessa densità di intervento, senza mettere il dato istituzionale in punta ad una mai dichiarata ma efficacissima scala gerarchica.

Connesso a questo, credo che ci sia un altro elemento da sottolineare.

La costruzione del soggetto della trasformazione, ci dice anche che nessun soggetto sociale è - in quanto tale - portatore complessivo del progetto di trasformazione sociale. Cioè, probabilmente nessun soggetto sociale in quanto tale, nemmeno la classe operaia, è un soggetto "intramodale", capace cioè di determinare compiutamente il passaggio da un modo di produzione ad un altro, dal capitalismo al comunismo. Vi è certamente una centralità della contraddizione capitale-lavoro nella determinazione dei rapporti sociali, perché questa contraddizione determina le forme specifiche in cui si presentano tutte le contraddizioni, quella di sesso, ambientale, ecc. ma il problema è quello di ricostruire una soggettività antagonista che deve, per forza di cose, vedere l’incontro e l’intreccio di una soggettività con l’altra. Non è possibile costruire un conflitto di classe efficace, se questo non fa i conti, ad esempio con i limiti ambientali allo sviluppo, oppure, rispetto ai servizi, se questo non fa i conti con il soddisfacimento dei bisogni sociali.

Noi abbiamo il problema di costruire una soggettività antagonista, che non è prodotta automaticamente dallo sviluppo capitalistico, come molto spesso si è pensato, ma che - come Lenin aveva giustamente sottolineato - è un problema di capacità di costruzione attorno ad un progetto. Lenin riduceva la giuda di questo processo un po’ troppo al partito mentre il problema è sicuramente più complesso e policentrico, però l’idea in fondo è quella. E’ necessario oggi un "leninismo sociale", un progetto che lavori consapevolmente alla ricomposizione sociale per fare un vero passo in avanti.

Non è vero che il capitale, nel suo sviluppo, di per se’, produce il suo becchino. Il capitale produce le condizioni affinché esistano i suoi becchini, ma l’aggregazione di questi per determinare un superamento del capitalismo è un fatto che richiede uno sforzo soggettivo, politico, di una volontà consapevole di trasformazione. Questo non può essere fatto, come invece sovente abbiamo fatto a sinistra, ricomponendo la frantumazione sociale solo nel momento elettorale. Quando si fanno le liste, ci si mettono : tanti operai, tanti disoccupati, tanti commercianti, tanti artigiani, tante donne, tanti pensionati, per ricomporre, nel voto, (in cui ognuno ti votava per un motivo diverso), quello che era frantumato nella società. Questo non è più sufficiente. Questo è il primo nodo che voglio sottolineare: non solo rappresentanza, ma costruzione del soggetto. Costruzione del soggetto, come operazione complessa che richiede la capacità di mettere in dialogo, di fare attraversare tutte le soggettività che si esprimono dal nodo della contraddizione di classe per costruire un’ipotesi di trasformazione, che vede il ruolo del progetto come dato fondamentale.

 

Articolare l’iniziativa del partito

Il secondo punto che voglio affrontare è quello del coordinamento dell’articolazione dell’iniziativa sociale e politica del partito. Nei due anni in cui siamo stati in maggioranza, in larga parte, come partito, a livello decentrato, abbiamo fatto da amplificatore delle battaglie che si facevano centralmente. Centralmente facevamo la battaglia sulla finanziaria, per non far tagliare sanità e pensioni, e in tutto il paese si andava a dire in giro: "chi sono i comunisti? sono quelli che impediscono il taglio di sanità e pensioni." Su questo abbiamo costruito una nostra visibilità sociale, abbiamo fatto politica. Il rapporto tra il lavoro sul territorio, inteso come direttamente connesso al territorio e il lavoro di propaganda delle iniziativa fatte sul versante parlamentare, era 1 a 10. Oggi, evidentemente, questo non è più possibile. Non è più possibile perché non siamo più in quella maggioranza e non abbiamo più quel relativo potere di veto che avevamo prima. Il nostro parere negativo non blocca più il governo.

Ad esempio noi abbiamo provato a sfondare sulla riduzione d’orario a livello nazionale, per via legislativa. Su questo nodo non siamo passati ed è stato un motivo non secondario nel portare alla crisi di governo. Oggi, con ogni evidenza, non possiamo limitarci a riproporre centralmente la riduzione d’orario. Dobbiamo essere in grado di affiancare a questa campagna di lungo respiro una fortissima articolazione: in una fabbrica bloccare gli straordinari, in un altro posto organizzare lo sciopero alla rovescia per mettere a posto il parco e poi occupare il Municipio per farti pagare le giornate di lavoro, e avanti così. Nell’altro posto organizzando una cooperativa sociale.... Una battaglia come quella dell’occupazione, che è assolutamente centrale, dobbiamo articolarla. Lo si doveva fare anche prima, ma oggi è proprio obbligatorio, perché non vi è più la funzione di "supplenza" determinata dall’azione centrale del partito nella maggioranza parlamentare o dalla presenza del segretario in televisione.

Quindi, c’è un problema di articolazione del nostro intervento politico, sul lavoro come sullo stato sociale. Noi abbiamo fatto una battaglia contro lo smantellamento dello stato sociale dal punto di vista centrale, delle leggi nazionali. Le leggi che però sono state approvate passano le competenze agli enti locali, obbligandoli nei fatti a tagliare e privatizzare. Diventa allora necessario costruire un forte livello di conflitto sulla difesa e il rilancio dello stato sociale proprio a partire dal livello locale, territoriale. Ad esempio la finanziaria di quest’anno abolisce il Fondo Sanitario Nazionale, istituendo un finanziamento a livello regionale. Per forza di cose gran parte del conflitto si sposta a quel livello di confronto.

Articolazione, ma assieme coordinamento e direzione politica. Perché, se ad esempio, una battaglia contro la privatizzazione del trasporto pubblico locale, per dire un posto dove si sono fatti degli scioperi in molte città in questi mesi, compresa Roma, la facciamo solo posto per posto, alla fine passano loro. O abbiamo la capacità di coordinare quel conflitto che abbiamo costruito a partire dal livello locale, di coordinarlo dentro un progetto, e per quella via di modificare anche la legge nazionale, oppure non ne usciamo mai vincenti. E quindi c’è un problema di coordinare tutti i lavoratori dei trasporti pubblici locali, che siano di Roma, di Torino e di Milano, e che siano di un sindacato o dell’altro, ma di coordinarli per costruire momenti di lotta unificati che pongano il problema di cambiare la Bassanini e per questa via dare uno sbocco politico alla lotta.

Questo vuol dire che il partito non può funzionare solo dall’alto verso il basso, perché coordinare e dirigere politicamente l’articolazione dell’iniziativa, richiede un rapporto che va dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Richiede sul serio un rapporto biunivoco, se no non si fa l’articolazione.

Richiede un alto livello di democrazia interna, perché la democrazia è una forma di comunicazione; come l’inchiesta, la democrazia è un canale di comunicazione per capire cosa succede. Se nel partito uno può parlare e dire cosa pensa, tu sai cosa pensa; se quello non parla, perché non c’è democrazia, tu non sai cosa pensa e alla fine sbagli. C’è una bella differenza tra dirigere e comandare e la democrazia sostanziale determina questa differenza.

Per articolare l’iniziativa politica la democrazia è obbligatoria. Un sindacato che fa la contrattazione articolata, è un sindacato democratico di suo, perché se no, non sa come fare la piattaforma, non ha i militanti che si spendono sul posto di lavoro. Lo stesso vale per il partito.

Questo chiede un salto di qualità anche nelle modalità attraverso cui si selezionano i quadri dirigenti. Nel passato abbiamo avuto troppi quadri dirigenti selezionati in base a logiche di fedeltà personali, a volte al di là delle capacità politiche reali.. Se vogliamo fare un partito che fa quello che abbiamo detto, c’è un problema di selezione dei gruppi dirigenti, in base alle capacità di costruire il movimento, la mobilitazione, il raccordo di massa. Con chi è capace a prendere ordini e a ridarli di sotto, non si fa il coordinamento dell’articolazione dell’iniziativa politica. Si fa una caserma non un partito comunista di massa.

Io credo che da questo punto di vista, dopo la scissione possiamo fare un passo in avanti. Non è un fatto automatico ma certo un blocco alla democratizzazione del partito se ne andato. Questo processo non avviene automaticamente, però è oggi possibile costruire un partito democratico e capace di coordinare un’attività vertenziale diffusa, sul livello cittadino, sul livello di federazione. Il partito deve essere capace, non solo a evocare la costruzione del movimento ma a cogliere dove si costruisce il movimento concretamente, situazione per situazione.

Quindi, coordinare l’articolazione dell’intervento e su questo obiettivo, modificare il funzionamento del partito.

 

Masse e politica

Il Terzo nodo che voglio sollevare l’ho chiamato - con un linguaggio un po’ togliattiano - il rapporto "masse e politica".

Voglio dire che noi siamo stati abituati a vivere in un mondo in cui era abbastanza normale che i lavoratori si organizzassero nel sindacato per fare le lotte, così com’era abbastanza normale che un operaio, un lavoratore, tendenzialmente votava a sinistra. In primo luogo andava a votare e poi, tendenzialmente votava a sinistra. Veniamo cioè da una fase sociale e politica in cui c’era un rapporto tra la condizione materiale proletaria e le lotte sociali, la politica.

In qualche modo viveva concretamente l’idea che i problemi non si risolvono individualmente, ma collettivamente, con la lotta, e dall’altra che c’era un rapporto tra la propria condizione materiale e l’appartenenza politica, sia pure nella forma del voto. Non al cento per cento, ma tendenzialmente era così.

Io credo, che oggi noi siamo dentro ad una situazione in cui in entrambi questi elementi sono saltati; non completamente, ma in larga parte. A me pare che il senso comune che pervade larga parte della classe, anche nella sua parte più destrutturata (cioè in quei milioni di precari che fan parte della classe e non sanno magari nemmeno come diavolo fare ad organizzarsi), è quello del si salvi chi può. La logica che la lotta non paga, anzi, che se lotti, rischi di essere messo nella lista di quelli che finiscono fuori, licenziati.

Uno degli elementi forti dell’esistenza stessa della sinistra, rischia di venire meno. Noi abbiamo costruito la nostra identità sul fatto che la lotta paga. Se ci si mette insieme agli altri, si vince di più che non a star da soli. Oggi l’idea che passa è un’altra. Se la guardate sul versante del disoccupato che cerca lavoro, questa da un lato è la passivizzazione totale (che veniva prima descritta) e dall’altra è l’accettazione di quello che passa il convento - la precarizzazione, salari da fame - in una logica in cui la disoccupazione è e rimane un dramma individuale. Quante lotte collettive siamo riusciti a costruire con i disoccupati? Pochissime. Si è avuta un po’ di mobilitazione a Napoli, e poco più.

Questo sul versante del rapporto tra disagio individuale e lotta collettiva. Per quanto riguarda il rapporto tra condizione sociale e politica scopriamo che la Lega Nord è il secondo partito operaio come voti nel Nord Italia, Alleanza Nazionale certo prende un bel po’ di voti popolari nelle periferie e il Fronte Nazionale, in Francia, è il primo partito operaio, dal punto di vista dei voti. Si hanno ormai significativi esempi di come sia saltato il rapporto fra appartenenza di classe e appartenenza politica a sinistra. Ne’ la politica a sinistra e sovente nemmeno la politica in quanto tale. Il fenomeno del non voto è mica una roba da ridere nelle fila del proletariato!

Ci troviamo qui di fronte alla chiusura di un ciclo, che era determinato concretamente dalla capacità dei comunisti, nel secondo dopoguerra, di costruire attraverso la CGIL un conflitto di classe efficace, e attraverso il Partito Comunista, un riferimento significativo per le masse dentro la politica. E’ l’invenzione di Togliatti. Bisogna rendere merito a quello che è. Noi abbiamo vissuto in un contesto in cui questi due pilastri, del sindacato e del partito, criticabili finche volete, facevano parte del contesto in cui ci si muoveva.

A me pare che stiano venendo meno questi presupposti. Cioè si stanno costituendo, sul serio, le condizioni materiali e strutturali della seconda Repubblica, intesa come gestione autoritaria della frantumazione del conflitto sociale; situazione in cui la maggioranza dei cittadini è passivizzata, in cui il conflitto avviene sempre più spesso, come guerra tra i poveri e non come conflitto di classe, e in cui la politica è "altro"; pura amministrazione del potere separata dai bisogni del sociale, tant’è vero che non si va più a votare.

In questo contesto c’è chi dice che il problema è organizzare l’autonomia del sociale. Io credo che questa ipotesi - un po’ anarchica - colga un elemento di crisi reale ma fornisca una risposta sbagliata. Come comunisti dobbiamo lavorare alla ricostruzione dell’autonomia e dell’unità di un nuovo blocco sociale antagonista dentro una dinamica che punta a ricostruire anche il rapporto tra le masse e la politica. Autonomia del sociale quindi ma per incidere sulla politica, non per separarsi da essa. Dobbiamo tentare questa operazione complessa nella consapevolezza che una modalità specifica di questo rapporto tra masse e politica è finito e che è necessario reinventare le forme , i modi , i percorsi e i contenuti su cui ricostruirlo. Dobbiamo ricostruire questo rapporto perché altrimenti noi rischiamo di fare, dentro le istituzioni, l’estrema sinistra di un sistema politico che non rappresenta più i soggetti sociali a cui noi facciamo riferimento; in cui i cui processi istituzionali sono completamente separati - e per certi versi contrapposti - rispetto al problema della ricostruzione di un blocco sociale alternativo. Negli anni ’60 e ’70, le forme in cui la sinistra faceva politica erano connesse alla costruzione del blocco sociale. C’erano elementi di frizione, anche forte, ma c’era una connessione; qui si rischia la separazione totale, la schizofrenia.

I nostri compagni che se ne sono andati, i "comunisti all’italiana" in questa dicotomia, hanno scelto. Loro hanno detto: sul piano sociale non si può più fare nulla, scegliamo le relazioni politiche. Altri propongono il versante opposto : sulla politica non c’è più niente da fare, scegliamo il sociale.

Come partito comunista dobbiamo lavorare per tenere assieme questi due elementi. Per operare questa saldatura è necessaria una linea politica adeguata e la rottura che abbiamo operato col governo Prodi, costituisce un passaggio preziosissimo, un passo della rifondazione comunista. Senza quella rottura, la possibilità di riaprire un rapporto di fiducia, una connessione, tra noi e gli strati sociali a cui facciamo riferimento, era semplicemente impossibile. Dall’altro c’è il problema della ricostruzione di un conflitto sociale efficace, perché senza quello non si riesce a ricostruire un rapporto tra la società e la politica.

La costruzione di un conflitto efficace è il punto politico fondamentale su cui lavorare nella costruzione dell’iniziativa politica. Altrimenti rischiamo - specularmente rispetto ai comunisti all’italiana - di fare un’azione di pura testimonianza, di essere quelli che dicono le cose giuste, ma che non riescono a realizzarne nemmeno una, che sono completamente inefficaci.

Allora, se la ricostruzione di un legame tra la condizione sociale e la politica passa oggi attraverso la ricostruzione di un conflitto sociale efficace, anche su obiettivi limitati, il nodo non è l’altezza dell’obiettivo, non è il più uno, ma è quanto riesci a muoverti nella direzione giusta. Da questo punto di vista, la costruzione di una vertenza che ottenga alcuni risultati, anche limitati, è molto meglio di qualunque piattaforma iper-rivoluzionaria che però non mette in moto un movimento reale. Questo perché, a mio parere, è necessario ricostruire nella pratica e nella coscienza delle masse, l’idea che la lotta paga, che uniti si vince. Sono diciotto anni, dal 1980 alla FIAT, che le perdiamo tutte, che le abbiamo perse tutte sul piano del conflitto sociale; questo ha sedimentato un coscienza dell’ineluttabilità della sconfitta e dell’arretramento. La sconfitta subita alla FIAT nell’80 si è ripetuta su scala allargata nel 1984, quando il governo Craxi, nonostante la contrarietà di CGIL e Partito Comunista, ha proseguito sulla strada del taglio dei punti di contingenza. E da lì in avanti le abbiamo perse tutte le lotte sul piano sociale: le ristrutturazioni industriali, le casse integrazioni, ecc. Noi abbiamo oggi il problema fondamentale di invertire questa tendenza, nella realtà e nella coscienza di massa. Ad esempio relativamente alla questione dei trasporti è necessario portare a casa dei risultati, che diano il segno che "lottare è giusto, cambiare è possibile".

La ricostruzione di un conflitto efficace sul piano sociale è quindi la chiave di volta attraverso cui si ricostruisce un rapporto tra masse e politica e si difende la democrazia.

 

Tattica e strategia

Un quarto elemento di innovazione riguarda il rapporto tra la tattica e la strategia, cioè tra cosa fai oggi e il tuo obiettivo finale. Io penso che nel movimento comunista questo rapporto è stato sovente di tipo strumentale: in nome di nobili obiettivi strategici la tattica è troppo spesso diventata il luogo della furbizia e del politicismo. Così la costruzione del socialismo come regno della libertà e dell’eguaglianza ha "coperto" inaccettabili pratiche antidemocratiche. Questa "scissione" tra tattica e strategia sembra un po’ alla teologia cattolica che dice : "stai buono oggi mentre soffri perché poi andrai in paradiso"; per i comunisti sovente nella tattica si sono fatte le peggio porcherie, il tutto in nome del comunismo, dove saremo poi tutti uguali.

Io credo che c’è un problema di rimettere in fila la tattica con la strategia, in modo netto. Che la crisi della politica e della militanza abbiano un parallelismo con l’emergere del volontariato e dell’associazionismo, è anche perché la gente si è stancata di questa schizofrenia. Per questo, nella difficoltà ad individuare i grandi obiettivi, preferisce spendere il proprio tempo e la propria militanza, che oggi viene chiamata volontariato, per un fine controllabile, verificabile immediatamente e non tra cinquecento anni. L’immediatismo che emerge nei comportamenti (di cui si potrebbe dire che il volontariato sociale e il carrierismo sono le due facce della stessa medaglia) ci parla della necessità di ricostruire un serio rapporto tra tattica e strategia come condizione per riprendere le fila di un discorso sulla rifondazione comunista. Bisogna "accorciare" il rapporto tra tattica e strategia, e la tattica deve essere orientata in modo coerente. Vi è un problema politico, non solo morale, di coerenza.

 

Tra rivendicazione e pratica dell’obiettivo.

Un quinto punto di riflessione riguarda il rapporto tra la lotta contro il capitale e l’azione di costruzione di nuovi rapporti sociali nella nostra azione politica. Il rapporto tra la lotta CONTRO e l’azione PER.

Sovente i comunisti hanno ritenuto il loro compito principale quello di lavorare per rendere più evidenti e far esplodere le contraddizioni del capitale. Da questo punto di vista, lo sviluppo delle forze produttive è comunque positivo perché entra in contraddizione con i rapporti di produzione. Tanto per fare un po’ di ironia vorrei far notare che è in base a questo ragionamento che quelli di Lotta Comunista pensano che il nucleare sia comunque buono perché è uno sviluppo delle forze produttive e determina contraddizioni più grandi; il che è assolutamente vero perché se ti esplode la centrale è un bel casino.

Io credo che dobbiamo cominciare a mettere in discussione questa impostazione per affermare che, il problema dei comunisti oggi, è da un lato di sviluppare al massimo le contraddizioni che si determinano nello sviluppo capitalistico, ma nello stesso tempo lavorare a delimitare, a contenere lo sviluppo del mercato capitalistico. Questo è vero sul terreno ambientale dove deve essere combattuta la mercificazione della natura ma vale anche sul terreno delle relazioni sociali, ove è necessario produrre luoghi, spazi, elementi che siano tendenzialmente sottratti alla mercificazione capitalistica.

Dobbiamo cioè costruire un’ipotesi politica che tenga insieme due corni della contraddizione: da un lato la lotta dentro il meccanismo di valorizzazione del capitale per diminuire la quota di plusvalore (salario, orario , diminuzione dello sfruttamento), dall’altro la lotta per costruire - dinamicamente - esperienze e spazi tendenzialmente sottratti alla logica del mercato. La difesa dell’ambiente, contro la logica della mercificazione della distruzione dell’ambiente, è un esempio emblematico di questa impostazione. La lotta contro l’estensione del mercato deve però estendersi oltre l’ambito ambientale, ad esempio ai nodi della riproduzione sociale. La difesa del Welfare, ma anche la lotta contro la privatizzazione e per costruire una sfera pubblica della riproduzione sociale più larga della sola sfera statale, vanno in questa direzione.

Sui servizi sociali dobbiamo costruire vertenze per conquistare i servizi e intrecciarle con la capacità di dare risposte autogestite e conflittuali ai bisogni sociali. Dobbiamo riprendere l’esperienza del movimento delle donne che, negli anni ‘70, i consultori, da un lato li rivendicava e dall’altra li ha costruiti concretamente in forma autogestita. Intrecciare quindi rivendicazioni e pratica dell’obiettivo.

Così come i compagni del Chiapas, fanno una dura lotta al Nafta per evitare che le modalità di vita delle comunità indie vengano spazzate via dalla globalizzazione capitalistica. La lotta degli zapatisti, se uno la guarda da un punto di vista dello sviluppo dei mezzi di produzione, dello sviluppo capitalistico, è una lotta reazionaria, perché è una lotta per la difesa della comunità india "precapitalistica" contro lo sviluppo della mercificazione capitalistica. Io credo, invece, che dentro i meccanismi della globalizzazione, quella lotta per la difesa di uno spazio non mercantile precapitalistico, proprio perché si oppone ai meccanismi di mercificazione capitalistica, diventa un pezzo della la lotta per il comunismo, che sta’ assieme alla lotta che viene fatta alla FIAT, come all’IBM o all’UPS. Quella lotta è’ l’altra faccia della medaglia della lotta al neo-liberismo ed alla globalizzazione capitalistica. Noi li dobbiamo tenere insieme. Dobbiamo riuscire a tenere assieme il compagno della Telecom con l’indio zapatista così come dobbiamo riuscire a tenere assieme, concretamente in Italia, la lotta per evitare la distruzione dello stato sociale e quella per costruire uno spazio pubblico, collettivo, non privatizzato della riproduzione sociale, assieme al conflitto per la riduzione dell’orario di lavoro, per il salario, ecc.. Noi dobbiamo riuscire a fare questa operazione, che tiene assieme il conflitto dentro e contro il meccanismo della valorizzazione capitalistica con il conflitto fuori e contro.

Molto spesso la sinistra, si è spaccata su questo. Da un lato vi era chi considerava importante solo la lotta "sindacale" in una totale indifferenza rispetto alla produzione concreta (bombe piuttosto che inquinanti). Dall’altra abbiamo avuto uno sviluppo del movimento ambientalista che troppo spesso si è dimostrato del tutto indifferente rispetto al problema dello sfruttamento. Noi invece dobbiamo far dialogare e costruire un intreccio di lotte tra i le diverse soggettività che si oppongono nell’attuale fase di sviluppo capitalistico. Questa prospettiva rimanda al problema della ricomposizione della classe e al problema delle forme organizzative del partito che ti permettono di agire questo percorso. Dove e a quale condizione è possibile far dialogare i diversi soggetti. In fondo questo rimanda al tema di fondo del convegno. La costruzione di nuove Case del Popolo, di istituzioni di di movimento dove possano incentrarsi e dialogare le diverse soggettività sociali è - anche da questo punto di vista - un obiettivo centrale.

 

Fare società, costruire vertenze

Il sesto punto che voglio toccare è questa storia del terzo settore. Sono molto contento che una serie di elaborazioni che abbiamo costruito come Dipartimento stato sociale del partito siano diventati patrimonio comune.

Su questo pertanto non torno. Credo però che dobbiamo saper distinguere con assoluta chiarezza, quello che è il volontariato da quello che è il lavoro. Una cosa è la costruzione di posti di lavoro che permettono alla gente di vivere (larga parte della cooperazione sociale), in cui abbiamo il problema di battere le tendenze alla precarizzazione e ai bassi salari; altra cosa sono le attività volontarie, che si fanno nel tempo libero, che coincidono parzialmente con cosa una volta chiamavamo militanza. Dobbiamo aver ben presente questa distinzione per evitare che in nome del volontariato si ripropongano forme di lavoro servili. Nel cosiddetto terzo settore abbiamo quindi da un lato il problema della tutela e della liberazione del lavoro, dall’altra il problema della valorizzazione e dell’estensione dell’uso del tempo libero per costruire legami sociali, autorganizzazione sociale, per "fare società".

Detto questo, io credo che noi dobbiamo battere l’idea che il terzo settore, occupi oggi il posto centrale che venti anni fa occupava la classe operaia. L’idea, cioè, che vent’anni fa stavi a Mirafiori a costruire le lotte, e adesso Mirafiori non dice più niente, quindi stai ad organizzare il terzo settore, la tessitura sociale.

Dobbiamo batterci contro questa idea di "sostituzione del soggetto della trasformazione", e proporre un’idea di tessitura sociale, che coinvolga sia il terreno della produzione che quello della riproduzione. Quando c’erano i delegati in fabbrica, i delegati avevano una funzione non così radicalmente diversa da cosa possiamo pensare oggi per un organizzatore di comunità, un operatore di strada. Erano, concretamente, quelli che organizzavano il conflitto di quella comunità (che era una linea di montaggio o qualsiasi altro reparto od ufficio), erano i referenti di quei lavoratori, ne mediavano le modalità di aggregazione, ne fluidificavano le contraddizioni; un delegato sindacale che sapeva fare il suo mestiere faceva anche un po’ da assistente sociale. Il delegato sindacale bravo era quello che se il caposquadra faceva la festa, non ci andava nessuno dei suoi operai e se la faceva lui ci venivano tutti. Io li ho conosciuti così. Quel delegato, quell’avanguardia di lotta a mio parere allude a quello che noi pensiamo quando parliamo di terzo settore, inteso come tessitura sociale sul territorio, nel senso della capacità di organizzare a livello di comunità relazioni sociali "dense" e di aggregarle in forma anche conflittuale. Se penso al fare società, che cosa vuol dire ? Vuol dire ricostruire un tessuto sociale forte che sia in grado di opporsi alle politiche liberiste che - dentro la globalizzazione capitalistica - distruggono quel tessuto sociale, producono la guerra tra i poveri, mettono l’uno contro l’altro, ti fanno vedere nel tuo vicino di casa solo il nemico. Lo dicono le statistiche - e sono dati impressionanti - che il 70 per cento degli anziani ha paura di uscire di casa anche di giorno e vede nel vicino il possibile nemico.

Questo dobbiamo fare, con un’ipotesi che prova a costruire queste forme di tessitura sociale e di attenzione di investimento sulla società e sui soggetti in carne ed ossa, dentro e fuori il terreno della produzione, non solo fuori.

E’ necessario ribaltare la logica corrente a sinistra: non è che vent’anni fa il soggetto era l’operaio massa di Mirafiori e oggi è il terzo settore; il problema vero è ricostruire pratiche sociali a tutti i livelli che investano energie e intelligenze nella ricostruzione di una tessitura sociale forte, nella fabbrica come nella società, per ricostruire vertenzialità diffusa, nei luoghi di lavoro come sul territorio.

Da questo punto di vista, il terzo settore che ci interessa, non c’entra niente con il prodotto interno lordo, cioè non produce nemmeno un milligrammo di prodotto interno lordo, perché è un’attività che è al confine tra volontariato e militanza. E’ lavoro non retribuito dotato di senso nel fatto che è usato per fare lo sportello che organizza il disoccupato, la mutua per difenderti dal taglio del Welfare, per organizzarti l’asilo nido auto-gestito, per organizzare il comitato contro la distruzione del parco, contro la discarica, ecc. Questo è quello che noi dobbiamo proporre. Battere questa idea, oggi maggioritaria, che l’importanza del terzo settore è connessa a quanto prodotto interno lordo produce, a quanti lavoratori occupa, a quanto sei riconosciuto dal governo; occorre invece proporre un’ipotesi che intercetti quella voglia di fare, di cambiare, che oggi sovente non viene dentro il partito, ma si esprime in altre forme, per proporgli di lavorare alla costruzione di un blocco sociale alternativo, a costruire un reticolo sociale antagonista, elementi di contro-società avremo detto un tempo.

Questo a me sembra il nodo su cui provare a fare un investimento strategico, su quei milioni di persone che oggi fanno volontariato e stanno nelle associazioni, recuperando, peraltro, cose che si facevano un tempo. Quando i comunisti, a Roma, organizzavano attraverso le sezioni di partito o la UISP "Corri per il verde", e, attraverso l’organizzazione di corse podistiche, la popolazione di riappropriava del territorio, del parco che doveva essere cementificato, in realtà si faceva esattamente questo, si conservavano e si producevano elementi di socialità conflittuale, di vivibilità del quartiere, si costruiva un tessuto sociale antagonista. Venti anni fa questo si costruiva attraverso la militanza politica; oggi è possibile che molte forze disponibili a lavorare su questo terreno non abbiano mai militato ma operino nell’associazionismo e nel volontariato; con questo mondo dobbiamo dialogare per proporre questa prospettiva di trasformazione sociale che parte dal basso.

 

Concludendo

Io credo, e concludo, che su questo noi dobbiamo investire, con forza, sapendo che non abbiamo solo un problema di innovare il modo in cui il partito si comporta, cioè di avere nel partito, nelle sezioni, dei modi di essere più aperti; non abbiamo solo il problema di essere interessanti per il giovane che si avvicina al partito, che viene e troppo spesso dopo quindici giorni scappa via deluso. Insieme all’innovazione teorica e organizzativa del partito dobbiamo fare un salto nella capacità di costruire - come partito - relazioni paritarie con le diverse forme di aggregazione che si pongono sul terreno dell’alternativa. Costruire cioè un partito che non sia autoreferenziale ma che sia motore della aggregazione di un sinistra di alternativa oggi dispersa e - sovente - senza coscienza di se. Costruire un partito che sia motore concreto di una vertenzialità diffusa sul territorio.