I documenti di preparazione del Convegno:

Nuovi modelli produttivi e trasformazioni sociali

L'associazionismo

Territorio e pratiche sociali

INDIETRO

Nuovi modelli produttivi e trasformazioni sociali

La definizione di civiltà del lavoro è quella che meglio definisce la civiltà del ‘900, civiltà in cui lo sviluppo economico industriale ha dovuto necessariamente confrontarsi con un forte protagonismo delle masse, determinanti in un conflitto non distruttivo tra soggetti antagonisti collettivi dotati di forza equivalente.

Nella seconda metà del XX° secolo la possibilità da parte di vasti strati della popolazione di partecipare alla vita sociale e politica del paese è stata fondamentale nella costruzione di un soggetto collettivo, protagonista nella mediazione tra capitale e lavoro. E’ da quella mediazione che trae origine il patto sociale del dopoguerra.

La forma assunta dai partiti operai in questa fase risponde all’esigenza di portare avanti un’azione politica continua, che coinvolga il numero più ampio possibile di lavoratori, che tocchi ogni sfera della loro vita sociale e che concretamente ne raccolga le domande specifiche ed omogenee trasferendole sul piano del programma generale.

Storicamente tutto questo si è esplicitato nella forma del partito organizzativo di massa, a struttura piramidale complessa e capillare, il cui obiettivo doveva essere quello di promuovere un nuovo modo di convivenza civile che vedesse le masse popolari coinvolte nella gestione del potere.

Dal dopoguerra in poi si assiste ad un’integrazione (almeno formale) delle masse popolari nel sistema politico, le classi subalterne - emancipate socialmente e politicamente - conquistano spazi di potere in un progetto di gestione della società e con una modificazione in senso sociale della domanda politica in cui il richiamo agli interessi della classe, da parte del partito, è ancora forte come forte ed importante è il peso e l’influenza che non solo il partito ma le organizzazioni sindacali acquisiscono nel processo di ricostruzione del paese. Lo stato assume un ruolo pubblico intervenendo nei settori più diversi della società, istituzionalizzando principi di programmazione economica e sociale che assumeranno con il passare del tempo il carattere dell’universalità rispetto a tutti i settori sociali e al territorio nazionale nel suo complesso.

La conquista dei diritti sociali, vera conquista di civiltà, come prerequisito dei diritti politici, ha portato la società all’interno degli orizzonti di intervento dello stato, caratterizzandone in senso pubblico la percezione e lo stesso intervento.

Il lavoro viene riconosciuto come diritto fondante ed in quanto tale esso viene inserito nella sfera del pubblico, parimenti se ne riconosce e tutela il ruolo sociale attraverso un insieme di garanzie normative rispetto alle quali lo stato si colloca in posizione di terzietà tra le parti come mediatore di interessi diversi.

Oggi lo stato svolge un ruolo fondamentale nei processi di riorganizzazione capitalistica e da oltre un ventennio assistiamo a profondi mutamenti tanto nella società che nel mondo del lavoro.

L’alleanza tra economia e società e tra crescita economica e società è venuta meno, lo sviluppo economico oggi non si presenta più come un fattore strategico di integrazione sociale ma come processo carico di conseguenze negative per tutti, non soltanto per i lavoratori. Tanto la società del benessere quanto la piena occupazione si dissolvono all’interno della crisi del modello fordista.

Sul piano politico la mancata risposta progettuale alle esigenze dei lavoratori, unitamente all’incapacità di allargare gli orizzonti dei propri schemi interpretativi al nuovo protagonismo sociale che arriva dai movimenti degli anni ’70, traccia un solco profondo tra partito comunista, sindacato e la classe. Entrambe non si propongono più come i referenti naturali degli interessi di classe ma al contrario si identificano nello stato - specularmente - riproducendone gerarchie ed oppressioni.

A partire dalla sconfitta in FIAT, gli anni ’80 vedranno un generalizzato processo di ristrutturazione industriale ed un conseguente arretramento difensivo del movimento dei lavoratori. Il mercato del lavoro cambia, compaiono le prime forme di deregolamentazione.

Nel 1983 il governo Fanfani introduce i contratti di formazione lavoro e la chiamata nominativa. Cambia la fase, iniziano le differenziazioni di salario e di contribuzione per il medesimo lavoro, si creano nuove forme contrattuali. Il senso di solitudine dei lavoratori si acuisce mentre contemporaneamente le forme di lotta messe in pratica in precedenza vengono superate dal cambiamento stesso dei cicli di produzione in cui la retribuzione è sempre più legata alla produttività. Il dato riguardante la disoccupazione diviene nei paesi dell’occidente industrializzato un elemento strutturale, imprescindibile dai processi di espulsione e marginalizzazione della forza lavoro dai meccanismi produttivi.

Sono cambiati i cicli produttivi, ma vero e proprio cambiamento si rileva anche nella concezione dello stato che, "ritirandosi" dalla sfera pubblica, perde il carattere di mediatore sociale e si colloca in posizione parziale rispetto ai processi di riorganizzazione del capitalismo. La critica antistatalista e "sovranazionale" dei poteri economici forti, sintetizzabile nella formula "meno stato più mercato", ha individuato nell’eccessivo, oneroso garantismo sociale dello stato uno dei limiti imposti al libero mercato ed al libero dispiegarsi delle attività imprenditoriali.

All’interno della crisi della società e dello stato del benessere la disgregazione sul piano lavorativo è stata speculare alla disintegrazione del sociale. La crisi della società dei consumi apre le problematica del sociale. Prerogativa della società industriale era quella di aver generato al suo interno aggregati sociali attraverso processi di scomposizione e di ricomposizione che sono venuti meno senza segnali positivi nel senso di una nuova ricomposizione.

Punto fermo per noi è quello che vede derivare dalla disgregazione del mondo del lavoro la rottura di tutti i patti sociali. Lo sviluppo da solo non è stato in grado di generare il soggetto collettivo della trasformazione sociale. La tendenza a considerare la società come prodotto, ha prospettato lo scenario di uno spaventoso dominio dell’economia generalizzata con l’emancipazione totale dei rapporti economici da ogni altro vincolo sociale.

Si pone il problema di qualificare la società del futuro, non c’è mediazione tra mercato ed economia dei bisogni. La socialità va sottratta all’economico, non è una merce ed in quanto tale non è ne’ producibile ne’ scambiabile.

L’ipotesi di futuro a cui Rifondazione lega il proprio progetto di trasformazione, deve individuare come prioritari i rapporti sociali e le relazioni umane, in contrapposizione con la dimensione impersonale delle merci Un’idea di società alternativa all’esistente configura un’ipotesi di spazio materialmente fisico e di alto valore simbolico, in cui produrre cultura antagonista, al fine di realizzare una vivibilità diversa da quella esistente e impostaci come unica. Ciò, agendo su territori in cui i rapporti economici e sociali non siano mercantili ma in cui al contrario spazi sempre più importanti vengano riservati all’autorappresentazione dei bisogni ed all’autorganizzazione dei servizi. Occorre dunque agire con una comune sensibilità, che non nasce nel mondo delle idee, ma che deve vedere il partito coinvolto nel perseguimento di obbiettivi concreti e comprensibili.

Contro un progetto di società che si vorrebbe sempre più mercantile, vanno riaffermati i principi della democrazia partecipata, del controllo dal basso e del protagonismo sociale, in antitesi all’appiattimento della domanda sociale, economica e politica che si vorrebbe fosse espressa solo nella dimensione elettorale della delega.

Sul territorio può crescere e svilupparsi, visibilmente, una critica complessiva dell’esistente che si articoli su pezzi anche parziali di progetto e su percorsi comunque praticabili, legati alle esigenze ed ai bisogni dei soggetti. Spesso le tematiche generali nazionali e la dimensione quotidiana della vita non si incontrano per la difficoltà di trovare strumenti di intervento efficaci e realmente vicini alle individualità.

Rispetto ai mutamenti strutturali in atto nella società, Rifondazione non può continuare ad interrogarsi sulle linee di fondo del proprio agire sociale e politico, affidandosi ad una forma partito che rincorre un’omogeneità di pratiche e soggetti non più esaustivi della complessità del reale e dei suoi mutamenti. Non è ipotizzabile un partito inteso come mediazione tra società e stato, incapace di guardare oltre le proprie consuete, ed in qualche modo rassicuranti, categorie di tipo fordista.

Per superare l’attuale inadeguatezza, è necessario che il partito acquisisca un approccio cognitivo all’insieme dei processi e dei soggetti, considerando che se la composizione di classe è cambiata in conseguenza dei mutamenti strutturali di questo scorcio di secolo, ne diventa vitale una lettura a 360° .

Se Rifondazione non "leggerà" le pluralità, le specificità e le contraddizioni, anche culturali della classe, non sarà in grado di immettere al proprio interno la sostanza della nuova composizione, ne’ tanto meno potrà ricostruire una qualsivoglia egemonia. In parallelo non troverà degli schemi organizzativi attrezzati per intercettare le nuove soggettività, derivanti dall’atomizzazione e dalla disgregazione del mondo del lavoro.

Porsi il problema di quale sia la forma partito più adeguata per incidere concretamente nel e sul tessuto sociale, intercettandone le nuove soggettività, rappresenta la vera sfida per Rifondazione, sfida che ha lo scopo di stabilire un nesso profondo tra partito, progetto e pratica sociale.

Di fronte ai cambiamenti, la pratica di Rifondazione oscilla tra vecchio e nuovo, senza avere la capacità di assumere stabilmente le nuove forme di organizzazione dell’intervento (sportelli del lavoro ; circolo della cooperazione sociale ecc), accanto al mantenimento dei modelli organizzativi e comportamentali consueti.

Sulla base delle reali necessità organizzative, che nascono da una lettura meno statica della composizione di classe, andrebbero invece ricercate nuove forme di organizzazione, che non escludano il modello territoriale, ma che vedano accanto ad esso la presenza di forme organizzative diverse: collettivi, circoli tematici e gruppi di lavoro, che pratichino l’obbiettivo, saldando l’elemento cognitivo a quello organizzativo, in una sintesi che dia senso e significato al lavoro territoriale attraverso la pratica sociale.

La ristrutturazione capitalistica ha provocato artatamente delle false separazioni tra soggetto e soggetto, a parità di bisogno, tra garantiti e non garantiti ed in senso più ampio, tra mondo del lavoro e mondo del non lavoro, rendendo difficile la lettura delle dinamiche che attraversano la società e l’analisi della sua frammentazione sociale ed economica .

Tuttavia non è l’analisi quello di cui difetta Rifondazione (si ricordi il materiale approntato per le varie conferenze programmatiche), quanto piuttosto della capacità di esternalizzare il proprio progetto, adeguando forma e strumenti alla fase ed individuando nei bisogni diffusi nel territorio un fattore aggregante oggettivamente trasversale alla classe.

In una concezione verticale del partito, il circolo di base si è collocato come terminale a cui affidare la gestione sul territorio di tematiche nazionali. La separazione tra momento elaborativo (riservato alle istanze superiori del partito) e momento applicativo (riservato alla base) ha prodotto guasti noti ai più. Esempi tipo sono quelli relativi alla selezione di gruppi dirigenti, spesso inaffidabili e incoerenti, sino all’individuazione di eletti totalmente autonomizzati, nelle piccole quanto nelle grandi sedi istituzionali, sorvolando appena sulle difficoltà e sulle diffidenze ad intervenire politicamente accanto ad altri soggetti organizzati anche in questioni territoriali.

Non è bastato attribuire all’autonomia dei circoli una valenza in qualche modo "dirigenziale" per far loro sviluppare una consapevolezza di ruolo, tale da acquisire una diversa visione dei modi, dei tempi e dei luoghi della politica, da cui far derivare interventi, strumenti e pratiche funzionali alla ricomposizione della classe, partendo dallo specifico territoriale di competenza.

La percezione di sé che hanno i circoli spesso è autoreferenziale e la dimensione in cui operano più che all’autonomia di intervento è improntata alla separatezza dal concreto, anche dai circoli limitrofi dello stesso partito. E’ urgente una vera presa di coscienza e di senso da parte dei circoli, un’autopercezione strettamente connessa all’organizzazione di un intervento concreto legato alla necessità di "inchiesta" e ad una lettura efficace (ai fini organizzativi) dell’esistente, che il rapporto con i soggetti concreti presupporebbe.

E’ sulla base di una rinnovata consapevolezza dei circoli, in cui pratiche di partecipazione dal basso e di processi effettivi di democratizzazione diventino consueti, che auspichiamo per il partito una forma assimilabile ad una rete. Ciò nasce dall’esigenza di trovare un terreno di connessione, in cui far coesistere su presupposti di orizzontalità, la ricchezza degli strumenti e delle possibili forme organizzative con la necessità, tutta politica, di legare nel progetto i vari "nodi", pena la perdita di senso antagonista del reale.

Nella sostanza un partito che non si confronti con i bisogni quotidiani, tentando di dare risposte ai componenti della classe sul terreno dei servizi, ha scarse possibilità di affermare il proprio progetto in quanto scarse sono le possibilità di conoscere i soggetti, se non ripartendo dai bisogni. Una pluralità di soggetti, ciascuno segnato dalle modalità del proprio lavoro o del non lavoro, va ricercata nel territorio, territorio all’interno del quale i circoli devono assumere un ruolo centrale nell’individuazione dei soggetti e dei bisogni, attivando dinamiche rivendicative che investano l’intero partito nella formazione dei processi decisionali

I bisogni relativi al reddito, alla salute e alla previdenza, unitamente a quelli dei trasporti e della casa, si configurano ora più che mai come prioritari per la classe.

Nel territorio, ambito in cui tradizionalmente operano i circoli di base, si deve strutturare un intervento diverso rispetto a quello classico ed in esso può crescere e svilupparsi visibilmente una critica complessiva dell’esistente, articolata su pezzi anche parziali di progetto e su percorsi comunque praticabili legati alle esigenze ed ai bisogni dei soggetti.

Pur nella molteplicità, le soggettività continuano ad essere portatrici di bisogni diffusi e di diritti negati egemonizzati dalla destra con una forte caratterizzazione in senso qualunquista ed individualista, favorendo l’affermazione di un sentire di destra o, peggio, di un silenzio sociale, su cui risulta difficile incidere se non si interviene in modo mirato.

La maniera per ricostruire egemonia sulla nuova composizione di classe è quella di fornire risposte ad hoc per la maggioranza di tale composizione, ragionando sull’esistente e dando spazio all’autorganizzazione che può nascere dal quotidiano.

Il recupero di un rapporto sano con le soggettività, passa attraverso l’attribuzione di una valenza positiva ai bisogni legati alla cura del sé e della propria dimensione relazionale. Rilevare tracce di "altre" egemonie, nei confronti di problematiche (una per tutte: la previdenza) a cui ben altre risposte ed interpretazioni andrebbero date, non deve generare chiusura da parte nostra, ma stimolare la crescita di momenti di riflessione con le soggettività, contestuali alla riappropriazione di diritti, che le necessità dell’economico negano, trasformandoli in bisogni da cui trarre profitto.

La complessità non può essere un limite, così come non può esserlo il ripresentarsi di problematiche, che le spinte della cultura dominante sottraggono alla sfera del pubblico in senso privatistico.

I circoli devono stimolare la nascita di luoghi di incontro che non si strutturino per categorie professionali, ma che dalla lettura dei soggetti sociali come abitanti del territorio, avviino pratiche di decentramento rispetto, per così dire, al municipio e non allo stato.

In una parola, si auspica che nell’organizzazione e nell’autogestione delle rivendicazioni sindacali e dei bisogni (oggetto dei servizi), da una prima ipotesi di forme di mutuo soccorso tra soggetti, si arrivi ad un ampliamento della sfera pubblica, attraverso la costruzione di pezzi di welfare municipale, con un processo in cui il decentramento renda possibile, non solo un riavvicinamento tra cittadini ed istituzioni democratiche, ma diventi realmente lo strumento attraverso il quale la partecipazione sia sinonimo di esercizio pieno dei diritti politici.

Parlare concretamente di bisogni, di servizi e di diritti nel territorio, ha un’immediata ricaduta sul terreno dell’individuazione di una dimensione economica del territorio stesso.

E’ necessario interrogarsi su quanta ricchezza attraversi materialmente i territori, su che redditi e che risorse vadano utilizzate, al fine di garantire la soddisfazione dei bisogni materiali ed immateriali dei soggetti, su dove reperire le risorse, su come utilizzarle, sulla misura di quanto il territorio possa contribuire alla produzione di ricchezza ed al soddisfacimento dei bisogni stessi, tramite l’individuazione di vertenze lavorative territoriali.

Terzo settore, cura del sé, legato alle dinamiche dei lavori di riproduzione e cura in ambito familiare, impongono una riflessione sullo snaturamento in senso economico del welfare, individuando profitti derivanti dalla mercificazione dei bisogni, in una prospettiva che veda un riposizionamento in basso, in senso democratico, della produzione e del reperimento di risorse, riflettere sul fatto che una quantità di persone, indipendentemente dal genere, dall’età e dalle esperienze, viva al disotto della soglia di povertà, ben oltre gli standard minimi, su cui si era realizzata la mediazione sociale.

Ciò deve portare alla ribalta una concezione della fiscalità, in cui l’individuazione di un tetto minimo di reddito, costituisca il tratto distintivo di una maggiore equità, al fine di redistribuire, non soltanto il reddito, ma la possibilità di consumare e di essere soggetto di diritto ai servizi.

Accanto a questo, sarebbe altrettanto utile conoscere con precisione il numero delle partite IVA e delle posizioni INPS aperte negli ultimi anni, in quanto questo permetterebbe la quantificazione di un gettito fiscale nuovo sommandolo a quello consueto.

Nell’approccio al mondo del lavoro, l’organizzazione sindacale e la nicchia rivendicativa specifica, appaiono gli unici possibili terreni di intervento, mentre partendo dalla consueta complessità, sarebbe opportuno ripensare al ruolo e all’intervento svolto attualmente dai e nei nostri circoli territoriali ed aziendali.

Il lavoro oggi si presenta in una molteplicità di modi ( dal lavoro dipendente al parasubordinato, dai lavori atipici alla finta autonomia dei lavori svolti con partita IVA ecc.), diversi ma funzionali tutti alle necessità della modernizzazione capitalistica e dell’ottimizzazione dei cicli produttivi tanto nella produzione di beni quanto di servizi.

Nei territori, accanto a realtà lavorative la cui visibilità determina un’immediata riconoscibilità del lavoro in quanto tale, la molteplicità dei "modi" del lavoro determina al contrario un’invisibilità in cui il rapporto più diretto, che le strutture del partito possono instaurare con il mondo del lavoro, passa anche qui, necessariamente, attraverso la mediazione dei diritti e dei bisogni.

Torna il tema dei bisogni e dei servizi come collettori di ricomposizione della classe. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il terreno dei bisogni diffusi e quotidiani, è in questa fase l’unico realmente trasversale a tutti i soggetti sociali.

Nella pratica quotidiana dei circoli, il lavoro assume sempre più le sembianze del non lavoro e del precariato, dell’esclusione dalla società dei consumi, conseguenza della mancanza di reddito.

Un primo possibile strumento di intervento è stato individuato negli sportelli informativi. Interrogarsi, verificando quali siano le esigenze concrete e quotidiane di un lavoratore o di un disoccupato, è stato l’obbiettivo minimo degli sportelli informativi.

Il ragionamento è stato quello di arrivare al contatto diretto con i soggetti, attraverso l’offerta di servizi minimi quali la consultazione di stampa specializzata e più genericamente l’accesso ad informazioni relative alla formazione. In alcuni casi la presenza di un personal computer ha agevolato la proposta di corsi di alfabetizzazione informatica e il contatto con dei legali ha permesso un minimo di alfabetizzazione in tema sindacale.

La progettazione di alcuni percorsi lavorativi è stata proposta analizzando le esigenze e le opportunità offerte dai territori di intervento dei circoli. Laddove possibile, il ruolo dei nostri eletti nei consigli circoscrizionali ha reso praticabile l’accesso ad opportunità e a finanziamenti di tipo locale (Contratti di quartiere in VII^ circ.ne) e l’apertura alla contaminazione con altre forme organizzate nei quartieri (c.s.o.a., associazioni, cooperative, singoli cittadini) sta’ faticosamente costruendo dei percorsi comuni di lavoro, in cui l’intervento diretto del partito attraverso lo strumento degli sportelli, non ha fini totalizzanti, quanto piuttosto ricerca una sintonia di indirizzo tra diversi soggetti organizzati attorno ad una pratica.

Detto questo vale la pena interrogarsi se il rivendicare per un territorio il diritto ai consumi rispetto ai beni ed ai servizi valga anche per il lavoro e per il reddito, di cui esso dovrebbe essere artefice.

Senza dubbio individuiamo due livelli, uno più strettamente economico in cui il reddito diventa la chiave di accesso alla società dei consumi, ed un secondo livello, per noi senza dubbio di maggior spessore, che individua un limite grosso nella valutazione puramente economica dell’affermazione di "esistenza in vita", che passa per la rivendicazione di un reddito tout court.

La questione è aperta e non risolvibile nell’arco di una semplice discussione. Investe una riflessione più ampia, legata alle dinamiche sovrastrutturali, nei confronti delle quali le strutture del partito devono ricoprire una funzione essenzialmente pratica, in cui la progettualità concreta si leghi più al diritto al lavoro e all’individuazione di percorsi che portino alla creazione di posti di lavoro stabili, socialmente qualificanti e necessari, che non a soluzioni la portata del cui impatto potrebbe essere politicamente e socialmente destrutturante.

 


L’associazionismo

Per Rifondazione Comunista, lo sviluppo di reti formali ed informali, tra realtà di movimento, associazioni, esperienze orientate del terzo settore ha una valenza strategica. Il processo di riforma istituzionale iniziato con i referendum sul maggioritario e tutt’altro che conclusa, tende a costruire un modello di democrazia fondato sulla delega, sulla pacificazione sociale, sul restringimento all’ambito istituzionale della rappresentanza politica.

A questo, noi contrapponiamo un’ipotesi che rimetta al centro la partecipazione come fondamento della democrazia, la rappresentanza diffusa e, soprattutto, il rilancio di forme di aggregazione politica e sociale come antidoto alle tendenze neo-autoritarie ed escludenti in atto.

Le realtà associative, con tutti i propri limiti, costituiscono la "rete di protezione" rispetto ad un processo generalizzato di sfiducia nella partecipazione e nell’impegno sociale e politico, decisamente funzionale a politiche sociali e politiche di destra.

D’altra parte, spunti di riflessione sul modello organizzativo proprio del Partito, possono nascere da un’analisi che colga il fenomeno associativo nel senso di una trasformazione politica e sociologica dei bisogni, dei linguaggi e quindi delle modalità dell’agire politico.

Ad aiutarci nell’analisi, è fondamentale il vissuto delle tante compagne e compagni iscritti o vicini a Rifondazione che vivono il proprio impegno nelle esperienze associative, rimanendo spesso ai margini dell’elaborazione politica del Partito.

E’ difficile stabilire un criterio utile a definire quel mondo complesso e variegato che chiamiamo "associazionismo".

Le variabili sono infinite e comprendono i concetti di volontariato, militanza, produzione del reddito, autogestione; così come infiniti sono i temi di riferimento, che vanno dalla solidarietà internazionale alle vertenze territoriali, dall’intervento sociale all’autoproduzione, ecc..

Ciò che rende riconoscibile questo mondo può essere sintetizzato in due aspetti. L’aggregazione su base di affinità elettiva e il lavoro a "progetto" o a tema.

Il mondo associazionistico, al di là del giudizio che si può dare sulla sua capacità di trasformare la realtà, ha rappresentato il terreno di sperimentazioni spesso di grande valore. D’altra parte, ci troviamo di fronte, oggi, ad un processo che tende ad assorbirne gli elementi di ricchezza e di conflittualità dentro una logica concertativa affine a quella già sperimentata in ambito sindacale. La nuova legge sull’associazionismo, in discussione al Parlamento, rappresenta la svolta decisiva in questo senso: nella proposta di legge vengono stabiliti i criteri per la partecipazione ai tavoli governativi che determineranno le politiche nazionali per le associazioni. Ai livelli concertativi parteciperanno le associazioni "maggiormente rappresentative", ovvero quelle a carattere nazionale (ad esempio ARCI, Compagnia delle Opere, ecc..), mentre tutte le realtà piccole e medie, rimarranno completamente escluse da qualsiasi processo decisionale e democratico.

E’ evidente la tendenza a ricostruire il vecchio modello della "cinghia di trasmissione", questa volta direttamente tra una certa area associativa e le politiche governative, così come, dentro un quadro di smantellamento dello stato sociale, si tenta di utilizzare volontariato e terzo settore come sostituzione "a basso costo" di pezzi di servizio pubblico.

Per Rifondazione Comunista, assume un valore strategico una battaglia di carattere democratico che tenda ad impedire il processo di esclusione rivolto a gran parte dell’associazionismo.

Nessuna Associazione, per quanto rappresentativa, può rivendicare un ruolo di rappresentanza per altre. La battaglia per la democrazia della rappresentanza impegna il Partito, non certo alla costruzione di una "lobby" delle associazioni alternative e di sinistra; piuttosto sta nel favorire reti di relazione orizzontale e di comunicazione trasparenti e strumenti di rappresentanza paritari e validi per tutti.

Accanto a ciò, la battaglia per la difesa dello stato sociale, passa anche per la valorizzazione delle pratiche sociali, come "valore aggiunto", contrastando i processi di privatizzazione indiretta e le nuove forme di sfruttamento e di attacco ai diritti dei lavoratori.

Compito del partito è quello di favorire i processi di aggregazione e di sviluppare alleanze, non tanto a partire da un’affinità ideologica, quanto in virtù di una battaglia comune di carattere democratico.

Il rapporto Partito-associazionismo, non può seguire le strade classiche che hanno contraddistinto fino ad ora il rapporto tra partiti e movimenti, fondate alternativamente sul tentativo di egemonizzazione, o sulla marginalizzazione.

Si tratta, invece, di immaginare una relazione fondata sul principio della pari dignità, sulla capacità di contaminazione reciproca, pur nella consapevolezza dei differenti ruoli e compiti.

D’altra parte sarebbe sbagliato per il partito assumere acriticamente forme proprie di strutture altre (Centri Sociali, Associazioni, Movimenti), come sarebbe altrettanto erroneo non utilizzare come strumento di analisi, le modalità di aggregazione che si sono sviluppate negli ultimi anni. Esse esprimono un bisogno di forme nuove che il Partito non ha ancora saputo interpretare.

La scelta del luogo organizzativo in cui agire il proprio impegno, risponde oggi a dei criteri non totalizzanti. Il Partito è uno dei luoghi possibili, non l’unico e soprattutto è il partito ad essere uno strumento dell’agire politico e non il contrario.

La frammentazione dei soggetti sociali, la moltiplicazione dei linguaggi, la percezione della sconfitta di modelli ideologici assoluti, hanno fatto sì che l’impegno assumesse importanza come ricerca di senso, piuttosto che come strumento di trasformazione complessiva.

I centri sociali, la miriade di realtà associative "a progetto", l’investimento di tempo ed energie nel cosiddetto "terzo settore", stanno ad indicare un mutato rapporto con l’impegno sociale e politico, che tende a costruire identità soggettive, per certi aspetti "modi di vivere e di essere", a volte, in negativo, "modi di apparire".

Questa tendenza non permette giudizi di valore, cioè non è buona o cattiva ; è un fenomeno esistente e significativo che ci aiuta a comprendere i meccanismi della partecipazione per immaginare, di conseguenza, un nuovo modo di intendere il Partito.

Ragionare sul rapporto tra forma-partito ed associazionismo significa interrogarsi su quale relazione esista tra il politico ed il sociale in questa fase storica, su come siano cambiate e vanno cambiando le forme dell’impegno e della partecipazione.

L’associazionismo si è affermato, in modo particolare tra i primi anni ’80 ad oggi, come fenomeno di militanza basato sul fare, sull’individuazione di progetti specifici praticabili qui ed ora, sulla pratica dell’obiettivo, che ha costituito spesso un’alternativa all’impegno politico proprio dei gruppi piccoli o grandi, che nascevano e crescevano nel decennio precedente. Le sconfitte pesanti subite dai movimenti degli anni ’70 e il complessivo mutamento culturale e sociale, hanno portato ad una crescita costante della partecipazione e dell’impegno all’interno delle forme associative (che si è arrestata solo nell’ultimo anno come indica il rapporto IRES), parallelamente ad una perdita di iscritti e militanti di partiti politici e sindacati.

Non si è trattato solo della reazione ad una sconfitta, come si è spesso detto troppo semplicisticamente, e quindi alla ricerca di un "ripiego". Ragionando in questo modo si stabilirebbe una scala di valori tra espressioni politiche e sociali, subordinando le seconde alle prime ; inoltre si ignorerebbero le profonde trasformazioni che in questi anni hanno sconvolto la struttura produttiva ed il mercato del lavoro dei paesi a capitalismo avanzato, con l’emergere di nuovi lavori e di nuovi pezzi di economia, tra cui quella cosiddetta sociale, in cui forme atipiche di rapporti di lavoro e forme nuove di sfruttamento, sono state spesso sperimentate per essere poi "esportate" in altre sfere produttive : spesso una giungla senza regole, ma comunque in grado di offrire qualche opportunità di lavoro e di reddito così come una ricerca di senso e di "politicità" nel lavoro.

Le nuove condizioni di lavoro e di vita non hanno spazio nel partito, che muta la sua forma da un modello pensato per la rappresentanza di una classe omogenea, fondata su un rapporto di lavoro determinato e dipendente. La disomogeneità dei soggetti sociali di riferimento, pone un problema complesso alla stessa forma organizzata del partito, ed al suo modello di relazione con l’esterno.

La forma del Partito, così come oggi la conosciamo, risponde ad un modello fondamentalmente "omogeneo", che ripropone la stessa forma tra le strutture di base e tra le strutture di base e quelle di coordinamento : un circolo territoriale ha una struttura identica a quella di ogni altro circolo e la stessa viene riproposta a livello di federazione e di Direzione.

L’esclusività dell’adesione su base territoriale (sancita dallo Statuto e quasi mai praticata nei fatti), l’impossibilità di realizzare strutture di base su elementi di carattere tematico, progettuale e tanto meno di identità politica, negano di fatto (almeno formalmente), la possibilità di aderire al Partito attraverso l’adesione ad un progetto, ad un metodo, ad un’indicazione di percorso.

Tutto ciò, motivato dalla necessità di mantenere una coesione di tutto il partito, è, in realtà, una costruzione "virtuale", assolutamente inconciliabile con i meccanismi reali di aggregazione politica e sociale.

Spesso, le differenziazioni culturali, politiche e metodologiche, implodono all’interno dei circoli territoriali bloccandone l’attività ed esplodono nell’unica forma che rappresenti una possibilità di espressione, altrimenti negata, cioè nelle componenti di carattere nazionale, che non possono rappresentare la complessità delle identità presenti nel Partito.

A causa delle difficoltà comunicative e delle incrostazioni metodologiche, nelle realtà di base, moltissimi compagni che scelgono Rifondazione per un’adesione politica, l’abbandonano poi per l’impossibilità di ricavarsi uno spazio di iniziativa e di espressione (il dato sul ricambio ne è testimonianza).

Si assiste al paradosso per cui, in molte realtà territoriali, la sinistra alternativa costruisce esperienze significative con la partecipazione di iscritti di Rifondazione, senza che questo abbia alcun tipo di relazione con le strutture formali del Partito.

Proprio i compagni, che nella loro pratica quotidiana, vivono il rapporto con le realtà di movimento, le associazioni, le esperienze di pratica sociale, sentono forte l’emergenza di un percorso di trasformazione delle forme, del metodo e dei processi comunicativi del Partito, considerato che la discussione sul ruolo, l’identità e quindi la forma del Partito, è tutta da fare.

Questa è la scommessa della Rifondazione.

 


Territorio e pratiche sociali

Le trasformazioni dei processi di produzione e di scambio, e una loro maggiore mobilità geografica, stanno determinando un riordino del territorio e dei rapporti tra la sfera sociale, la rappresentanza politica e le istituzioni. Le politiche che stanno accompagnando questi processi, come sappiamo, hanno puntato, o puntano, da una parte a liberare il capitale da "lacci e lacciuoli", e, dall’altra a rendere il lavoro una sua variabile dipendente (precarizzazione, disoccupazione di massa).

Poiché il territorio è l’ambito nel quale si determinano, attraverso processi di appropriazione ed espropriazione delle sue risorse, le condizioni materiali e sociali di esistenza degli individui, ne consegue che il controllo e l’utilizzo di queste stesse risorse, ingenera un conflitto tra classi e soggetti sociali portatori di interessi e progetti antagonisti tra loro.

Le forme e le modalità che assume il conflitto di classe, non sono sempre le stesse, al contrario, mutano storicamente. Così, per fare alcuni esempi, è stato agli esordi della rivoluzione industriale con l’operaio massa dell’era fordista.

A fronte, quindi, delle trasformazioni e delle strategie messe in atto dal capitale negli ultimi due o tre decenni (globalizzazione, internazionalizzazione, finanziarizzazione dell’economia), è necessario interrogarsi, sia sul come fare politica e quali forme organizzative adottare per essere più efficaci, sia quali siano "i nuovi" e "i vecchi" soggetti sociali ai quali dobbiamo rivolgerci per trasformare anti-capitalisticamente la società.

Lo smantellamento progressivo del welfare, comporta che lo Stato non assolve più alla sua funzione di redistributore della ricchezza e di mediatore del conflitto tra le classi. Al contrario, oggi, le misure politiche, sociale, legislative o fiscali che vengono adottate (privatizzazioni, esternalizzazioni di funzioni, patti territoriali e contratti d’area, lavoro interinale, ecc....), peggiorano le condizioni di vita delle fasce più deboli e più esposte della popolazione.

Così crescono la disoccupazione, la flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro, il lavoro nero (saltuario e sottopagato), l’incertezza per il futuro.

Ma non è solo il lavoro normato e regolato che va in crisi. Vacillano sia i diritti di rappresentanza (sindacale, parlamentare, ecc..), sia quelli sociali ed universali (educazione, sanità, mobilità, pensioni).

Va da se’, che questo quadro delinei un insieme di rapporti tra forze sociali fortemente squilibrato a favore del capitale.

Il "patto sociale", il compromesso sociale democratico tra le classi - nato dopo la vittoria sul nazi-fascismo e basato su un insieme di garanzie sociali e sulla piena occupazione, appare definitivamente sepolto. Sul territorio, si intrecciano diversi momenti della produzione, e della riproduzione sociale : lavoro, consumo, tempo libero, rapporti familiari ed affettivi; ed anche le relazioni tra economia e ambiente, e quindi l’uso (o lo sfruttamento delle risorse).

Ognuna di queste relazioni rimanda ad un conflitto di interessi, che si esplica in due momenti : quello della lotta, cioè del rapporto di forza per il miglioramento delle proprie condizioni di vita, e quello delle istituzioni ( la mediazione del conflitto sociale attraverso un sistema di regole condivise).

Quando il partito si fa carico di una determinata situazione di conflitto (vertenze di lavoro, trasporti, piano regolatore, sviluppo urbano, uso del patrimonio pubblico), si trova a dover fare i conti, al suo interno, con le contraddizioni generate dal conflitto stesso: tra il momento della lotta, del rapporto di forza che essa instaura, e il momento della mediazione, cioè della sua normazione.

Lo smantellamento dello stato sociale è il presupposto di una ridistribuzione della ricchezza sociale verso i poteri forti attraverso politiche fiscali (defiscalizzazioni, decontribuzioni, ecc...), oppure per mezzo di politiche economiche che li favoriscono (rottamazione, privatizzazioni, ecc...). Dunque è una redistribuzione dal basso verso l’alto, inversa a quella che caratterizzava la fase del compormesso socialdemocratico precedente: si pensi alla nazionalizzazione dell’Enel o alla scuola di massa, attuate negli anni ’60 dai goveni di centro sinistra e si comparino queste politiche con quelle dei governi Prodi e D’Alema.

Si assiste ad una mercificazione dei beni comuni, della ricchezza pubblica; si "valorizzano" le peculiarità locali per attrarre capitali, cioè per svenderle al miglior offerente arrivato.

Se, a livello globale, questo comporta la messa sul mercato di intere aree libere da qualsiasi controllo (massimo sfruttamento della mano d’opera senza limiti di età o specificità di genere, senza vincoli ambientali o di garanzie), nel caso di Roma le sue peculiarità artistiche, archeologiche e storico-culturali, sono trasformate, da beni pubblici in merci, con le quali competere sul mercato globale. Roma novella Disneyland archeologico-culturale.

Tornando alla forma organizzativa, cioè al Partito, crediamo che solo attraverso pratiche collettive, coscienti e conflittuali, ci si possa porre come obiettivo quello di sostenere i soggetti sociali antagonisti, di pomuoverne le forme e le modalità di lotta, di gettare le basi per alleanze durature tra soggetti diversi, di incidere anche sul piano normativo e legislativo, di costruirsi come partito di massa, compenetrandosi ed adattandosi al territorio, in un reticolo di relazioni e forme organizzative.

E’ per noi vitale affrontare il nodo della forma partito, come hanno dimostrato i recenti avvenimenti che ci hanno visti protagonisti. L’incapacità a risolvere la contraddizione tra il nostro essere portavoce dei soggetti sociali più deboli all’interno delle istituzioni e, al contempo, elemento catalizzatore della ricomposizione di classe (e quindi della pratica permanente dell’antagonismo e del conflitto sociale), ci ha portati ad una seconda scissione.

La funzione del Partito oggi, senza tralasciare l’importanza della rappresentanza istituzionale, è quella di favorire il collegamento organizzativo tra le lotte sociali e di essere loro veicolo di comunicazione e scambio di elaborazione e di esperienze.

Al contrario, si assiste, a volte, ad un incontro/scontro con le contraddizioni interne ed esterne al Partito: vedi il caso di Tormarancia, dello Iacp, delle vertenze sui trasporti, ecc..

Sul territorio, il conflitto sociale, conseguenza di diritti e bisogni negati, si esprime attraverso momenti di lotta: casa, trasporti, difesa ambientale, assistenza, lavoro, ecc... Si sperimentano, così forme di auto-organizzazione a partire dal proprio specifico.

Compito del partito dovrebbe essere quello di fare in modo che, laddove tali esperienze emergano, non rimangano isolate. Pur nel rispetto dell’autonomia e dell’identità di ciascuno, va fatto il massimo sforzo affinché i protagonisti di una lotta o di un’esperienza, si colleghino ad altri soggetti sociali e politici, per interagire in funzione di un progetto di trasformazione, definendo cioè obiettivi comuni e condivisi.

Per fare un esempio: condividiamo le lotte del CNL dell’Atac, ma sarebbe auspicabile che il CNL riuscisse a costruire momenti di unità di azione e di lotta con le associazioni degli utenti, contro le politiche adottate dal Comune di Roma. Ciò comporterebbe anche che, la gestione del conflitto, non sarebbe delegata solo alle istanze centrali del Partito (la Federazione), oppure istituzionale (il gruppo comunale), ma vedrebbe protagonista anche il reticolo dei Circoli territoriali nell’organizzare l’utenza sul territorio.

Ora, la caratteristica più importante della nascita di un movimento, è proprio quella di "produrre una cultura", una nuova identità collettiva, che comporta una trasformazione di chi ad esso partecipa, a patto che si vada oltre la pura rivendicazione, che per quanto importante, a volte rappresenta il limite di crescita dei movimenti.

Per far fronte a tutto questo, abbiamo bisogno di dotarci di strumenti adeguati. Uno di questi è la formazione. Una formazione adeguata ad un nuovo agire collettivo, che fornisca nuove modalità di indagine (importante è il lavoro di inchiesta avviato dal Partito) e di intervento, per la costruzione di una nuova identità collettiva, cosciente e critica, che sappia rapportarsi e radicarsi in un contesto così articolato e complesso qual’ è quello territoriale.

Spesso, la formazione è stata concepita più come indottrinamento, come lettura della realtà in senso univoco, preconcetto che, oltre a renderla inadeguata alle necessità dell’oggi, diminuisce la capacità di confronto e le possibilità di un suo riadeguamento.

Il militante del partito, che si confronta oggi con i diversi momenti del conflitto sociale che si intrecciano sul territorio, si trova spesso in difficoltà nel dare loro risposte e sbocchi. Si scontra, in sintesi, con un’inadeguatezza degli strumenti, sia in termini metodologici che conoscitivi.

Porsi di fronte alle problematiche che riguardano, ad esempio, la qualità della vita urbana, implica una conoscenza delle diverse realtà in cui la contraddizione principale capitale-lavoro oggi si esplica. L’inchiesta è uno degli strumenti che ci permettono di indagare la realtà per coglierne contraddizioni ed esplicitare bisogni, di verificare le nostre analisi e definire strategie di intervento più efficaci e rispondenti alla nuova fase che viviamo.

Il problema del trasporto, ad esempio, va affrontato sia dal punto di vista di un modello di sviluppo alternativo, sia da quello delle condizioni di lavoro e della sua organizzazione, come da quello della qualità del servizio, dunque del cittadino/utente.

Quindi, l’inchiesta, in questo caso, è uno strumento valido se serve a connettere tanto le realtà organizzate del Partito, quanto quelle esterne ad esso. Confronto delle specificità attraverso l’interazione, non univoca, strumento insieme di indagine, formazione e costruzione di reti.

Altra questione di primaria importanza è la comunicazione. I mezzi e le metodologie della comunicazione sono strumenti fondamentali per la costruzione del consenso politico.

La comunicazione e la circolazione delle informazioni, rappresentano un insieme di modalità di cui dobbiamo appropriarci attraverso la definizione delle loro finalità, sia all’interno che l’esterno del Partito.

Anche la formazione e l’inchiesta rientrano in parte negli strumenti di comunicazione. Le tecniche della comunicazione devono diventare interne alla metodologia dell’agire politico, parte integrante della proposta e dei mezzi comunicativi che vengono usati.

Ma, è soprattutto la gestione sociale, generalizzata e democratica delle informazioni che va favorita e sostenuta, quale mezzo necessario ad avviare un processo di appropriazione/riappropriazione dei saperi. Veicolare l’informazione, renderla circolare, continua, favorisce il radicamento sociale, se pensata in modo da rendere più stretto il rapporto tra i nostri compagni presenti nelle istituzioni e le differenti pratiche sociali di cui si rendono protagoniste le realtà di base del nostro partito.