articolo tratto da "Musica Jazz" Anno 51°, N.11 - Novembre 1996
di Riccardo Brazzale
Nel corso della sua evoluzine la musica afroamericana ha avuto
come costante e fondamentale caratteristica la pulsazione ritmica, ma variandone
via via i modi. Pubblichiamo la prima parte di una analisi storica di tale sviluppo:
si va dall'originario jazz di New Orleans alla Swing Era, per approdare (nel
prossimo articolo) alle concezioni succedutesi dal bebop in poi.La domanda "che
cos'è il jazz?" attende ancora, oggi come ieri, una risposta chiara.
Com'è noto, il jazz è nato dalla fusione tra due sensibilità
e due culture musicali ben precise, quella africana e quella europea (nè
l'una nè l'altra, a dire il vero, al meglio della loro espressione) giunte
a incontrarsi su un terreno altrettanto ben definito, gli Stati Uniti. Se una
di quelle tre componenti fosse stata diversa sarebbe mutato anche il prodotto,
come dimostra il fatto che non è jazz la musica sorta nelle Americhe
del Centro e del Sud dall'incontro fra iberici e autoctoni (oppure fra latini
e afroamericani). Il jazz si è sviluppato come un unicum ben diverso
da altri generi (non può essere confuso, per esempio, con la recente
world music) dal momento che, per quanto aperto (essendo quasi per definizione
una musica di sintesi), si è via via imposto come un linguaggio contraddistinto
da almeno due peculiari fili conduttori: un'esclusiva concezione del suono e
un'altrettanto particolare concezione ritmica. L'idea ritmica che pervadeva
il jazz di New Orleans, e lo rendeva nettamente diverso dalle altre musiche
più o meno simili, di origine sia europea sia africana, era già
segnata da una componente dapprima senza nome, che sarebbe assurta in breve
tempo a referente massimo per ogni jazzista: lo swing. Come sempre accade tale
componente avrebbe assunto un nome, rendendosi riconoscibile anche
nei dettagli, solo quando già esisteva da tempo. A partire dalla fine
degli anni Venti, infatti, l'attività sempre più intensa delle
orchestre rese urgente la necessità di fornire un codice comune a tutti
i musicisti di una stessa band, un insieme di regole che consentissero di giungere
a un prodotto univoco. Per molti versi si era di fronte a una palese contraddizione:
il jazz, musica in cui si impone la soggettività, doveva attenersi a
criteri oggettivi. Nel momento in cui era alla ribalta non un sassofonista ma
un direttore d'orchestra (il cui strumento era la band nel suo insieme), il
suo modo personalissimo di rapportarsi con il fluire del tempo musicale doveva
essere chiara mente comprensibile, assimilabile e riproducibile dal gruppo.
Grazie anche a un nuovo stile che vedeva la sezione ritmica scandire il tempo
con quattro pulsazioni anziche le due adottate sino a poco tempo prima, in quel
periodo il pubblico, emulando gli esecutori, prese a dondolarsi (e a farlo in
maniera standardizzata come vuole quel gioco di coppia, ma anche di società,
che è il ballo), il che spiega perchè nacque proprio quel nome:
swing. Fu allora, nel momento in cui lo swing si andava tipizzando, che quel
certo tipo di swing diede il nome addirittura alla nuova epoca alle porte. Come
si diceva, però, lo swing c'era da prima: non tutti lo praticavano con
spontaneità, ma più d'uno (Louis Armstrong in testa) ne aveva
lasciato documenti probanti. Perche, dunque, se lo swing esiste da così
tanto tempo, si è sempre stati refrattari a darne una definizione convincente?
Sostanzialmente perchè lo swing è frutto della combinazione di
molti elementi, in parte tecnici e in parte mentali, in parte razionali e in
parte emotivi, in parte oggettivi e in parte soggettivi, così come ha
chiarito Andre Hodeir nel primo e forse unico saggio in cui si sia affrontato
il problema sistematicamente (1 ). Tuttavia, se è chiaro che lo swing
è una caratteristica tipicamente jazzistica, non rintracciabile in Europa
ne, così compiutamente, in Africa, ciò accade perche esso è
prima di tutto la risultante di un rapporto, o meglio di una «tensione
creativa fra tempo oggettivo e tempo soggettivo» (2), ovvero fra lo scorrere
chiaro e costante del tempo di battuta in battuta (peculiarità propria
della musica europea dell'ultimo millennio) e l'idea di un tempo personale,
diverso da quello insito nell'ordine ritmico sottostante (ben sviluppata solo
nella poliritmia e nella polimetria delle musiche africane). Quando l'originaria
soggettività africana è stata subordinata a un'unica quadratura
metrica, si è innescata una tensione che nel jazz sarebbe divenuta essenziale:
il concetto di tensione assumeva valore in se, un valore per certi versi fondante,
sotto il profilo ritmico (con la poliritmia), melodico (con l'instabilità
dell'intonazione rispetto all'ideale europeo del temperamento equabile), armonico
(con la predominànza di accordi di movimento: per l'armonia europea il
blues non conoscerebbe mai pace) e timbrico (con pronunce e colori per lo più
fisici e pregnanti). Nel jazz I'antinomia fra stasi e tensione è decisamente
sbilanciata in favore del secondo elemento. Se nella musica europea la tensione
ha senso perche è funzionale alla stasi, nel jazz avviene il contrario.
E nel Novecento, mentre la musica europea, per aprirsi nuove vie, deve costruirsi
razionalmente e artificialmente nuove tensioni, il jazz recupera quelle naturali,
fisiche ed emotive che il corpo dell'«uomo bianco» non sa esprimere.
Il jazz era subito piaciuto agli Stravinskij e ai Milhaud proprio perche aveva
dentro quella tensione che si pensava potesse smouvere i paludati accademici,
contro cui si battevano le avanguardie europee. Ascoltando per esempio la Creation
du Monde di Milhaud si ha l'impressione che la musica sia sempre sul punto di
liberare lo swing, di lasciare spazio all'assolo che molla gli ormeggi e si
butta nel mare aperto, calmo o procelloso che sia; cosa che però non
avviene mai, perchè lo swing non è di quel mondo.
Dunque, in un jazz che non rinunci allo swing (e che jazz sarebbe?), l'idea
del tempo musicale può nascere solo dalla percezione di una struutra
ritmica globale, data (si potrebbe dire "gestalticamente") dai rapporti
fra le diverse idee del tempo proprie di ogni musicista chiamato a concorrere.
E se lo swing non è avvertibile nella musica africana, è vero
però che dall' Africa il jazz ha appreso una concezione del tutto sconosciuta
all'Europa colta: quella secondo la quale il ritmo (ma anche la musica stessa)
può esser frutto di un lavoro collettivo in cui l'apporto creativo del
singolo è comunque irrinunciabile. Ovvero, come lascia intendere anche
Gunther Schuller (3), all'interno del coro deve necessariamente essere riconoscibile
la voce del singolo, ma la sua bellezza (nella musica africana e anche in molto
jazz) è tale solo in quanto inserita nel gruppo e rapportata a esso:
ecco tornare il principio della gestalt. Questo è uno dei motivi per
cui lo svilup- po del jazz, che pure è in buona parte musica colta, dipende
come nella musica popolare più dall'apporto del collettivo che da quello
dei singoli. L'essenza di questa musica resta racchiusa in una sorta di filo
conduttore che si è formato, si è ramificato e ha dato frutti
secondo quello spirito di gruppo in cui sono riconoscibili i singoli apporti:
uno spirito che sarebbe quanto mai interessante indagare anche sotto il profilo
sociale e politico, data la sua estraneità alla logica manichea dell'
aut aut fra singolo e gruppo che caratterizza l'Occidente. Per questo, in fondo,
la Swing Era diede luogo anche a prodotti poco assimilabili all'autentica essenza
jazzistica: perche l'omologazione a un unico modello ben chiaro e definito (da
canticchiare e ballare, e quindi adatto all'evasione) negava la volontà
di emergere del singolo. Si pensi ai successi di Glenn Miller, dove anche gli
assoli non sono più improvvisati ma ricondotti a tema secondario: il
caso di In The Mood è emblematico. La Swing Era, però, aveva per
la prima volta individuato i singoli elementi tecnici dello swing ed era in
grado di riprodurli, con la convinzione e la forza d'urto della grande orchestra.
È dunque del tutto giustificato dire che Topsy dell'orchestra di Basie
ha più swing di Four Brothers del secondo gregge di Herman, che pure
ne ha da vendere. Basie, evidentemente, aveva fatto «quadrare il cerchio»
più di Herman: usando sincopi e terzine quanto bastava, su un tempo metronomicamente
perfetto per quell'idea dello swing, anticipando e rubando il giusto, spingendo
senza esagerare ma con continuità, staccando e legando dove serviva.
Lo swing tocca le corde dell'emotività più di quelle della razionalità.
È dunque più facile avvertirne il senso dove tutti gli elementi
sono espliciti ovvero, innanzitutto, dove la sezione ritmica funziona a dovere;
per questo, la presenza o l'assenza della chitarra di Freddie Green può
fare la differenza. Si consideri una versione di Topsy del 1960, nell'arrangiamento
a suo modo perfetto di Neal Hefti. Che fa la ritmica? Intanto agisce su una
velocità metronomica che si colloca quasi subito sui 182 alla semiminima,
un'andatura un po' più veloce rispetto al cosiddetto «swing tempo»
che Hodeir ritiene fissato a 162, come nel Topsy eseguito dal quintetto Konitz-Marsh
nel 1956. Il segreto dello swing di Basie è innanzitutto nel rapporto
primario fra il contrabbasso di Ed Jones e la chitarra di Green: al basso (che,
come vuole una regola non scritta, appare idealmente un po' in anticipo) la
chitarra risponde, dopo le prime otto misure, segnando il «levare»
(il «battere» è reso sottovoce) non proprio sul tempo, che
è tenuto dalla batteria, ma sovente con un filo di anticipo rispetto
a questa eppure con un certo ritardo rispetto al basso. Possono sembrare elucubrazioni
eccessive ma è invece la realtà, complicata perche quasi impossibile
da annotare sulla carta e al tempo stesso semplice, perche i jazzisti autentici
l'hanno sempre fatta propria con l'apprendistato. In realtà, la scansione
in ritardo è un'eccezione. La regola resta il contrario: la spinta propulsiva,
ben accentuata in big band come quella di Basie, è dovuta principalmente
al fatto che tutti, a partire da basso e batteria (con il caratteristico disegno
sui piatti: es. A), fino all'intera sezione dei fiati, tendono ad anticipare
il tempo come per spingerlo in avanti (specialmente quando prende a essere scandito
su tutti e quattro i quarti) ma nel perenne intento di non accelerare effettivamente.
Può accadere che da 178 si vada a 182, da 182 a 186, ma il senso dello
swing si basa proprio sulla fermezza dei «custodi del tempo»: tant'è
vero che una ritmica non è più apprezzata quando i colleghi percepiscono
che è venuta a mancare, nel complesso, la stabilità nella scansione
del tempo. Torniamo a Topsy: la spinta propulsiva, marcata dagli accenti sui
tempi deboli dei riff degli ottoni (es. 8), non è la caratteristica più
importante dello swing ma certo la più evidente, e guadagna un'efficacia
ancora maggiore nel momento in cui entra in relazione con il rilassatissimo
tenore di Frank Foster; è questo il primo motivo per cui la band di Basie
si colloca di diritto tra quelle con il maggior swing. Ecco dunque una prima
conclusione: lo swing è più preciso ed eccitante se è chiaramente
espresso (e non solo sottinteso) nella dialettica fra spinta propulsiva e relax;
tale tensione appare nella massima evidenza se la spinta è fornita dalla
sezione ritmica e il relax è lasciato a chi ha in mano la melodia, ciò
che Erroll Garner ha riunito nella dialettica tra il ritardo della mano destra
e il pulsare della sinistra, soprattutto in piano solo (si ascolti Play Piano
Play del 1947). D'altronde, la tecnica che mette in rapporto tensione e relax
accentuando quest'ultimo era già stata evidenziata da Coleman Hawkins,
con quel suono così voluminoso, e vieppiù sviluppata da Ben Webster.
La storia del jazz mostra che nel rapporto ritmico fra gli esecutori ma anche
nel rapporto che il singolo solista instaura per così dire fra se e se,
nel proprio modo di sentire tempo oggettivo e tempo soggettivo le varianti sono
infinite. Dal bop in poi ritmica e solisti infittiranno sempre più le
tensioni interne, con il risultato che lo swing diventerà un elemento
ben più complesso che in passato, frutto non di una sola tensione ma
del rapporto fra tensioni diverse: Parker in relazione a Roach, e Coltrane a
Elvin Jones, stabilirono rapporti che un tempo sarebbero effettivamente parsi
di rottura. Del resto, il jazz si è chiesto fin dalle origini se potesse
fare a meno della ritmica mantenendo lo swing: il cool ante litteram di Beiderbecke,
Trumbauer, Lang, Venuti segnò una stagione breve ma densa di elementi
destinati a lasciare il segno. Esemplare a questo proposito è il caso
di Armstrong. Evidentemente, quando alla fine del 1925 diede vita agli Hot Five,
egli tendeva a una musica raffinata, che si differenziasse in modo deciso dall'esistente,
cercando anche di respingere l'accusa di chiassosità che ben pensanti
e cattedratici muovevano al jazz: proprio per questo nel gruppo mancavano due
"segnatempo" come tuba e batteria. Tuttavia Armstrong non poteva dimenticare
che il jazz era diverso dalla musica colta (e da quella bandistica) perche assegnava
un ruolo fondamentale alla scansione del tempo; del pari, il jazz si differenziava
dalla musica «ballabile» perche quella scansione era innervata dallo
swing. Così, quando nel '27 Armstrong sentì il bisogno di rivitalizzare
la formazione, lo fece fondando gli Hot Seven, aggiungendo appunto quegli strumenti
che gli avrebbero garantito l'imprescindibile spinta dello swing.
Certo, ascoltando Muskrat Ramble del 26 febbraio 1926 dagli Hot Five (e anche
Potato Head Blues del 1 O maggio 1927 dagli Hot Seven) si ha la precisa sensazione
che, per produrre swing, sarebbe stato sufficiente il solo Armstrong, data la
sua inimitabile perizia nel creare tensioni all'interno delle sue stesse frasi
e delle antinomie tra domanda e risposta, ricorrendo a divisioni ritmiche e
ad accenti disseminati con maestria. E va anche notato che in Muskrat Ramble
il sound di riferimento è quello di una piccola brass band da strada,
non quello di un quintetto jazz a cui manchi una parte della ritmica. Armstrong,
decidendo con la fondazione degli Hot Seven di rendere esplicito il ritmo, gettava
un ponte verso il futuro, quello che di lì a poco esigerà appunto
uno swing che esprime chiare e forti le proprie tensioni. Chi, in seguito, volle
swingare senza I'ausilio della ritmica dovette assicurarsi di esser capace di
produrre comunque un qualche genere di tensione, per quanto «sottovoce».
In Muskrat Ramble la spinta in avanti necessaria allo swing è in buona
misura sulle spalle del banjo di Johnny St. Cyr e sul controcanto del clarinetto
di Johnny Dodds. Non è certo nelle mani di Lil Hardin, ma neppure nella
coulisse del trombone di Kid Ory il quale, nei brevi break, dà vita a
una serie di figure ritmiche tutte in staccato «croma con punto semicroma»
( es. C) più vicine alla marcetta che al jazz. Ben altra cosa è
il terzi nato swing, ossia la lettura di una coppia di crome come se si trattasse
di una terzina, con la prima nota più lunga (per due terzi della durata
complessiva) e la seconda più breve (il restante terzo; es. D). La lettura
di questo effetto presenta una certa difficoltà, tanto che è più
facile apprenderlo da un maestro, per imitazione, che leggendo uno spartito
pur scritto a regola d'arte. Il motivo di tale difficoltà era già
noto ai musicisti del Sei-Settecento e oggi ai sostenitori della cosiddetta
prassi esecutiva (4): due note uguali (poniamo due crome) si leggono sì
a terzi- na in maniera diseguale, con la prima più lunga, ma il rapporto
tra di esse dipende dalla velocità di esecuzione. Più l'esecuzione
è veloce, più le note tendono a una durata eguale; viceversa,
più l'esecuzione è lenta, più la prima nota si allunga
a scapito della seconda. Le difficoltà di esecuzione sono dovute al fatto,
come ha spiegato Hodeir (5), che «il tempo non può essere ne troppo
lento, ne troppo rapido (...). Sotto il 54 il tempo perde ogni potere "centrifugo"
e alla sezione ritmica accade quel che accade a una pallina di roulette alla
fine della corsa. Sopra il 360 è assai difficile che l'esecutore riesca
a mantenere quel minimo di sciol- tezza e di precisione fuori delle quali non
esiste più swing». Certo il concetto di velocità è
sempre relativo: Parker, Coltrane e Brecker, ai tempi di Armstrong, erano ancora
di là da venire. Altro è il problema dei tempi lenti, nei confronti
dei quali, per non perdere swing, il jazz ha adottato fin dagli esordi due soluzioni:
il raddoppio sottinteso del tempo (che può portare a effettivi raddoppi
di velocità, come accade per esempio nello Squeeze Me di Armstrong con
gli Hot Seven, inciso il 29 giugno 1928) oppure l'uso di una melodia soprastante
totalmente indipendente dal flusso della ritmica. Billie Holiday, in questo,
resta insuperata. Persino una canzone nota a tutti, come Blue Moon, cantata
da lei può far perdere il conto delle battute: Billie allunga le note,
ritarda i punti d'arrivo, dilata le frasi e poi le riaccorcia, quasi sempre
pensando a terzine ad arco più ampio (es. E). La via che avrebbe portato
alla versione di In YourOwn Sweet Way dello Standards Trio di Jarrett era già
tracciata. Ma con Billie Holiday (e con Jarrett) ci muoviamo già entro
una concezione dello swing molto più complessa e ricercata. Altro è
buttare il sasso di una nota sola, sicuri che la ritmica la sospingerà.
È quanto accade all'Armstrong degli Hot Seven, che fin dalla prima nota
di Potato Head Blues ci rammenta quanto sia importante un bassotuba (o un contrabbasso)
che faccia da battistrada. Il raddoppio del tempo si rende necessario quando
la sua scansione scende sotto certi livelli: Squeeze Me cammina ai 98 di semiminima
ma il problema si avverte anche per Basin Street Blues che va a 112. Su una
via di mezzo si colloca Minnie The Moocher, che Cab Calloway attaccava ai 106
di semiminima. Anche qui il lavoro della ritmica è fondamentale, perche
per sostenere l'anticipo deve fare uno sforzo superiore. Il tempo è molto
più lento ma certo non tanto da far pensare a una ballad; il brano è
quello che viene definito uno shuffle, un tempo nel quale la ritmica ha il ruolo
più delicato: non deve mai smettere di «tirare» perche la
tensione necessaria allo swing non venga meno.
Per inciso, «tirare» è un verbo centrale, e nel gergo resterà
tipico dire che una ritmica ha o non ha «tiro». Tuttavia va osservato
che in inglese il verbo corrispondente è drive, guidare, e che la sensazione
che ne deriva sta nel groove, l'esserci dentro, penetrare il tempo. Un sound
dello stesso genere, per restare in stile jungle, è quello di The Mooche,
brano che Ellington, nell'ottobre del '28 (in varie versioni Okeh, Cameo, Brunswick,
Victor), prendeva ai 116 di semiminima, diminuiti nel '46 a 98: Ellington non
raddoppia mai ma il raddoppio va almeno pensato, ogni tanto, perche il relax
non diventi staticità pura. Tuttavia, la ritmica è fondamentale
ma non sufficiente; tant'è vero che la band di Moten, culla dell'orchestra
di Basie, nulla poteva di fronte a una sezione di sax che eseguiva tutte le
note staccate, senza quindi il fondamentale rapporto fra legato e staccato.
Un brano come The Count, abbastanza affine a Topsy, ne soffre tremendamente
proprio per la pronuncia dei sax, così saltellante da farli sembrare
impegnati in una polka. Certo, era il pedaggio che doveva pagare uno strumento
come il sassofono, allora agli esordi in ambito jazzistico, ma sta di fatto
che quella pronuncia mina le basi dello swing. D'altronde, se si ascolta il
sax di Frankie Trumbauer, che pure avrebbe ispirato jazzisti come Lester Young
e Lee Konitz, si ritrova quel suono «senza spina dorsale» che è
oggi solo dei sassofonisti di educazione accademica. Si capisce dunque come
la spinta propulsiva, così vitale per il fattore swing, deb- ba essere
percepibile a partire dalla nota in se, sin dalla produzione del suono, come
ha sottolineato Giorgio Gaslini (5). Owero, proprio l'analisi della single note
consente di dire che qualcosa differenzia la pronuncia «classica»
da quella jazz anche nell'emissione di un solo suono: ancora una volta è
la pronuncia terzinata. A questo punto occorre tornare brevemente indietro.
Possiamo dire che la spinta propulsiva è awantaggiata dalla lettura terzinata
perche, nella coppia di note, la seconda (quella di minor durata) va eseguita
staccata; d'altra parte, non essendo troppo breve (un terzo della divisione),
può rilanciare alla volta della coppia di note che segue. Analogamente
la semiminima swing dovrebbe essere eseguita come una terzina formata da una
semiminima seguita da una pausa di croma (es. A: bisognerebbe inoltre eseguirla
come se fosse scritta con l'indicazione di una forcella a spegnersi, e la pausa
avrebbe la funzione di un respiro per rilanciare. Già a questo punto
si può dire che la di- namica tra stasi e movimento, che in gene- rale
connota tutta la musica, nel jazz si esprime a diversi livelli e fino nei minimi
particolari: il rapporto lunga-breve nel terzinato, il legato-staccato, il ritardo-anticipo
specie nelle frasi sincopate. Perche di fatto, se la sincope è chiaramente
un artificio che dà slancio, quando essa viene inserita in un contesto
terzinato ( es. G) dà quello slancio del tutto particolare, per molti
versi unico, che ora possiamo ben definire swing.
Quando Goodman attacca il tema di un brano come Don't Be That Way, il semplicissimo
ostinato delle trombe sotto la melodia dei sax è già uno schema
tipico, così come lo è il riff, sempre degli ottoni, sul bridge,
ancor più semplice (es. H). Lo si era detto all'inizio: le big band sono
in qualche modo costrette a tipizzare, a standardizzare, a creare prototipi
di pronunce, di uso del terzinato, di schemi ritmici più efficaci. Ancor
più di Goodman, Glenn Miller, per aumentare la comprensibilità
e l'immediatezza, riduce il numero degli schemi in uso, dando spazio e voce
solo a quelli maggiormente prevedibili. Se si ascoltano le formule antifonali
cantate da Calloway in Minnie The Moochersi noterà che, quando esse si
fanno ritmicamente più complicate, chi è invitato a rispondere
comincia a perder colpi. In Pennsylvania 6-5000 Miller non si sarebbe mai sognato
di intercalare questo genere di complicazioni. Lo swing era concepito come una
macchina poderosa che, con pochi fronzoli, sapesse smuovere anche una pesantissima
pietra angolare. Ma così rischiava di finire come Re Mida: qualunque
cosa, al suo contatto, prendeva a oscillare in avanti, facendo dimenticare tutte
le altre proprietà della musica. La poesia di Beiderbecke sarebbe potuta
passare in secondo piano, e persino il magistrale senso del tempo di Billie
Holiday avrebbe faticato a emergere se alle sue spalle non vi fossero state
le mi- gliori sezioni ritmiche d'America. Prima della Swing Era, il senso dello
swing era solo una questione di feeling (to feel good, to feel groovy): sarebbe
stato assai arduo spiegare a chi non fosse un conoscitore del jazz che la scansione
a crome dei bassi nel secondo movimento dell' Italiana di Mendelssohn non era
swin- ginge che nemmeno lo erano, in se (al di là delle libertà
interpretative), le figure di tipo terzinato nell' Arietta dell'ultima sonata
di Beethoven (in verità si tratta di un tempo in 9/16: es. I). Dopo la
Swing Era, lo swing era patrimonio di tutti: delle orchestrine da ballo come
di qualsiasi buon cantante di musica leggera e, magari, anche di qual- che pianista
classico. Come il jazz tutto, lo swing, ormai interiorizzato e dato in buona
misura per scontato, necessitava di un rin- novamento. Il bop era alle porte.
NOTE (1) Andre Hodeir, Uomini e problemi del jazz (traduz. di Mario Cartoni), Longanesi. Parte quarta, cap. XII: «Fenomenologia dello swing)). (2) John Fordham, Jazz (ed. it. a cura di Ric- cardo Brazzale), Idea Libri. Parte quarta: «Ritmo)). (3) Gunther Schuller, Il jazz classico (ed. it. a cura di Marcello Piras), Mondadori. Capitolo l: «Le origini),. (4) Secondo la «teoria della diseguaglianza)) formulata dai teorici della prassi esecutiva barocca, due note di egual durata possono essere eseguite in modo diseguale, appunto allungan- do la prima e accorciando la seconda. Lo stesso Bach, per portare a una maggiore corrispondenza parte scritta e parte eseguita, in taluni casi aveva «sostituito)) le coppie di crome con figure «croma con punto semicroma)'. Era però una semplificazione chiara per lui ma non per altri, tanto che, a scanso di equivoci, i moderni revisori (è il caso del quinto Concerto brandeburghese, per esempio nella partitura della Editio Musica Budapest) raccomandano che anche la figura «croma con punto -semicroma)) vada letta come se si trattasse di una terzina composta da croma e semicroma. Lo stesso problema si è proposto anche in ambito jazzistico: non solo in termini esecutivi (lo si è visto con Kid Ory in Muskrat Ramble), ma anche in sede di trascrizione, con il tentativo vano e dannoso di rendere le «notes inegales)) dello swing indicando appunto la figura «croma con punto -semicroma) . (5) Andre Hodeir, op. cit. (6) Giorgio Gaslini, Tecnica e arte del jazz, Ricordi. Capitolo Il della Parte 1, «Ritmo espresso e ritmo sottinteso)).
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