Samadhi, l’ultima silloge di Franca Alaimo, offre una poesia bella ma tenera, reale ma velata e intrecciata da ombre di delicati pudori. (Bastogi editrice, Foggia 2000)  

Samadhi è l’ultima opera poetica di Franca Alaimo, composta dall’omonimo poemetto di 434 versi e dalla vibrante silloge “Casa di carta”. Accompagna il lettore nell’arduo percorso poetico Maria Grazia Lenisa con una sua attenta e materna analisi critica, mentre Ester Monachino ne espone un vigile giudizio nella sua postfazione. La poesia di Alaimo non è mai spontanea nel senso retorico. Ella ha nel suo magma produttivo una poesia forte, ‘mascolina’, lungi da molte sue colleghe che producono una poesia bella ma tenera, reale ma velata e ambigua o intrecciata da ombre di delicati pudori o relegata dalle volte ad una polla di oscuro ermetismo. La sua è una poesia che si presenta cruda al lettore col suo immediato carico di sentimenti, visioni ed idee. Bisogna essere abili lettori di poesia per poter assaporare appieno la poesia-poetica di Alaimo senza rimanere appiccicati nei tanti labirinti poetici che possono deviare dal senso logico o venir risucchiati dai suoi ben costruiti buchi neri d’aulica espressività. L’autrice ama la metafora audace e violenta, tagliente e mordace, «la parola che salta dal verso», come diceva Pascoli nel suo “Fanciullino”. Il verso di Franca lo troviamo sempre ricco di immagini e di simboli che richiamano episodi che vanno dal classico al biblico, dal nostro vicino passato all’immediato presente. Alaimo ricama leggi nell’arte della parola che rinnova di volta in volta, mentre il verso è musicato dai ritmi cangianti dell’anima. «Samadhi rappresenta un punto d’incontro tra la poesia orientale e quella occidentale e vede la luce in un regno naturale e privilegiato... la sua è una condizione di ascolto, alterati i sensi e gli ultra sensi» dalla prefazione di M.G. Lenisa. Da molti anni, infatti, Alaimo si è avvicinata alla cultura orientale e in particolare alla filosofia Zen. Non che abbia voglia di rinnegare o tradire la propria struttura socio-culturale-religiosa, ma avverte un puro bisogno, quasi fisiologico, di allargare la veduta del mondo e della vita. Una sana curio-sità di poeta la spinge a conoscere frutti e lumi e verità di altre culture, lontane da noi o che sono in parallelo alla nostra. «La verità vi farà liberi» ci insegnò il più grande maestro di tutti i tempi. E la verità è frutto dello spirito che nell’intelletto trova il luogo di espansione. Samadhi non è un neologismo, neanche un nome di un fiore o di un particolare giardino di cui l’autrice sembra stare al centro con una sua attenta visione. Nella filosofia Zen il ‘samadhi’ è una disciplina di meditazione, la quale sta alla base di tutta la dottrina stessa, ed ha diversi stadi o livelli di conoscenza, nel lungo viaggio della crescita spirituale. Il ‘samadhi’ è un punto d’approdo con sé nella propria anima nel proprio mondo sensoriale ed emotivo per poi arrivare nei luoghi profondi dello spirito. Discorsi troppo difficili per noi occidentali troppo ancorati alle leggi della fisica della materia e della ragione. L’autrice fa esperienza del ‘samadhi’ stando nel suo giardino, lasciandosi coinvolgere da ogni richiamo che da esso proviene e così foglie, fiori, profumi, colori, alberi, erbe, uccelli prendono forma in un unico respiro nella sua anima. «E venne il tempo in cui trovai la chiave nel tessuto viola delle campanule e con lei varcai lo spazio sacro / contemplante e contemplata» (pag. 25). Qual è lo spazio sacro di cui l’autrice espone se non il magnifico dono della meditazione, dove l’Io si fonde nell’armonia del creato? La sua è una condizione di ascolto dicevamo prima, ascolto di sé e di tutto ciò che la circonda. Franca Alaimo cerca di mutare in poesia quello che dal suo mondo spirituale avverte, e quando non ci riesce avverte il peso del limite che si fa dolore, tristezza: «Ho dentro il mare: come lo verserò? Ho dentro il sapore del mondo:  come lo scriverò?» (pag. 22). Oppure «perché la mia mano scrive / di ciò che ancora / non ha raggiunto. / E anche se dessi il nome ad ogni canto, / resterebbe enigmatico l’evento, / né saprei più se si celebri / la gioia o l’affanno» (pag. 18). Questi versi così umili e genuflessi al mistero della poesia rimarranno sempre tali per l’autrice e così anche per tutti i poeti. Nessun filosofo, psicologo o altro sa il perché si scrivono poesie o da quale mare misterioso ci vengono a trovare. E perché ci viene cosi impossibile ignorarle o farle morire dentro, non scrivendole.

Giovanni Dino