L’attualità del linguaggio poetico nella poesia crepuscolare di Angelo Messina: Verso Sera (Montedit, Milano 1997)                             

«E cenavamo tranquilli / senza guardare lontano» sono due versi della lirica che apre e dà il titolo alla silloge di Angelo Messina. Ma perché proprio questi e non altri per iniziare a parlare dell’opera del Poeta siciliano? Forse perché in essi è racchiuso quel mite e profondo senso di quiete che accompagna l’intera raccolta, forse perché nella memoria c’è ancora il ricordo di quelle limpide sere, forse perché gli sguardi di oggi guardano tanto, troppo lontano. Pascoli diceva, e la citazione è d’obbligo nel caso del Nostro, «Tu non fai se non scoprire il nuovo nel vecchio», rivolgendosi al fanciullino che vive in ognuno di noi: il nuovo nel vecchio, lo straordinario nel quotidiano, l’essenziale nell’insignificante. Bene fa Maria Organtini, nell’ap-propriata introduzione, a evidenziare il parallelismo tra i due autori. Dice la prefatrice: «È una poetica crepuscolare, velata di malinconia dove, seguendo l’impronta del Pascoli, ed egli non ne fa mistero, indugia immerso nella natura come per respirare ossigeno» senza nulla togliere, anzi conferendo il giusto merito al dettato di Messina.

Ma gli echi del tanto bistrattato decadentismo non ci consegnano un Poeta preso nel vortice della malinconia, della nostalgia del passato, al contrario ce lo svelano in tutta la sua modernità: «Tu sei del mondo, non sei d’ora ma di sempre”, proseguiva Pascoli nell’immaginario colloquio con la parte più pura di sé. Eccola, allora, l’attualità del linguaggio poetico: il superamento delle cose morte, sedimentate, attraverso una specie di “connivenza” con la morte stessa, nel tentativo di restituire loro la vita. E come non notarla questa necessità nei versi di Angelo Messina, in “21 Marzo”: «Erano gli anni ricchi di speranza / dai cieli azzurri e dai tramonti rossi / quando tu mamma carezzavi un sogno... / Or sei lontana, dormi e più non odi / dal campanile dell’antica chiesa / il rintocco di un’altra primavera», nel pianto che ci unisce alla morte di un amico (“Foglie”): «Non c’è più tempo / di piangere chi muore», nella calma quasi sospesa di “Ancora Autunno”: «Lento / è questo volger del tempo alle stagioni / lento / questo cader del giorno alla sua sera / al rosseggiar dei pampini in collina / nelle belle ottobrate siciliane». E si potrebbe andare avanti, riportare le note della disillusione: «Davanti al video un bimbo / affascinato segue / la festa dei colori... / Non splende più la stella / sul povero Presepe» (“Natale 1994”), ma c’è sempre l’altra possibilità (“L’incanto”), la gioia di quegli «orizzonti di luce», di quei «misteriosi tramonti».

Sandro Angelucci