La scomparsa (terza classificata al concorso Il Convivio 2001)
di Nadia Genovese
 
Non è né inverno né estate. Non è manco autunno e non so dire se è primavera. Conosco solo la data: il giorno, il mese e l’anno. Posso anche determinare l’ora: ho l’orologio attaccato al polso destro. No, non sono mancino, ma preferisco tenerlo lì perché così posso cronometrarmi in tutto ciò che faccio senza dover perdere tempo a voltare la testa. Conviene risparmiare il tempo, lì dove è possibile. Il tempo è denaro. Della vita non sappiamo altro che è una clessidra con della sabbia che scende e nessuno sa quanta ce n’è. Ho imparato a sfruttare ogni secondo, a riempire la mia vita di azioni. Mi dicono che sono frenetico, che sto dovunque, sempre. Mi dicono che se non mi fermo, uno di questi giorni perderò la ragione e mi verrà una crisi. Io non ci credo e terrò sempre stretto l’orologio della mia vita. Non lo mollerò finché non sarà qualcuno dell’altro mondo a comandarmi di mollare la presa… chiunque lui sia. Posso dire qual è la pressione in questo istante: il mio orologio ha mille opzioni. Il tempo è bello come sempre. C’è il sole e la solita nuvola nel cielo che sembra non avere altra funzione che quella di rompere la continuità dell’azzurro. Non cambia mai nulla. Il cielo è fisso come sono le stelle di notte. Qualche volta piove, ma solo ogni tanto per ricordare che in verità ciò che ci sovrasta non è fisso ma si muove. “Billie? Vieni, che è tardi!”
Eccolo lì che arriva trotterellando sulle gambe corte. Dopo tanti anni ancora rido nel vederlo muoversi. È troppo buffo. Le piccole zampe sorreggono un corpo tozzo e lungo. La pancia sembra incurvarsi con la schiena per il peso e striscia a terra infangandosi e portando appresso frasche, rami e ogni genere di schifezze che poi dovrò togliere.
“Eccoti qui!” esclamo osservando gli occhi lucidi del mio bassotto che mi guarda dal basso come un uomo guarderebbe una montagna.
“Ah, ah!” rido. Lo prendo di peso dalle zampe e lo tengo stretto tra le braccia.
 “Anche oggi vuoi portare a casa un po’ di roba?” gli dico liberandolo dalle foglie secche. Il cane scodinzola e mi lecca una guancia.
“E smettila! Lo sai che non devi leccarmi il viso!” protesto tirando indietro la testa, ma il cane avanza per continuare. Lo rimetto giù a terra. Dopo nove anni ancora non ha imparato o forse ha avuto un cattivo padrone, cioè io. Sono stato io a portarlo a casa nove anni fa. Mi domando ancora perché tra i tutti i cuccioli nelle gabbie del canile ho scelto proprio lui. Non ero io quello con la passione per i pastori tedeschi e i boxer? Non ero io quello che si era ripromesso di farsi un cane enorme? Eppure a casa avevo portato Billie, un cucciolo di bassotto. Era stato Billie a scegliere me con quelle due perle nere che aveva al posto degli occhi. Amavo il mio cane, no, lo adoravo. Da qualche anno, però, i suoi occhi avevano cambiato colore e si erano fatti grigi. La sua allegria rimaneva accesa per poco e i suoi movimenti erano lenti. C’era fatica in ogni suo gesto e se non fosse stato  per le passeggiate, se ne sarebbe stato tutto il giorno in camera mia ad oziare. Solo la sua coda era in continuo movimento e a metterla in moto era la mia presenza. Bastava che mi avvicinassi a lui che la sua coda si metteva a oscillare di moto perpetuo.
“Billie?” Mi accorgo che il mio cane non è accucciato ai miei piedi.
“Billie è tardi, devo andare all’università!”.
Sento i campanelli del collare ma non vedo  il cane.
“Billie…” lo chiamo cercando intorno con gli occhi. Incomincio a preoccuparmi, non lo vedo da nessuna parte.
“Billie, Billie… andiamo a casa. Su vieni… ora!”. Sento un abbaiare lontano e mi giro verso il suono. Niente. Sono preoccupato: quando lo chiamo, Billie accorre subito e si accuccia ai miei piedi. Non si allontana mai per non dover poi camminare troppo per raggiungermi. “Dove accidenti ti sei cacciato!” Incomincio a correre per tutta l’area soffermandomi per guardare sotto i cespugli e dietro gli alberi. Niente. Una leggera brezza fa oscillare l’erba e solleva la polvere del terreno asciutto. Il mio cane non c’è più.
***
“Come mai hai fatto tardi?”
“Aspetta un attimo.” Sussurro sedendomi accanto al mio amico.
“Grazie per avermi occupato il posto” gli dico posando lo zaino. Esco, senza far rumore, la penna e il quaderno degli appunti. La lezione è incominciata da venti minuti e le quattro lavagne sono state già scarabocchiate dalla professoressa.
“Certo che oggi ce n’è di gente!” noto facendo un giro dell’anfiteatro con lo sguardo.
“È sempre così quando gli esami si avvicinano. La gente incomincia a frequentare. E allora, com’è che hai fatto tardi? Sei rimasto a secco col motorino?”.
“No...” gli faccio io oscurandomi in volto.
“Stamattina Billie è scomparso.”
“Chi è? Il tuo cane? Mi dispiace”.
“L’ho portato come al solito a fare una passeggiata e all’improvviso  non c’era più.”
“Vedrai che s’è fatto un giro e te lo ritrovi quando torni.”
“Non è da lui” scuoto la testa con lo sguardo al pavimento.
“Se c’è da camminare poco, lui è più contento”.
“Shhhh!!”
“Ma vaff…” mi fermo e mi correggo “..a quel paese!”
La prof. si è fermata e guarda in lato. Forse mi ha sentito, forse no. Ricomincia a scrivere. Non sopporto le sue lezioni. Scrive per tutta l’ora e quello che dice è quello che scrive e quello che scrive è quello che c’è sul libro. Niente di più e niente di meno. Sembra un robot. Come quelli che nel futuro la sostituiranno nell’insegnamento. Mi chiedo se si rende almeno conto di quello che scrive o se imbratta meccanicamente la lavagna con le parole di quel libro che, dopo anni di insegnamento, ha ormai imparato a memoria. Butto giù disordinatamente tutto ciò che vedo. La sento cancellare. Sollevo gli occhi per scoprire se ha impresso sullo sfondo nero altri geroglifici bianchi. Si, c’è una nuova espressione che io ricopio come un ebete senza cercare di comprenderne il significato. Lo farò solo quando l’esame sarà vicino e mi metterò a studiare. Rialzo lo sguardo.
“Ma dove è andata?” Mi giro verso il mio amico. Lui non mi risponde e continua a scrivere. Punto gli occhi alla porta per vedere se è aperta e se la prof. è uscita. La porta è chiusa. Guardo in avanti e scopro che due delle lavagne sono state cancellate.
“O è colpa di Billie o sono stupido io” sussurro tra me.
“Ma dove è andata?” Il mio amico sta guardando la cattedra col volto appoggiato tra le mani.
“Mi dici dove è andata la prof.?” torno a ripetere dandogli una leggera spinta.
 “Dove è andata chi?” mi domanda lui.
“Dove è and…” incomincio io ma m’interrompo. L’aula è vuota. Non c’è più nessuno all’infuori di noi due.
“Allora che c’è?”
“Finita?” mi domando con una smorfia. Sarà colpa di Billie. Non c’è nessuno nell’aula e le quattro lavagne sono state ripulite. La  prof. se n’è andata. Chissà perché non mi sono accorto di nulla. Devo smettere  di pensare a Billie.
“Andiamo” dico alzandomi in piedi.
“No, io resto fino alla fine” mi fa lui e incomincia a scrivere.
“Come?!” chiedo sbalordito.
“Se vuoi a fine lezione ti presto gli appunti”.
 
***
Cammino verso casa trascinando con me il motorino. Sono rimasto a secco, eppure io mi ricordo di aver fatto il pieno qualche giorno fa. Penso a Billie, spero di trovarlo a casa. Penso alla lezione e al mio amico che è voluto restare da solo nell’aula. Cosa voleva dire con quel suo “resto fino alla fine?”, fino alla fine di che? Tutti i benzinai sono chiusi. Forse c’è un nuovo sciopero del personale per caro benzina e le macchine che si fermano probabilmente stanno usando il self-service. Io sono stato così furbo da dimenticarmi il portafoglio a casa… o almeno spero che sia così o vorrà dire che me lo hanno rubato all’università. Scuoto la testa. Oggi sono venuto all’università per seguire una lezione che è durata solo cinque minuti. Sarei potuto rimanere a casa per cercare Billie e invece eccomi qui a fare la figura dello stupido mentre trascino questo cavolo di motorino! Non c’è nessuno a casa. Mia madre sarà uscita per andare a fare la spesa e ha spento il cellulare. Mi fa rabbia quando lo spegne e non si accorge di averlo spento. Glielo abbiamo regalato tre mesi fa e ancora non ha capito come funziona. Lo usa solo per chiamare mia sorella quando esce per scoprire dove sta, con chi sta, quando torna e con chi torna. Mio padre non è in ufficio. Il suo segretario mi ha lasciato ad attendere in linea: avrò ascoltato la strofa di ‘Yesterday’ dei Beatles una decina di volte prima di riattaccare. Spero di arrivare a casa almeno per pranzo. Sento il clacson di una macchina. Mi giro di scatto e capisco che ce l’ha con me perché sto in mezzo alla strada.
“Ma vuoi toglierti di mezzo, imbecille!”. Mi scanso senza rispondere. In altre circostanze sarebbero seguite imprecazioni e parolacce, ma oggi lascio correre. I miei pensieri tornano, tornano a Billie. E se a casa non c’è? Che faccio allora? Mi vedo in camera da letto intento allo studio con Billie accucciato sulla sedia accanto. Sento addosso il suo sguardo grigio e percepisco le vibrazioni prodotte dal suo scodinzolare. Eccomi che mi alzo e lo caccio dalla stanza perché con lui non riesco a studiare. Eccomi che mi siedo rattristato dall’averlo cacciato e con il senso di colpa dato dalla consapevolezza che il cane attende dietro la porta e attenderà fino a quando non mi deciderò di farlo entrare. Billie vive solo per vedermi. Come un neonato che svegliandosi dal sonno piange se non percepisce la presenza della madre, così pure Billie non può stare senza di me. Non mi sono mai accorto che neanch’io posso stare senza lui. Le strade del centro sono affollate. I negozi sono aperti e, anche se la stagione dei grandi saldi è terminata da un paio di settimane, la gente continua a svuotare gli scaffali come se fossero quelli dei negozi di alimentari. Chissà perché è nata questa fame per le compere. Chissà quando è nata e chi ne è stato l’inventore. Per molti, il comprare ha la stessa funzione della cioccolata: è un’aspirina contro le malattie della depressione. Io lo vedo non come una medicina, ma come una dose di eroina che porterà a voler sempre di più, sempre di più. Le persone che scanso sorridono. È buffo vedere un ragazzo che passeggia per le strade del centro assieme al suo motorino. Lo so, ma per me non è buffo ma tragico, e loro accrescono il mio imbarazzo e la mia rabbia. Io ricordo bene di aver fatto il pieno! Forse c’è una perdita nel serbatoio. Controllerò a casa. Oggi non è giornata. Guardo l’orologio. No, oggi non è proprio giornata. Giro l’angolo: mi tocca attraversare un’altra strada di negozi e poi incontrerò le prime villette del mio quartiere. Devo attraversare l’incrocio. I semafori sono spenti e ci sono poche macchine. Il vigile, che di solito si piazza sulla pedana in mezzo, oggi non c’è. Sorrido al pensiero della multa che ho ricevuto la settimana scorsa proprio qui in questo incrocio. ‘Guida pericolosa e passaggio col rosso’. Ma se vado a zigzag tra le macchine, è perché non voglio rimanere incastrato nel traffico! Se non si può fare, che mi sono fatto il motorino a fare? Tanto vale a questo punto prendere la macchina. Oggi sarei multato per eccesso di lentezza. Sento un fischio e mi giro verso la pedana. No, il vigile oggi non c’è… penso. I negozi sono aperti ma gli scaffali sono vuoti. Vuoti! Mi arresto allibito per osservare meglio dentro le vetrine. Si, i negozi sono tutti vuoti, ma la gente contenta esce con buste colorate come se avesse appena comprato qualcosa. Scuoto la testa. Sarà il pensiero di Billie e che oggi non è giornata. Proseguo in avanti cercando di ignorare gli strani pensieri che stanno intrecciando nella mia mente. C’è qualcosa che non va… qualcosa non quadra. La mia curiosità mi spinge a guardare nuovamente dentro le vetrine dei negozi. Come mi aspettavo, gli scaffali sono vuoti, anzi non ci sono proprio! E i commessi? E tutta la gente che prima usciva ed entrava? Dove sono andati a finire tutti quanti? Basta che per un attimo mi perdo nei pensieri che cambiano il mondo. Mi arresto e mi guardo intorno. La strada è vuota. Io e il mio motorino siamo gli unici ad esserci. Ma cosa sta accadendo? Guardo verso le insegne pubblicitarie: sono bianche. Guardo le insegne stradali: sono bianche. Qualcosa non quadra e Billie non c’entra affatto. Impugno bene il manubrio del motorino e accelero il passo: voglio tornare a casa prima possibile.
***
Ecco, sono quasi arrivato, ancora pochi passi e sono a casa. Ancora pochi metri e scorgerò la sagoma nascosta dietro quel gruppo di querce. Ecco che… All’improvviso mi irrigidisco. Il motorino casca a terra con un tonfo e uno specchietto prende il volo e va a frantumarsi sul marciapiede. Incomincio a tremare. Non c’è… Come non c’è?!! Mollo tutto e corro. Oltrepasso gli alberi. Il mio respiro è veloce e i miei occhi sono sbarrati. Non c’è… Due ville, una destra e una a sinistra, manca quella centrale, manca casa mia. Chiudo e apro gli occhi. Davanti a me c’è la terra che prima ricopriva. Come è possibile che una villa scompaia? Insomma, non può essere sollevata o rimossa come una pianta! Cado in ginocchio e affondo il volto tra le mani per piangere. All’improvviso una sirena si mette a suonare e il cielo si fa scuro. Qualcuno ha acceso un grande riflettore e ora mi trovo all’interno del suo cerchio di luce. Guardo in alto accecato e confuso. Non sento solo la sirena ma anche il rombo del motore di un aereo che si sta avvicinando. Sento un’esplosione. Che cosa sta accadendo? Rimango in ginocchio. L’aereo si avvicina. Una nuova esplosione. Sembra un temporale che si sposta lanciando saette lungo il tragitto. Sembra un carro armato che spara ad ogni metro. E il carro armato punta verso di me. Il rombo del motore si fa più forte e le esplosioni sono precedute da acuti fischi dell’aria tagliata. Il rumore ora è così forte che mi sento scoppiare i timpani. Guardo in alto ma non riesco a distinguere tra luce e buio. Vorrei scappare ma c’è qualcosa che mi trattiene e impedisce ogni mio movimento. Vorrei pensare ma non posso più fare neanche quello. L’aereo è sopra di me. Manca poco e un fulmine verrà scagliato. Il temporale mi sta sopra: ha sganciato la sua bomba. Attendo l’esplosione.
***
 “Ha aperto gli occhi!” Mi alzo dritto sul busto con un grido.
“Calma, calma. Va tutto bene… ora stai al sicuro.”
Qualcuno mi aiuta a sdraiarmi sui cuscini bianchi del letto. Sollevo una mano per toccare la testa fasciata. Che cosa sono tutti i tubi che perdono dal mio braccio?
“Dottore, il paziente ha ripreso coscienza”. Dottore? Mi guardo in giro. La stanza è bianca come i letti che la riempiono e le uniformi delle persone che ora mi guardano e armeggiano con le macchine ai quali sono collegati i fili appiccicati sulla mia pelle.
“Va tutto bene, ora” mi sorride un’infermiera fissando i miei occhi spauriti.
“Non agitarti.” La vedo prendere una siringa e una boccetta. Mi inietta una dose del contenuto. Immediatamente ho sonno. Un senso di pace acquieta tutti i miei sensi e mi lascio andare. Il fluido che ora scorre nelle mie vene ha il pieno controllo. Il volto dell’infermiera si fa sfocato e la sua voce diventa un’eco lontana. Dei passi si arrestano accanto al mio letto e una voce maschile si mette a parlare.
“Come stai?”
“Aveva ripreso i sensi, ma poi…”
“Capisco. Cosa gli ha detto?”
 “Niente… ma non credo che si ricordi nulla. Non sa neanche come si chiama… Non gli ho detto che..”
“Deve saperlo. Ha il diritto di sapere. Avrebbe dovuto dirglielo prima di…”
“Ma non crede, dottore, che in casi come questo ciò potrebbe peggiorare la situazione? Non credo che neanche sappia che è scoppiata la…”
 “Il paziente ha il diritto di sapere e se non lo farà lei incaricherò qualcun altro.”
“Se permette, dottore, vorrei chiedere chi è sopravvissuto.”
“Tutto il quartiere è andato distrutto. Solo lui. La bomba ha centrato la c… Tutti morti”.
“Tutti… E come è riuscito a sopravvivere?”.
“Non è detto che ci riesca”.