Amari esìli: racconti di Gabriella Maleti 

Ci troviamo di fronte ad una scrittura dolorosamente violenta, che, destinata a trarre fuori il groviglio amaro di molte vite, travolge perfino, in qualche racconto, se stessa, giungendo ad esiti surreali e sconcertanti nel raccontare improbabili, quanto realistiche metamorfosi di personaggi in animali quali loro anime autentiche. Così la vecchia Argìa che si trasforma in un uccello, troppo grande ormai per l’angustia del suo spazio abituale, o Giosuè, divenuto maiale, per sottolinearne l’identità con gli animali che trasporta ormai da anni al macello, già lui stesso macellato per troppo tempo dagli insulti e dalle cattiverie della madre. Le relazioni indagate in queste storie riguardano, soprattutto, quelle tra i genitori e figli, o tra marito e moglie, tutte fallimentari per indifferente avarizia o spreco malvagio delle parole.

Mi sembra, infatti, che l’autentica protagonista di questo testo della Maleti sia proprio la parola, e non è un caso che uno dei testi l’assumi come titolo; è interessante, infatti, come tutti i dolori ed i disagi e le ossessioni dei numerosi personaggi siano causati, più che da fatti concreti, dalla forza tagliente e devastante delle parole che fra loro intercorrono. In questo racconto c’è una frase che l’insegnante tenta di fare ripetere alla quarantaduenne allieva balbuziente: «Dalla notte della non parola alla notte della parola», nella quale mi pare di ravvisare la chiave interpretativa del testo. Come dire che ogni vita si muove tra il silenzio, voluto od imposto che mortifica l’io più autentico, e l’ipocrisia e la finzione verbale che lo chiudono e lo deformano. La parola, che dovrebbe essere comunione di sentimenti, che dovrebbe rendere manifesto il pensiero, diventa, invece, solo uno strumento oscuro e perverso, o, come meglio dice la Maleti, “angoscia terrena”.

In contrasto alla parola quotidiana, spesa all’interno della scuola per eccellenza del linguaggio che è la famiglia, suo “amaro asilo”, si colloca la parola poetica come quella che ne custodisce il senso più pieno e la funzione comunicativa e perfino consolatoria; tant’è vero che Davide, protagonista del racconto omonimo, ripete a se stesso, tra lo strazio e la paura della sua diversità fisica, versi di Pascoli e Moretti per attingere la forza di ritornare a casa e persino l’illusione di un amore materno che non esi-ste se non all’interno della nenia dei metri e delle rime, che fanno ordine là dove c’è disordine, creano armonia là dove c’è disarmonia. È questo un punto di vista direi “interno” all’attività stessa della Maleti, che ha il privilegio di condurre sulla lingua la sua duplice ricerca di prosatrice e poeta. Benché il libro appaia una sorta d’inferno terreno, in verità il linguaggio va, poco a poco, alleggerendosi, assumendo toni lirici e commossi nell’ultima storia “Il tiglio”, che vede come protagonista una tenera bambina di nome Giulia, amata dai genitori, ma sconvolta dal mistero del sesso, che, per scacciare i suoi incubi, dialoga con un tiglio, recuperando il suo spazio interiore di fantasia e la castità del pensiero. Sono i bambini come Giulia, Tommaso, Eugenia e Davide che lottano per difendere se stessi dal mondo degli adulti, ad indicare possibili vie di salvezza ed accendere brevi luci all’interno di un mondo in cui tutti sembrano impegnati ad insegnare il linguaggio come assurda mappa di navigazione “dalla notte della non parola alla notte della parola”.

Franca Alaimo