«Era
un raccontare d’altri, quello che, ora, mi coinvolgeva: era il
narrare, lieve, di una dolce voce femminile di un’età al di fuori
del tempo e io quei fatti narrati li vivevo». In questa frase, tratta
dalla presentazione di Placido Petino al suo primo romanzo, La
terra della malerba, credo che si possano individuare le idee
chiave: la narrazione soggettiva-oggettiva, il tempo quale
contingen-za, l’introspezione psicologica. Tutte le opere di Petino
tengono fede a questi tre principi fondamentali a partire da La
terra della malerba, romanzo che trae spunto dall’atto di
arroganza del Barone Giaculli, il quale per un “subitaneo rimescolio
dei sensi” aveva fatto violenza ad una donna che darà alla luce
Giovannino Barone, “il padre del nonno del nonno mio”, dice quasi
con un linguaggio formulare la narratrice. L’appiglio alla realtà
storica e sociale del Settecento, in una Sicilia spagnolesca, fanatica
e violenta ma che ha visto una rinascita economica e uno sviluppo
urbanistico, vuole dare l’impressione di una narrazione obiettiva,
quando in effetti è il soggettivismo della narratrice a predominare.
I fatti e i personaggi sono presentati secondo la sua visione. Il
romanzo però evidenzia la dissoluzione della società
piccolo-borghese, nella quale aspetti religiosi e socio-economici
vanno di pari passo. Emblematico in tal senso è Vincenzo Maltese, il
priore del convento, presen-tato nei suoi più profondi risvolti
psicologici, nel quale fede, amore e potere si fondono. Ma egli è
solo vittima di una società che lo costringe a indossare il saio per
non frammentare l’eredità, così come era avvenuto alla monaca di
Monza, e non ha la possibilità di riscattarsi perché la Santa
Inquisizione, il Tribunale “tristo” del Santo Uffizio, lo condanna
senza appello. Si, Vincenzo Maltese aveva nutrito amore per
Mariannina, amore che gli aveva fatto amare i deboli e gli innocenti e
soprattutto quei bambini “inlegittimi” che avrebbe voluto salvare
dal cerchio delle Madri Sante, le quali preferivano cancellare il
peccato con un altro peccato: la morte. Le Madri Sante sembrano
trionfare, il Tribunale sembra fare giustizia, ma la vera vincitrice
è la sensibilità umana. Se Mariannina viene condannata a morte, non
ne capisce il perché. Lei non amava una vita di finzioni e
d’inganni: «La scelta per la vita della religione deve nascere solo
dall’amore del cuore li-bero di ognuno e non dalla bramosia verso le
alte cariche». Il peccato per Mariannina è solo frutto della
debolezza umana, invece per le Madri Sante «ogni momento di felicità
poteva celare la lussuria, l’egoismo, il peccato». Bene e male
scandiscono quasi il tempo e chi fosse incappato nel «rogiu
(orologio) di lu Sant’Uffiziu» non avrebbe più conosciuto «l’ora
della libertà, ma solo le strazianti e scandite ore dei tratti di
corda». La terra della malerba
non è però un romanzo-saggio come La morte dell’Inquisitore di Leonardo Sciascia. Il romanzo del
Petino non vuole delineare solo un’epoca storica, ma vuole penetrare
l’animo dei suoi personaggi senza scadere in interventi morali. I
riferimenti all’Inquisizione sono pretestuosi, il vero oggetto della
sua narrazione è lo scandaglio interiore, è la volontà di
evidenziare la miseria e la sottomissione al potere costi-tuito,
religioso o politico non importa, del popolo siciliano. «Tutti
nasciamo angeli e sacrilegio grave, perverso intento del maligno, è
uccidere gli angeli». In effetti Petino sembra seguire il pensiero
del Manzoni, andando «dalla rappre-sentazione la più vicina al vero
di quel misto di grande e di meschino, di ragionevole e di pazzo che
si vede negli avvenimenti grandi e piccioli di questo mondo: e questo
interesse tiene ad una parte importante ed eterna dell’animo umano,
il desiderio di conoscere quello che è realmente, e di vedere più
che si può in noi e nel nostro destino su questa terra» si legge in
una lettera del 7 febbraio 1820 a Gaetano Giudici. Sulla stessa scia corre L’anno del diavolo, romanzo pubblicato nel 1999. Il tema è sempre la sottomissione degli umili visti attraverso la memoria del narratore, in un’aura di mistero e di ricerca interiore. Qui non è più la Sicilia spagnolesca e violenta ad essere presa in considerazione, ma la Sicilia dell’Ottocento, poco prima dell’unità d’Italia, afflitta dal brigantaggio e dai Borboni. Emblematico in tal senso è il riferimento ai re di Napoli: «Ai picciotti non gliene interessava niente dell’Italia e di Vittorio Ema-nuele. La gente era solo stanca di tutta quella polizia dei Borboni… Mezza Isola in carcere e all’esilio la polizia dei Borboni aveva mandato. E tanti siciliani, dalla lontananza, erano venuti appresso a Garibaldi solo per vendicarsi di quelle ‘soperchierie’ ricevute» (p. 140). L’anno del Diavolo può essere definito romanzo sociale e psicologico con una inconfondibile patina di sicilianità, come d’altronde tutta l’opera del Petino. Il centro dell’attenzione è fissato su Mommu Brunu, il capo dei briganti: «Era il suo un triste rincorrere i giorni senz’attesa di nulla, senza un futuro in mente, senza un vago disegno di speranza». Ma se Mommu è cattivo, lo è perché gli uomini l’hanno fatto diventare tale: l’abate del convento aveva sfruttato la sua famiglia ed egli stesso aveva dovuto sperimentare il duro lavoro della miniera. La vita dei briganti non ha nulla di romantico, essa sembra insensata e anarchica, ma manifesta un malessere sociale presentato senza moralismi o affettazione partigiana. Il punto focale del romanzo è certo il bosco con i suoi misteri, orrori, cattiverie, tradimenti. Esso accoglie i personaggi che agiscono quasi come marionette, vittime di un destino cui è difficile sottrarsi. Infatti quando Mommu Brunu muore, il suo spirito continua a seminare orrore, quasi fosse diventato l’anima del bosco, o meglio il diavolo che scatena le paure degli uomini. In questo contesto si pongono personaggi come Maritana, la violentata del demonio, strega nello stesso tempo e donna, o il Segretista, che cerca di scacciare il male: spiritismo e suggestione scatenano paure profonde che gli uomini cercano di esorcizzare. Ma dietro tutto stanno le cave di zolfo, la miseria umana, il duro lavoro degli uomini, la solitudine. «Tutta la vita si è soli a cercare se stessi – scrive Petino. – È un treno che corre veloce dall’alba al tramonto. Poi è notte: un binario scordato, fra ruggine e sterpi». Se i briganti sono simbolo della cattiveria, non meno perfido si mostra Gabriele, quasi perfetto “principe”, per dirla con Machiavelli. Per lui il fine giustifica i mezzi. Egli si mostra “golpe e lione” nello stesso tempo, prevaricando sui seguaci di Mommu, sulla legge, sui contadini. |