La stagione degli eucalipti
di Placido Petino

Un raggio di luna posava leggero sul basso muretto sbrecciato. Un magico tratto d’irragionevole strada della periferia di Monteverde. Di poco usciti dal piccolo paese si biforcava dalla larga via che, dopo diversi chilometri di aspri tornanti, conduceva sulle balze più alte del vulcano.

Una traversa fuori mano. Breve e ripida si addentrava nella campagna dalla terra nera, segnata dalle viti o dai cespugli della ginestra. Dopo qualche centinaio di metri fi­ni­va quasi d’improvviso, confondendosi con essa. Un muretto da un lato di essa. Lì, seduto con Dario, il figlio piccolo, Antonio, sette anni. Le sue gambette non toccavano terra.

Dalla parte opposta, una fitta barriera di eucalipti. Era di molto sopraelevata rispetto alla strada. Sovrastava un alto muro che frenava una delle tante terrazze collinari. Misto alle cangianti fragranze della campagna assopita, un profumo balsamico si spandeva da essi per l’aria tiepida e ferma. Un’accogliente coltre odorosa e scura era la sera, a malapena interrotta dal sonnolento sfavillio di radi lampioni. Solo a tratti un armonico frinire di grilli scandiva un tempo immobile. Sembrava modulare delicati confini di silenzio.

Bella, nera e deliziosa cagnolina, tanti riccioli davanti agli occhi vispi e un affascinante musetto. Si sollevò indolente. Il rituale strofinio sulle gambe dell’ammirato, piccolo amico per diuturni e interminabili svaghi. Cercò di scuotersi d’intorno i cuccioli. Più per conforto, che per fame, trotterellavano sotto di lei. Non si rassegnavano alla perdita della sicurezza dei capezzoli materni: ultima illusione di un cordone ombelicale ormai reciso. Lo dimostrava il fastidio ringhioso di Bella. Vinta, infine, dagli assalti dei cuccioli si riaccucciò con un sospiro di rassegnazione.

Attorno a lei Bianco, il vil coyote, il vecchio bassotto ed altri venuti da poco. Alcuni erano stati abbandonati durante le ferie estive degli scorsi anni. Altri  erano sfuggiti a lacci, corde e catene. Sul corpo segni di lotte e di percosse.

Attendevano che ci si movesse dal muretto per procedere, tutt’insieme, lungo la salita che costeggiava il retro della villa. Li aspettava il pasto serale.

Con gli sguardi rivolti all’estasi di quella sera di agosto poche frasi fra Dario e il piccolo Antonio. Sognavano la realizzazione di un rifugio dove accogliere tutti i cani abbandonati ed altri animali.

Il piccolo aveva approntato un disegno, un progetto pieno di fantasia e ne parlava con il padre per i tanti, minimi e preziosi, dettagli necessari. Bisognava procurarsi un terreno e questo era il maggiore ostacolo. I debiti per la casa acquistata da poco in città erano ancora tanti. Ma sognare non faceva male. Era così bello e facile liberare la fantasia in quelle profumate e tiepide sere, trapunte di stelle.

Quell’estate sembrava non dovesse finire mai. Eppure sarebbero arrivate le grigie giornate di ottobre e il rientro al rituale lavoro. Il pensiero del ritorno era una sorta di spina nel cuore.

Bella era stata la prima, dopo la misteriosa scomparsa di Black e Lupo. Dario l’aveva vista vagare con atteggiamento guardingo e con il fisico malandato nelle tante strade che a Monteverde sono costeggiate da villini protetti da cascate di edere e bougainvillee. L’aveva notata perché nonostante il deperimento evidente ostentava un piglio decisamente aristocratico. Lo aveva colpito anche il suo incedere deciso verso una direzione misteriosa e sicura. Aveva cercato di avvicinarla, ma lei accelerava  ad ogni goffo tentativo in tal senso. Dopo il fallimento di quelle prime maldestre mosse, un pomeriggio portò con sé del tritato di carne che ema­na­va un odore irresistibile e si diede a percorrere lentamente con l’auto la zona dove l’aveva scorta. Non dovette attendere molto. Ancora più smagrita, ma altezzosa e distratta, sembrava proprio intenta a scoraggiare ogni tentativo di “approccio”. Una incantevole espressione di ritrosia femminile. Fu rapido a lanciare ad una certa distanza una pallina di tritato. La vide trasalire. Sembrava volesse tornare indietro e allon­tanarsi. Poi ebbe un attimo d’incertezza. Alzò la testa come per cogliere un impossibile alito nell’aria ferma. Un profumo amico di cibo le sollecitava l’istinto della sopravvivenza. Tornò, quindi, a volgere lo sguardo verso Dario che cercava di rivolgerle il sorriso più accattivante.

«Bella... ciao Bella... vieni... su Bella».

Diffidente, lei si avvicinò alla pallottola di carne. Un’ultima annusata piena di sussiego, prima di ritenerla degna di definitiva attenzione.

Lentamente Dario prese dal sacchetto un’altra di quelle irresistibili palline. Stese il braccio dal finestrino, ma forse non fu parti­co­lar­mente rassicurante. La vide trasalire in maniera repentina. Tornò indietro di qualche metro, arretrando piano e senza voltarsi.

«... Non avere paura Bella...».

Forse la convinse questo sus­surrare. Comunque si avvicinò cautamente. Intanto lui aveva fatto cadere un terzo e accattivante bocconcino.

Un altro sguardo interrogativo e indagatore. Infine gli ultimi due passi con un incedere guardingo e altero al tempo stesso. Poi un boccone pieno di dignità prima del solito arretrare per un ritorno di sfiducia o per sperimentata strategia.

A questo punto Dario lasciò cadere dal finestrino quello che restava della carne. Con calma  mise in moto e si allontanò.

L’indomani tornò sul posto. Scese dall’auto e attese seduto su un basso mu­retto con accanto il solito pacchetto messaggero delle sue buo­ne intenzioni.

Non dovette aspettare molto. La vide arrivare da lontano. Ogni tanto si fermava vicino a un cancello per frugare con lo sguardo dentro i giardini. Certamente le stimolavano il ricordo di amicizie inspiegabilmente ingrate.

Scorgendolo a una certa distanza, dapprima si fermò, poi attraversò la stretta via per riprendere il suo incedere dalla parte opposta.

Con il massimo della noncuranza, lui formò la solita polpettina di carne e la lanciò a una certa distanza. Bella trasalì, stava quasi per fuggire. Poi l’odore amico e forse anche la memoria del giorno precedente prevalsero. Ancora una volta mostrò di gradire l’omaggio.

Si accingeva a riprendere il cammino verso la sua misteriosa direzione, ma Dario aveva già preparato una seconda pallina. Questa volta la lanciò più vicino. La terza la indirizzò a meno di mezzo metro.

Molto lentamente, infine, porse una mano aperta, in offerta di fiducia e di amicizia. Troneggiava in essa un grosso malloppo di quell’appetitoso tritato di carne. Una tentazione troppo forte e tale da fare superare ogni ultima dif­fi­denza.

Lei mosse impercettibilmente la testa, come se nell’olfatto cercasse conferma di quanto percepito per diversi sensi. Trascorsero secondi interminabili. Si av­ver­tivano la sua paura, il suo desiderio e la sua indecisione. Infine il miracolo. Passetti indecisi. Restava un ultimo, brevissimo, tratto. Poi allungò la testa e prese la carne dalla mano amica. Questa volta non si allontanò.

Avevano cercato di evitare in tutti i modi che Bella restasse incinta. Ma lei era una piccola regina in mezzo a un nugolo di corteggiatori, come quella volta che la riportarono dalla città, dopo averle fatto fare un delizioso bagno profumato ed averla fatta tosare alla moda. Aveva attraversato altezzosa il suo branco ammirato. Spargeva fascino e profumo soprattutto verso il suo indiscusso principe.

Era Bianco il suo principe. Lo avrebbero capito dopo qualche tempo. Un bel cane alto, robusto e fiero. Il pelo di un delicato bianco avorio lo distingueva da tutti. Una fierezza eccessiva, la sua. Gl’impo­neva dall’alto della terrazza circondata dagli eucalipti di precipitarsi sulla via, tutte le volte che qualcuno si addentrava nel piccolo tratto di strada, che, dietro la villa, andava a perdersi nella campagna. Era il suo territorio.

Forse fu questa irriducibile fierezza di Bianco a segnare la sua fine. O forse fu perché aveva voluto difendere la casa da ladri maldestri. Una mattina lo trovarono morto nella terrazza con un largo squar­­cio in testa. Non si capiva se ad ucciderlo fosse stato un morso o una spranga di ferro. Certamente non era stato colpito sulla terrazza. Scopersero qualche macchia di sangue piuttosto distante. Lì se n’era venuto solo a morire, perché era quello il posto di con­trollo e di osservazione del suo territorio: il luogo simbolo della sua  “dominanza”.

Lo seppellirono accanto al più grande degli alberi di eucalipto. Era un inverno triste. A primavera, allor­quando sarebbero cresciute le prime foglie verdi di quell’albero, sarebbe stata una nuova e diversa vita per il fiero Bianco. Non lo sapevano ancora, ma Bianco aveva lasciato qualcosa di sé. Se ne accorsero qualche tempo dopo.

Bella ingrassava troppo. Era rimasta incinta ed era inverno ormai da diverse settimane. Bisognava preparare un rifugio sicuro per lei e per i cuccioli che sarebbero nati. Non sarebbe trascorso molto tempo. Le lasciarono aperta la porta della piccola lavanderia che dava su un breve tratto di giardino di lato della casa. Vi sistemarono una grande cesta piena di stracci di lana morbidi.

In una limpida e fredda mattina di febbraio, mentre si accostavano al cancelletto sul retro della villa, le videro scendere  festante i pochi gradini. Aveva riacquistato  la sua linea snella. Faceva loro strada di corsa verso la lavanderia. Voleva mostrare orgogliosa i suoi cinque cuccioli. Solo a loro consentiva di avvicinarli. Agli altri, a tutto il suo branco, non lo permetteva e ringhiava minacciosa. Capirono subito chi era il padre. Un piccolo con il pelo morbido e di un delicato bianco avorio risaltava fra gli altri. Pensarono su­­bito al fido Bianco e si commossero.

Si era sparsa una epidemia per tutto il paese. Era una moria di cuccioli di qualsiasi specie di animali. Ma era rimasto loro il dubbio che a far morire i loro cuccioli fossero stati i collarini an­tipulci. Li avevano acquistati per preservarli dal fastidio di zecche e di altri parassiti che con il caldo di quell’estate proliferavano in maniera  incredibile. Forse contenevano sostanze tossiche e loro se li leccavano l’un l’altro.

Un giorno tre di essi cominciarono a vomitare. Li tormentava anche una diarrea sanguinolenta e irrefrenabile. Due erano i maculati. Un’accattivante mescola di bianco, nero e marrone. Stava molto male anche Bianchetto. Bracchetta, piccola e muscolosa, Ciccio, una grossa e forte palla di ciccia, en­tram­bi completamente neri, non vennero attaccati dalla epidemia. Erano i più robusti. Il primo a morire fu Bracchetto. Piccolo cucciolo, timido e cortese, riposa sotto il grande eucalipto vicino al padre, il fiero Bianco.

Una mattina non trovarono più l’altro maculato: Mendino. Gli avevano dato questo nome insolito perché aveva l’abitudine di rizzarsi sulla zampette posteriori. Così facevano i cagnolini, che, accanto agli antichi organetti, chiedevano l’elemosina tenendo un piattino metallico fra i piccoli denti. Somigliava moltissimo a Bella. Se ne differiva solo per i colori. Lo cercarono per tre giorni interi. Inizialmente avevano pen­sato che lo avessero rapito i pecorai. Era così grazioso. Al terzo giorno, quasi casualmente, ricordarono il suo piccolo rifugio. Uno stretto varco in cui riusciva ad entrare solo lui. Stava sotto le scale di pietra del giardino. Lì si rifugiava per nascondervi tutti gli oggettini dei suoi improvvisi e rapidi furtarelli: ora uno straccetto colorato della cucina, ora un giocattolino, ora una macchinetta. Le cose più minuscole lo attiravano. Era sempre lesto ad afferrarle con la piccola bocca e ad andare di corsa a nasconderle nella sua grotta segreta.

Per potere guardare all’interno di quella sorta di nascondiglio Dario si sdraiò quasi completamente a terra. Introdusse il braccio nell’angusto anfratto. Aveva una  lampadina tascabile stretta in mano. Gli occhi si abituarono lentamente alla poca luce della torcia elettrica. Poi lo vide.

Mendino lì riposava. Cercò inutilmente di scuoterlo e di chiamarlo. Non rispondeva ai suoi richiami ed ai suoi scuotimenti. Sembrava un piccolo orsacchiotto di peluche abbandonato. Era voluto andare a morire fra i suoi tesori. Chiusero l’entrata del rifugio con delle grosse pietre. Il piccolo Mendino riposa ancora lì.

Si accanirono, allora, per la salvezza di Bianchetto. Non doveva morire anche lui. Gli facevano due flebo al giorno e gli propinavano a forza le medicine fra i dentini rinserrati. Finalmente la diarrea sanguinolenta - dapprima continua - a poco a poco cessò del tutto. Si riprese molto lentamente. Per diverse settimane non riusciva neanche ad alzarsi sulle zampette magre senza ricadere subito dopo. Se ne restava sconsolato e accucciato a terra, con il corpicino scosso da un irrefrenabile tremito e da un respiro costantemente affannoso. Quella esperienza terribile fece maturare Bianchetto. Non appena fu guarito si capì subito che era lui, ora, il capo branco. Sottometteva tutti alla sua volontà.

Un giorno di quella estate, Ciccio e Bracchetta tornarono alla villa impallinati da qualche sconsiderato cacciatore. Zoppicavano e sanguinavano in diversi punti del corpo. Era evidente che erano riusciti a tornare a casa con grande fatica. Dario non sopportava il sangue e non sapeva cosa fare. Poi si fece un coraggio che non sospettava neanche lontanamente di avere.

Corse in farmacia. Comprò cotone emostatico, fasce, bisturi, anestetici, antibiotici e disinfettanti vari. Sistemò un tavolo all’aperto nel retro della villa e si diede con pazienza ad estrarre quei pallini malefici. Disinfettava le piccole ferite cospargendole di polvere antibiotica. Lo aiutava il piccolo Antonio. Loro lo lasciavano fare. Rispondevano solo con un lieve mugolìo a qualche gesto maldestro dell’improvvisato chirurgo. Dopo una settimana stavano meglio di prima.

Anche quella magica stagione degli eucalipti finì. Si doveva rientrare in città. Li attendeva lo stressante lavoro di sempre. Dario saliva a Monteverde ogni due o tre giorni per portare da mangiare ai suoi cuccioli. Vi era come un’intesa. Li trovava sempre nella campagna vicino alla villa. Non se ne allontanavano mai troppo. L’af­fitto di questa lo aveva dovuto disdire. I debiti per l’acquisto della casa in città assorbivano ogni risorsa.

Un giorno la nera Bracchetta non gli venne incontro come faceva di solito. La cercò a lungo, ma inutilmente. Prese allora una decisione dolorosa. Aveva let-to una inserzione di due anziani coniugi che cercavano un cane per averne compagnia. Fece salire Ciccio in mac­­china e glielo portò. Lo ringraziarono calorosamente. Ciccio era diventato una enorme simpatia di cagnone grosso e nero. Era capace di elargire tanto affetto. Non andò più a trovarlo per non pro­curare né a lui né a se stesso altro dolore.

Bianchetto, tramite un amico, lo affidò a un cacciatore di un’altra città. Poi seppe che quello aveva perso. Ma forse gli era sfuggito per cercare inutilmente di tornare lì, fra gli eucalipti, dov’era nato e aveva vissuto la sua prima, indimenticabile, estate.

Dario e la moglie giovane salirono una sola volta ancora a Monteverde, nella strada sul retro della villa degli eucalipti. Era stata acquistata e riattata da acquirenti in­­consapevoli dei sentimenti che lì riposavano incancellabili e che non sarebbero mai appassiti con le foglie autunnali di quei grandi alberi.

Era una grigia giornata di autunno avanzato. Quel giorno, un’aria gelida e plumbea non ral­le­grava l’alto filare che non spandeva più odori balsamici, ma solo foglie secche e gialle di morte. Eppure il ricordo forte di sentimenti, sogni, gioie e dolori di quelle brevi estati aleggiava ancora attorno. Le future primavere ed estati li avrebbero ancora lievemente sparsi dalle fronde di quelle immani e rassicuranti piante.

Bella era ospite in una piccola casa di fronte alla parte retrostante della villa. Irriconoscibile, enorme, non aveva più quella sua meravigliosa vivacità. L’avevano fatta operare perché non avesse altri cuccioli ed era ingrassata incredibilmente.

Dario la chiamò da dietro il can­cel­lo. Lei agitò la coda e, indolente, si avvicinò. Li aveva riconosciuti. Annusò un po’ l’aria, ma, subito dopo, tornò ad ac­cuc­ciarsi. Era del tutto e definiti­va­mente disillusa e vinta dalla vita.

Non andarono più a trovarla. Era irrimedia­bil­mente finita quella lunga, in­di­menticabile, meravigliosa e triste stagione degli eucalipti.