Gianni
Rescigno: dall’essere all’infinito. Trent’anni di poesia
(Genesi,
Torino 2001). Ma
si parlava dell’espressione “dall’essere all’infinito”. Nel
primo capitolo del libro, dedicato alla prima raccolta poetica pubblicata
da Rescigno, intitolata “Credere”, io scrivo che questo titolo lascia
ovviamente presa-gire una matrice prettamente religiosa (e un profondo
sentire religioso, una fede cristiana saldamente radicata attraversa
effettivamente tutta l’opera poetica di Rescigno). Ma io soggiungevo
subito che, alla lettura delle successive liriche, in quella e in tutte le
altre raccolte, ci si accorge che questo credere rappresenta anche una
fede laica, una ferma fiducia nei grandi valori dell’Uomo e –
soprattutto – una grande, esaltante fiducia nel potere della Poesia:
quello di rendere eterno quanto umanamente è invece deperibile, caduco, a
dispetto dunque del passare del tempo e della morte degli uomini e delle
cose. È la Poesia stessa il “passaporto” per l’infinito: è lei che
ci trasporta dai limiti dell’essere alla vastità di ciò che è
perenne.
Questo concetto, sempre presente anche se mai esplicitamente
affermato nella poesia rescigniana, è un’idea di alta e nobilissima
origine classica. E qui si vede bene come Rescigno, il quale non ha
particolari modelli o punti di riferimento fra i poeti contemporanei e
nemmeno si lascia influenzare più di tanto dai grandi poeti del passato
(che comunque dimostra di ben conoscere e di ammirare), rivela sotto
questo aspetto un filo segreto, una radice profonda che lo collega alla
grande classicità. In tal senso intendo riferirmi per esempio ad Ugo
Foscolo: pensiamo, infatti, a quanto sia centrale nella sua poetica il
concetto di Poesia come “forza eternante”. Così suona il primo verso
di uno dei suoi sonetti. «E tu ne’ carmi avrai perenne vita» (e quel
tu non si riferisce in questo caso ad una persona, ma ad una città,
Firenze); e nei “Sepolcri” egli parla dell’armonia di canto che
emana dalla Poesia stessa, e di essa dice che «vince di mille secoli il
silenzio». E quando pensa a tutto ciò che è perduto e scomparso, il
poeta dice che tuttavia rimangono «e pianto, ed inni, e delle Parche il
canto». Ma il Foscolo è soltanto uno degli esempi possibili: i suoi
grandi contemporanei d’oltralpe, Schiller e Goethe, esprimevano nei loro
versi la medesima convinzione. E, del resto, questo concetto della Poesia
come portatrice di eternità non è nemmeno esclusivo appannaggio
dell’epoca classicista e preromantica. Se torniamo indietro nei secoli
troviamo il grande Shakespeare che, in uno dei suoi sonetti, scrive: «Scatènati
pure, vecchio Tempo, nonostante il tuo assalto nei miei versi il mio amore
vivrà per sempre». E se ancora andiamo indietro troviamo il latino
Orazio, che scrive: «Non omnis moriar», «Non morirò del tutto»,
consapevole di aver edificato con la sua opera un «monumento più
duraturo del bronzo». E così altri grandi poeti latini, e fra i greci
Pindaro, ecc. ecc. Ma
che cosa rimane, dunque, di questo alto retaggio nella poesia moderna, e
in particolare, poiché è di lui che stiamo parlando, nell’opera
poetica di Rescigno? E, ancor più significativamente, che cosa è invece
del tutto scomparso? È sparito prima di tutto qualsiasi intento
celebrativo: la poesia moderna è assolutamente e giustamente
antiretorica, e abbiamo già sentito il professor Ramella e il prof. Bàrberi
Squarotti dire che proprio in Rescigno c’è sempre una contenuta
eloquenza. Il poeta di oggi non ha bisogno di celebrazioni per dire
qualcosa di importante, di bello, di duraturo. E, più ancora, è
scomparso ogni intento autocelebrativo: quando Orazio afferma che non
morirà del tutto, più che alla sua opera pensa in quel momento a se
stesso e al sopravvivere del suo nome attraverso i secoli per mezzo della
sua opera (ed è stato sicuramente lungimirante, nessuno può metterlo in
dubbio!). Non è questo, però, lo scopo principale dell’uomo di oggi,
del poeta di oggi. Che
cosa, dunque, in Rescigno, richiama questo potere eternante della Poesia?
Soccorre anche qui il pensiero penetrante e bellissimo di Giorgio Bàrberi
Squarotti, il quale sottolinea in proposito quel fissare «una volta per
tutte la verità delle situazioni in simboli definitivamente efficaci, non
dimenticabili, non eludibili», quel «fascino di ciò che è da sempre e
sarà per sempre, colto proprio nel momento dell’apparizione improvvisa,
nello sguardo sorpreso e stupito».
Marina Caracciolo |