Gianni Rescigno: dall’essere all’infinito. Trent’anni di poesia (Genesi, Torino 2001).

  Desidero soffermarmi brevemente sulla seconda parte del titolo “dall’essere all’infinito” e anche sul sottotitolo che compare sul frontespizio del volume “trent’anni di poesia”. Un arco lungo tre decenni è più che sufficiente per consentire un approccio critico di ordine storico; vale a dire che è possibile in un tempo così esteso appoggiarsi a due fondamentali categorie di analisi: da un lato la considerazione delle costanti di un’opera poetica, cioè di quegli elementi sempre simili o anche identici a se stessi, che ci permettono di riconoscere per così dire le “impronte digitali” del poeta, le sue caratteristiche incon-fondibili e riconoscibili attraverso le varie opere e attraver-so il tempo. D’altro canto l’osservazione dell’aspetto opposto – ma complementare – delle variabili, ossia degli aspetti che mutano trascolorando col passare degli anni e che ci consentono proprio di osservare e seguire puntualmente l’evoluzione, il percorso storico di un artista e della sua opera.

Ma si parlava dell’espressione “dall’essere all’infinito”. Nel primo capitolo del libro, dedicato alla prima raccolta poetica pubblicata da Rescigno, intitolata “Credere”, io scrivo che questo titolo lascia ovviamente presa-gire una matrice prettamente religiosa (e un profondo sentire religioso, una fede cristiana saldamente radicata attraversa effettivamente tutta l’opera poetica di Rescigno). Ma io soggiungevo subito che, alla lettura delle successive liriche, in quella e in tutte le altre raccolte, ci si accorge che questo credere rappresenta anche una fede laica, una ferma fiducia nei grandi valori dell’Uomo e – soprattutto – una grande, esaltante fiducia nel potere della Poesia: quello di rendere eterno quanto umanamente è invece deperibile, caduco, a dispetto dunque del passare del tempo e della morte degli uomini e delle cose. È la Poesia stessa il “passaporto” per l’infinito: è lei che ci trasporta dai limiti dell’essere alla vastità di ciò che è perenne.

               Questo concetto, sempre presente anche se mai esplicitamente affermato nella poesia rescigniana, è un’idea di alta e nobilissima origine classica. E qui si vede bene come Rescigno, il quale non ha particolari modelli o punti di riferimento fra i poeti contemporanei e nemmeno si lascia influenzare più di tanto dai grandi poeti del passato (che comunque dimostra di ben conoscere e di ammirare), rivela sotto questo aspetto un filo segreto, una radice profonda che lo collega alla grande classicità. In tal senso intendo riferirmi per esempio ad Ugo Foscolo: pensiamo, infatti, a quanto sia centrale nella sua poetica il concetto di Poesia come “forza eternante”. Così suona il primo verso di uno dei suoi sonetti. «E tu ne’ carmi avrai perenne vita» (e quel tu non si riferisce in questo caso ad una persona, ma ad una città, Firenze); e nei “Sepolcri” egli parla dell’armonia di canto che emana dalla Poesia stessa, e di essa dice che «vince di mille secoli il silenzio». E quando pensa a tutto ciò che è perduto e scomparso, il poeta dice che tuttavia rimangono «e pianto, ed inni, e delle Parche il canto». Ma il Foscolo è soltanto uno degli esempi possibili: i suoi grandi contemporanei d’oltralpe, Schiller e Goethe, esprimevano nei loro versi la medesima convinzione. E, del resto, questo concetto della Poesia come portatrice di eternità non è nemmeno esclusivo appannaggio dell’epoca classicista e preromantica. Se torniamo indietro nei secoli troviamo il grande Shakespeare che, in uno dei suoi sonetti, scrive: «Scatènati pure, vecchio Tempo, nonostante il tuo assalto nei miei versi il mio amore vivrà per sempre». E se ancora andiamo indietro troviamo il latino Orazio, che scrive: «Non omnis moriar», «Non morirò del tutto», consapevole di aver edificato con la sua opera un «monumento più duraturo del bronzo». E così altri grandi poeti latini, e fra i greci Pindaro, ecc. ecc.

Ma che cosa rimane, dunque, di questo alto retaggio nella poesia moderna, e in particolare, poiché è di lui che stiamo parlando, nell’opera poetica di Rescigno? E, ancor più significativamente, che cosa è invece del tutto scomparso? È sparito prima di tutto qualsiasi intento celebrativo: la poesia moderna è assolutamente e giustamente antiretorica, e abbiamo già sentito il professor Ramella e il prof. Bàrberi Squarotti dire che proprio in Rescigno c’è sempre una contenuta eloquenza. Il poeta di oggi non ha bisogno di celebrazioni per dire qualcosa di importante, di bello, di duraturo. E, più ancora, è scomparso ogni intento autocelebrativo: quando Orazio afferma che non morirà del tutto, più che alla sua opera pensa in quel momento a se stesso e al sopravvivere del suo nome attraverso i secoli per mezzo della sua opera (ed è stato sicuramente lungimirante, nessuno può metterlo in dubbio!). Non è questo, però, lo scopo principale dell’uomo di oggi, del poeta di oggi.

Che cosa, dunque, in Rescigno, richiama questo potere eternante della Poesia? Soccorre anche qui il pensiero penetrante e bellissimo di Giorgio Bàrberi Squarotti, il quale sottolinea in proposito quel fissare «una volta per tutte la verità delle situazioni in simboli definitivamente efficaci, non dimenticabili, non eludibili», quel «fascino di ciò che è da sempre e sarà per sempre, colto proprio nel momento dell’apparizione improvvisa, nello sguardo sorpreso e stupito».     

Marina Caracciolo