Il viaggio, uno dei temi ricorrenti in Grazia Deledda
di Bruna Tamburrini
 

La lettura dei romanzi e dei racconti di Grazia Deledda è coinvolgente, perché la scrittrice sa condurre il lettore verso l’intensificarsi della trama per poi arrivare allo scioglimento e alla conclusione, una conclusione chiarificatrice che fa pensare e costringe a tornare indietro, una conclusione che definirei “giusta”, volta in un certo senso alla risoluzione dei problemi.

Nata a Nuoro nel 1871 Grazia Deledda, a mio avviso, non può essere collocata in una precisa corrente letteraria, ma nelle sue opere c’è un po’ del Verga, un po’ del De Roberto, un po’ del Carducci e del D’Annunzio ed è evidente anche l’influsso dei romanzieri russi come Dostoevskij. Lei stessa, a proposito di Carducci e di D’Annunzio, afferma che il primo la educò a mobilitare il paesaggio, il secondo le suggerì la preziosità della lingua, la raffinatezza delle descrizioni e un certo blando estetismo. Nella scrittrice è possibile cogliere anche l’erompere del Decadentismo con quel gusto psicologico collegato al dramma dei protagonisti, i quali vivono nella passione, nella colpa e nel pentimento. Nello stesso tempo è rappresentata la realtà di un ambiente popolare, una realtà che fa da sfondo e da cornice coinvolgendo tutti i personaggi, i quali vivono in una dimensione diversa e si muovono portandosi dietro tabù, superstizioni, una mentalità chiusa, problematica e a volte cercano nel viaggio e nella fuga la soluzione ai loro problemi.

Ma prima di affrontare i temi principali, tra cui quello del viaggio, è necessario conoscere alcuni aspetti della vita della scrittrice. Grazia Deledda può essere considerata autodidatta, avendo frequentato solo per tre anni le scuole elementari di Nuoro. Nel 1900 sposa Palmiro Madesani, si trasferisce a Roma dove la sua attività si fa più intensa, entra a far parte del circolo culturale di Sibilla Aleramo e Giovanni Cena, collabora con diverse riviste. Nel 1926 ottiene il Nobel per la Letteratura (unica scrittrice italiana premiata!) e muore di tumore ancora giovane nel 1936.

Come già affermato, le opere di Grazia Deledda hanno un’ambientazione sarda ed in esse si ripetono sempre gli stessi temi: la vita nelle “tancas”, il passaggio continuo dalla cittadina angusta e soffocante alla natura ampia e libera, si ripetono i fatti di costume e di folklore. Ma in mezzo a diverse tematiche ne emerge una che, a mio avviso, racchiude il senso di molti romanzi e racconti: la voce continua e quasi assillante del viaggio. In “Canne al vento”(1913) si ripete spesso il verbo “andare”: è un desiderio di raggiungere mète più tranquille, è anche un desiderio di arrivare fino al “mare” che è simbolo della tranquillità con il suo spazio immenso. Il tutto si conclude con il viaggio verso l’eternità e la morte del vecchio Efix è l’ultimo, definitivo viaggio. Anche il vento sembra favorire il cammino: soffia sempre più forte «per costringere gli importuni ad andarsene». In questo caso il vento non trascina, non spezza, ma fa ritornare in sé.

Il viaggio è anche una fuga per nascondere un segreto (tema sempre presente nelle opere della Deledda), un segreto che tormenta come il vento e solo la morte può placare. Il viaggio è anche una ricerca di se stessi, per vedere chi siamo, per vivere in mezzo agli altri («con i ciechi e chiedere l’elemosina») e per poi far ritorno nel nostro rifugio. Nel romanzo “Elias Portulu” (1900) il tema del viaggio è visto sotto questi aspetti: 1) è un desiderio impossibile: «Nel delirio ricordava perfettamente dove era diretto e che cosa voleva»; 2) viaggio come destino: «Bisogno pazzo di alzarsi, muoversi, camminare, andare lontano. Era il suo destino»; 3) viaggio come una fuga per non ricadere nel ricordo: «E ricadeva nel ricordo… e… sentiva che alla prima occasione sarebbe ricaduto; ed a questo pensiero gli si rizzavano i capelli per l’orrore. Così fece il viaggio».

Dopo un viaggio ci può essere un ritorno che conduce ad una trasformazione. In “Marianna Sirca” il viaggio è nella morte stessa e conduce verso la libertà che fa espiare tutti i peccati, ma in questo caso non c’è ritorno: è una fuga verso una libertà totale, oltre la vita che, dal canto suo, continua nel solito ambiente e con le solite modalità. Il viaggio è sempre collegato al tema della morte, perché la morte stessa è un viaggio ed è espiazione di una colpa, essa provoca dolore e il dolore purifica, conduce quindi verso nuovi lidi e una nuova libertà.

Il dolore porta spesso i protagonisti delle storie verso la solitudine. Nel romanzo “La madre” è la madre stessa che soffre in solitudine per il figlio prete, tormentato dall’eterno dissidio tra il mondano e lo spirituale, tra il desiderio e la realtà, tra l’amore e il peccato. La madre in questo caso diventa un capro espiatorio e la sua morte impedisce uno scandalo e la rivelazione di un segreto: la relazione del figlio prete con Agnese. Il tutto si conclude con l’impossibilità di gridare, la necessità del silenzio e quindi della solitudine: «“Madre, madre?”. Il viso era fermo e duro, gli occhi socchiusi, i denti ancora stretti nello sforzo di non gridare». E ancora: «E anche lui strinse i denti per non gridare, quando sollevò gli occhi e nella nuvola confusa della folla che gli si accumulava attorno, incontrò gli occhi di Agnese». Dunque nel silenzio tragico, ma pieno di tensione, si conclude la vicenda ed i sentimenti si affollano nascosti nella stessa vita dei personaggi.

Anche in “Elias Portulu” la solitudine è accomunata all’incomprensione, alla chiusura in un segreto: è una solitudine sentimentale che sfocia nei ricordi e in questo caso fa intraprendere un viaggio verso se stessi, verso il proprio mondo interiore. Anche qui la solitudine si consuma con una morte: quella del figlio nascosto che diventa una vittima per l’espiazione della colpa. La solitudine del protagonista diventa anche una ricerca d’identità. Nel racconto “La martora” si incontrano due tipi di solitudine: quella del ragazzo che vuole fuggire dalle regole sociali, dal “suo involucro” (è anche questo un viaggio?) e quella della monaca che si è già rinchiusa nella sua solitudine, ma con una compagna: la martora che diventa però un bisogno per entrambi, ma alla fine sarà il ragazzo ad avere la meglio e «…si accomodò bene la martora sul collo come un bambino addormentato…» ed anche la sua è una fuga per non essere più solo.

La fedeltà è un altro tema importante e lo si ritrova in molti romanzi. In “Canne al vento” per esempio vi è una fedeltà a persone senza tempo, il protagonista si lega ad una società arcaica che, caso strano, si apre alla festa il giorno in cui egli muore. È forse il bisogno della scrittrice di evadere e di allontanarsi da un mondo ormai troppo antico? Efix, l’uomo che custodisce un segreto, l’uomo capace di uccidere per fedeltà, l’uomo che sa allontanarsi e dare se stesso per le sue padrone, per i vecchi valori, dà alla fine se stesso con la sua morte e fa così rinascere la vita in quella famiglia di altri tempi. L’aspetto religioso fa da asse portante a molte vicende, non a caso diversi protagonisti sono o diventano preti (anche questa è una ricerca di viaggio per allontanarsi dalla società) e con loro si vive una religiosità fatta di dissidi, una religiosità quasi popolare, piena di conflitti. A volte essa appare come un ripiego, una ribellione e serve a lenire un profondo senso di colpa, è quindi anche una fuga. Di certo è una religiosità non sempre sentita, ma volutamente ricercata, quasi per espiare delle colpe e  spesso conduce il personaggio in un profondo silenzio e in una amara solitudine. (Elias Portulu)

Un altro tema è anche l’incesto: un peccato che offende la morale e abbrutisce, esso viene quindi espiato, ma rimane sempre come sottofondo e come origine del peccato in una società a volte arcaica. L’ambiente è molto importante nelle opere di G. Deledda, le descrizioni paesaggistiche sono chiare, precise ed in esse prevale il tono lirico con puntuali indicazioni di suoni, profumi ed il tutto viene descritto in modo particolareggiato e sobrio. Il linguaggio, infatti, è chiaro nonostante i riferimenti dialettali (corredati di note) nell’uso di dialoghi e espressioni popolari. I suoi personaggi in generale non sono dei superuomini alla maniera dannunziana, ma sono deboli e vivono le loro avventure con turbamenti morali. La scrittrice entra, con la sua personalità, nel loro destino e  crea, nella linea narrativa, quell’energia vitale che porta il lettore stesso ad immedesimarsi nella  storia raccontata e a vivere interiormente quei dissidi che forse sono universali, perché costituiscono la base di molte società e generano uno scontro perenne tra il vecchio e il nuovo. 

Nota bibliografica:
MARIA GRAZIA CERRUTI, La donna da lettrice di romanzi a scrittrice in G. DELEDDA, “La volpe”, “Elias Portulu”, “La madre e altre opere”, Biblioteca tascabile, 1995, Milano
VITTORIO SPINAZZOLA, Introduzione a “Marianna Sirca”,  Mondadori, Milano
VITTORIO SPINAZZOLA, introduzione a “Canne al vento” Mondadori, Milano