Alberto Palmucci
L'ACCONTO (giugno 1956)
Avevo
conosciuto Rosetta anni fa, in casa di Carlo, durante le sere di Natale quando
ancora si giocava a tombola e a carte.
Mi
piacque. Non era bella, ma sapeva sorridere e civettare. Anche lei ci pendeva;
ma, quando per San Silvestro, nel bacio di capodanno, le dissi piano <<ho
da dirti qualcosa>>, lei divenne schiva e si fece tirar la calza.
Io
smisi di farle il filo. Mi raccontarono poi delle storie, ma non m'interessavano
più. L'avevano vista con questo o con quello, nel buio, lungo il mare. Questo
mi convinse solo che avrei dovuto prenderla senza "dirle qualcosa".
Passò
qualche mese, e Carlo diede una festa. Naturalmente invitò Rosetta e sua
sorella Anna con la quale era fidanzato.
Eravamo
nel giro di un ballo, e Rosetta mi disse:
<<Avevi
qualcosa da dirmi?>>.
<<Non
so>>.
Sorrise.
Da quel giorno mi venne dietro. Passarono gli anni, e un mese fa mi ha detto:
<<Hai
mai avuto una cotta per me?>>.
<<Una
piccola, direi>>.
<<Piccola
cosa?>>.
<<Cotta>>.
<<Per
me?>>.
<<Si>>.
<<E
quando?>>.
<<Non
fare la stupida>>.
<<Non
lo so. Dimmi. Quando?>>.
<<Quando
ti conobbi>>.
<<E
perché non ci hai provato?>>.
<<Tu
facevi la stupida>>.
<<Beh,
potevi provarci>> disse sorridendo. <<Chissà?>>.
Da
quel giorno...
Rosetta
si preparava per gli esami di maturità. Io li avevo già superati, e a volte la
aiutavo in qualcosa. C'era anche Gisella, un'amica. Ciò che impararono subito e
non dimenticarono fu il fatto che Foscolo avesse avuto dieciotto amanti. C'era
poi la filosofia di Fichte, il cui nome rendeva tanto l'idea.
<<Ti
piace?>> mi disse Rosetta.
<<Più
di tutto>> risposi.
Lei
rise.
Io
soggiunsi: <<A te no?>>.
Rise
ancora e si buttò sul divano.
Se
non c'era Gisella l'avrei
violentata.
***
Anna e Carlo, prima di sposare diedero per gli amici una festa d'addio.
Il
giorno dopo dovevo presentarmi al distretto militare, a Roma, per la visita di
controllo. Volevo che mi scartassero.
Ballai
spesso con Rosetta, e la tenevo stretta. Ad un certo punto le dissi:
<<E' il
pacchetto di sigarette>>.
Lei,
come al solito, rise. Presi il pacchetto e lo infilai nella giacca. Continuammo.
<<Eppure,>>
mi disse <<io il pacchetto lo sento ancora>>.
E
lo sentiva. La strinsi di più.
<<Lo
senti?>> le dissi piano.
Non
rispondeva più, premeva la coscia, e mi disse:
<<Domani
vado al mare>>.
<<Io
non posso. Devo andare a Roma, per passare la visita militare. Dopodomani, alle
sette, ti aspetto davanti al mobilificio di Pierucci>>.
<<Sì>>.
Ora
non sorrideva più. Uscimmo in giardino, e ci infilammo tra la grande quercia e
il muro di cinta. Non parlò mai, e alla fine mi disse: <<Ti amo>>.
Era
tardi, e la festa languiva. Tornammo a ballare.
***
Quella
notte fui felice. Così voglio le donne: frivole e innamorate. Ma se io amo, è
perché amo il mare e le stelle. Così, mi capitò a volte d'innamorami; e,
quando tutto finì, non mi rimasero che le stelle.
A
Roma, al distretto, ci fecero spogliare. Con una cartella in mano presero nome e
cognome, peso ed altezza, poi ci spedirono al Celio. All'ingresso, fu nuovamente
nome e cognome, numero della tessera, eccetera.
<<Terzo
padiglione,>> disse l'usciere <<reparto osservazione>>.
Scale,
sportelli, firme, controlli, finalmente una corsia piena di letti senza lenzuola
dove i coscritti attendevano con la sigaretta in bocca e le gambe sulla
spalliera.
In
fondo, un maresciallo bestemmiava i nomi che chiamava: <<Rossi, Faperdue,
Piendibene, ...>>.
I
coscritti si alzavano insonnoliti, ricevevano un foglio: visita specialistica,
reparto chirurgia, neurologia, emoteca,... .
Il
maresciallo non bestemmiò il mio nome perchè gli ero sotto il naso. Mi diede
il foglio: reparto emoteca, metabolismo basale.
Girai
mezzo ospedale per trovare il reparto. Aspettai due ore; poi, col referto
sigillato, tornai in corsia, consegnai la busta ed attesi che mi chiamassero.
C'erano altr'e due visite da passare. Giunse la sera, ma non mi avevano
chiamato. Seppi che si poteva uscire. Corsi a fare il permesso. Era una calca
attorno al maresciallo. Accidenti! Se non mi sbrigavo perdevo il treno. Il
maresciallo, quando gli fui davanti, mi fece un foglio. Io gli mostrai i
documenti, e partii. Odiavo anche il puzzo degli ospedali, specie se erano
caserme.
L'indomani
di nuovo a Roma. La sera alle sette avevo l'appuntamento con Rosetta.
Per
tutto il mattino non mi chiamarono. Intanto avevo fatto amicizie. C'erano
scanzafatiche, c'era chi malediceva, e chi biasimava. Anch'io volevo sfuggire,
ed avevo qualche possibilità perché soffrivo di ipertiroidismo. Non potevo
lasciar la famiglia ora che da me s'aspettava qualcosa. E poi non mi fidavo dei
miei. Erano all'antica, si perdevano. Dovevo star con loro, litigarci,
svegliarli perché non morissero.
Però,
se mi scartavano, mi scocciava.
Quel
giorno, per il pranzo, non ci mandarono a mangiar fuori. Ma, in refezione, per
me, c'era rimasto solo un panino e una mela.
Dopo,
sul letto, per la noia, quasi non pensavo più. Perché non mi chiamano? In
quella folla, sentire il mio nome sarebbe stato come destarmi. Ora dormivo:
Rosetta, le stelle. Finalmente il mio nome. Stavolta, non mi fecero spogliare.
Il medico fece un sacco di domande, mi chiese i sintomi, e mi mandò via. Dovevo
passare ancora un'altra visita. L'altro dottore mi chiamò più tardi. Neanche
lui mi visitò.
<<
Va a prendere il responso della visita collegiale>> disse. <<Stasera
trovi chiuso. Domattina. E torna qui>>.
<<Ma
domani è domenica>>.
<<E'
aperto lo stesso>>.
<<Ora
posso andarmene?>>.
<<Si.
Fatti fare il permesso>>.
Per
il permesso ci volle un secolo. Il treno partiva. Alle sette, Rosetta aspettava.
Non feci in tempo.
Domenica,
ancora a Roma. Cominciavo a scocciarmi davvero. Pensavo a Rosetta.
<<Se
ti vuol bene>>, mi disse un coscritto, <<verrà ad un'altro
appuntamento>>.
Il
Lunedì mi fecero idoneo con ridotta attitudine militare: mi avrebbero chiamato
solo in caso di guerra.
Nei
giorni che seguirono, cercai Rosetta, per le strade, a passeggio. A quel tempo,
il telefono era appannaggio di poche persone. Non la trovai. Mi dissero poi che
ci avevano visti passarci accanto e
non vederci. Accidenti al mio caso di non veder mai le persone che cerco. Era
finita, ancora una volta, come sempre, come con Milena, Giulia, Jenny. Passava,
e la portavo con me, come sempre.
L'indomani
la trovai in casa della sorella. Lei schivava lo sguardo, e credo che tremasse.
Quel
giorno, poi, andai a fare il bagno al mare, fuori città, fra gli scogli
abbrunati del Marangone. C'erano
due stranieri che s'erano accampati in un vecchio fortino di guerra abbandonato,
e pescavano. L'acqua era fredda. Tornai presto a riva, e rimasi fra gli scogli a
staccar patelle.
Nel
pomeriggio, quando il sole ancora scottava, andai su, verso i monti di Tolfa.
Erano le mie passeggiate quando dovevo star solo. La campagna era brulla.
L'ultimo sole infuocava la terra già bruciata dai concimi. Il grano ammucchiato
in covoni era alto una gamba. Quell'anno, poi, le gelate e la pioggia l'avevano
rovinato. D'intorno, sentivo il rumore d'una trebbia. E pensare che più in là,
verso Tarquinia, dove i colli digradavano, e scendevano le acque del Mignone, la
terra era buona. Perché così vicina eppure così lontana?
A
sera, in città, incontrai Rosetta a passeggio con gli amici. Le dissi:
<<Quando ci vediamo?>>.
<<Domani,>>
sorrise <<alle sette davanti al mobilificio>>, e rincorse le amiche.
Più
tardi incontrai Pippo.
<<Vieni
a Grosseto ?>> Mi disse.
<<A
far cosa?>>.
<<Così>>.
E alzo le spalle.
<<Ma
non ho soldi>>.
<<Ne
ho io!>>.
Mezz'ora
dopo eravamo sul treno. L'aria imbruniva, e le luci della città ci fuggivano
dietro. C'era ancora sul mare una pozza arancione di luce, quando lontana vidi
Tarquinia.
Qui
la terra era buona, e il grano era alto quanto un uomo. Pippo mi domandò se
quelle luci lassù erano proprio Tarquinia. Gli dissi che c'ero nato e che,
durante la guerra, ci avevo vissuto e ci avevo preso una cotta. Ci avevo fatto
anche la fame quando i Tedeschi razziavano.
A
Grosseto arrivammo che era già notte. Passeggiammo un po', cenammo e andammo al
cinema. Nella notte, in albergo, non riposai. Il materasso scendeva da tutte le
parti, ed era troppo soffice. Passai la notte nel dormiveglia, finché
lentamente il chiarore dell'alba invase la stanza. Piano, cominciarono a battere
le campane della chiesa vicina, come un'eco, poi sempre più forte, e d'un
tratto le sentii nella testa. Pensai che nessuno ha il diritto di svegliar la
gente al mattino alle cinque.
Prima
di ripartire facemmo il giro delle case chiuse. Pippo andò in camera.
<<Vieni
in camera?>> mi chiese la
bionda.
<<No>>.
<<E
che ci stai a fare?>>.
<<Aspetto
il mio amico>>.
<<Dunque
non vieni?>>
<<Lasciami
stare>>.
Se ne andò seccata.
<<Oh,
il mio amore è nervoso>> disse la bruna che aveva solo lo slip, e mi
venne accanto.
Comnciò
a sbaciucchiarmi. Poi ballammo il bajon. Allacciati nel ballo, lei sapeva
scivolare via, e mollemente ritornarmi addosso, "il mio amore, il mio
amore", ma non era che un gioco.
Tornò
Pippo e
<<Via!>>
disse. <<Ci parte il treno>>.
Dovemmo
correre. Quando fummo a Civitavecchia trovai mio padre a letto perché non si
sentiva bene.
A
sera, aspettai Rosetta fino alle sette e mezza. Non venne. Più tardi la vidi
che passeggiava con un ragazzo. Stronza! Ma poi chi se ne frega.
Dopo,
io non le chiesi niente. Fu lei a cercarmi per le strade. Disse che aveva fatto
tardi e che quel ragazzo non era niente.
Basta,
finì così.
Mio
padre s'era aggravato. Aveva l'ernia strozzata: il medico disse che se a
mezzanotte l'ernia non fosse rientrata bisognava operare. Per tutta la sera e la
notte gli facemmo borse fredde. Lui non voleva andare in ospedale. Alle quattro
del mattino dovetti correre alla Croce Rossa per chiedere un'ambulanza. Dopo un
sacco di storie (dormivano, non rispondevano, m'avevano preso per l'autista del
prete) si decisero a seguirmi.
All'ospedale
già sapevano tutto. Il medico li aveva avvisati. Però non si decidevano ad
operare.
<<Perché
non lo operate?>> chiesi alla suora.
<<Non
c'è il chirurgo>>.
<<Ma...>>.
<<E'
a Roma. Gli è stato telefonato. Verrà col primo treno>>.
Intanto
si avvicinò un impiegato, e mi chiese:
<<Chi
paga?>>.
<<Io,
naturalemente>>.
Mi
guardò diffidente. Ripetei:
<<Pago
io>>.
<<Ma
non avete nessun mutuo?>>.
<<No,
ma pago io>>.
Fece
l'atto di andarsene, poi ci ripensò e mi disse:
<<Sa?
Come dire? Ci vorrebbe un anticipo>>.
Non
gli risposi. Era giunta mia madre. Le dissi piano:
<<Vogliono
un acconto>>.
Mi
guardò interdetta. Le dissi:
<<Ci
penso io>>.
Ma
non c'era modo che io ci pensassi.
M'avviai
alla finestra che era in fondo alla corsia. L'alba allagava la città. Le luci
del porto erano ancora accese, e sembravano stupefatte.
Quando
condussero mio padre in camera operatoria uscii dall'ospedale, e camminai lungo
il porto. Erano le dieci. Tre giorni che non dormivo. Il cuore mi batteva
svelto, e la testa cominciava a dolermi. Presi il caffé al bar, sulla banchina.
Dalla
vicina piazza giungevano i battimani del popolo e la voce di un comiziante. Non
so che dicesse, ma certo parlava di giustizia sociale, di amore di patria, e
faceva appello ai figli, alle madri, alle spose.
Arrivai
nella piazza che il comizio era finito. Gli ultimi toglievano le bandiere e il
baldacchino, ma sugli angoli degli edifici c'erano ancora gli altoparlanti. Fra
poco, un'altro oratore avrebbe parlato, e quelle trombe aperte sul mondo
avrebbero ancora ripetuto e ingrandito: <<Cittadini, questa è la vostra
ora>>.
Vorrei
sapere quale non sia l'ora del popolo.
Io
sapevo solo che mi dovevo procurare un acconto di ventimila lire, e subito. Ora,
la piazza era vuota, e sembrava che fosse incantata. Mi sentivo un escluso. Se
sei pezzente, c'è sempre qualcuno che ti difende, appartieni a un ceto, formi
una classe. Mio padre aveva una botteguccia dove vendeva sementi, ed era lui che
si pigliava del ladro quando i prezzi aumentavano, era lui che pagava le
cambiali e le tasse; ora rischiava di morire, e non c'era nessuno che gli
passava un letto. Era solo. avrei voluto gridarlo. Vogliono il suo, il mio voto,
e gli uni mi sfruttano e gli altri mi respingono. Andate in malora. Forse
scivolerò verso una classe, per non essere solo.
Andai
a casa a mangiare qualcosa. Mi stesi sul letto, ma dal mercato, sotto la
finestra, veniva troppo rumore. Nell'appartamento di sopra, muratori e falegnami
sembrava che ballassero la farandola. Dal cortile, la saldatrice elettrica, la
ruota a smeriglio e il martello pneumatico facevano tremare i vetri. Tornai
all'ospedale. Sul viso di mia madre e dei miei fratelli lessi qualcosa che non
andava.
<<Papà
è più d'un'ora ch'è sotto>> disse Ferruccio.
Quando
lo portarono fuori era cereo, solo l'estrema linea delle ciglia era tinta di
rosso.
Gli
infermieri ricominciarono con le storie: l'anticipo, la garanzia.
***
Solo
a mezzanotte, il medico poté dire che mio padre era fuori pericolo. Allora
andai a casa, e presi sonno mentre la pioggia picchiava sui vetri.
Il
mattino seguente, andai io ad aprire il negozio, e subito m'investì la polvere
delle sementi ed il puzzo degli insetticidi. Spalancai tutto, anche il cesso,
perché l'aria giocasse.
Avevo
aperto da un'ora, e non entrava nessuno. Poi vennero i primi contadini, ma non
era tempo di semina, e compravano poco. Nonostante lo scarso lavoro, ero
impacciato nel servire e non riuscivo mai a fare il peso giusto perché non ero
pratico, ma bisognava che mi procurassi ventimila lire. Accidenti. Non viene
nessuno. E se anche fosse tempo di semina non incasserei tanto. Entrò uno che
chiese la polvere per le tarme.
<<Quella
che puzza>> mi disse.
Gliela
servii respirando il meno possibile perché sapevo che intossicava.
<<Ma
all'aria si libera>> spiegai. <<E poi lei deve cogliere i frutti
solo dopo quindici giorni da quando ha sparso la polvere sopra la
pianta>>.
Ma
i contadini sanno già queste cose.
Sul
tardi, non veniva nessuno, ed io mi preoccupavo per quell'anticipo. Vennero gli
amici, quelli miei e quelli di mio padre, a chiedere come stesse.
Quando
tutti gli amici se ne furono andati e stavo per chiudere, venne Raimondo.
Entrò
con in mano il cappellaccio di
feltro nero sudicio chissà da quanto tempo. Non lo conoscevo, ma capii che era
lui per la barba incolta, il bastone di castagno e il carretto con l'asino che
aveva posteggiato davanti al negozio.
Lui
rimase lì, e non mi guardava. Gli chiesi:
<<Che
volete?>>.
<<Nun
c'è er principale?>>
<<No>>.
<<Nun
c'è?>>
<<Non
c'è>>.
<<Perché
io volevo er tritello co' la favetta>>.
Entrò
una signora che volle una busta di semi per fiori.
<<Ecco,
signora>>. Le dissi porgendole la busta.
Era
una bella donna dall'aria sorniona.
<<Vede?>>
mi disse. <<Vorrei anche dei semi di fiori, come dire, di piante
rampicanti per la loggia>>.
<<Questi
signora?>>.
<<Sa,
è così nuda la mia casa>>.
Io
pensavo come sarebbe stata lei nuda.
<<Beh,
>> disse <<E' tardi, per le rampicanti tornerò nel
pomeggio>>.
E
mentre pagava soggiunse: <<E' suo padre il signor Luigi?>>.
<<Sì>>.
<<Ma
che brav'uomo suo padre. Vengo sempre qui io. Ma è fuori suo padre?>>.
<<No,
è in ospedale ...>>.
<<Diamine>>
m'interruppe. <<E cos'ha?>>.
<<L'hanno
operato d'ernia>>.
<<Ma
davvero? Proprio ieri ...>>.
<<
E' stato ieri, signora. Una cosa improvvisa>>. E mi sembrava di servir le
risposte come i semi dei fiori.
<<Ma
quanto mi dispiace>> disse.
<<Oh,
ormai è fuori pericolo>>.
Raimondo
si rifece sotto.
<<Giovino'>>,
mi disse.
<<Che
c'è?>>.
<<Er
vostro padre ...>>.
La
signora sembrava non averlo udito, mi stringeva la mano e se andava portandosi
dietro i miei occhi.
<<Giovinò>>,
disse ancora Raimondo.
<<Eh?>>.
<<Me
date er tritello co' la favetta? Ma nun ve pago. Er vostro padre me
segna>>.
<<Non
posso>>.
<<Ma
er vostro padre me conosce. So' Raimondo>>.
<<Proprio
perché siete Raimondo>>.
<<E
mbe?>>.
<<Il
conto è diventato troppo alto, e mio padre sta male. Ho bisogno di
soldi>>.
<<E
io che ye do da magnà a le bestie? Come fo?>>.
<<Sentite.
Qui il conto cresce di mille lire al giorno. Non sono un signore, io, che posso
permettermi questo. E anche voi non potrete pagare>>.
<<Ma
io mica ve frego. E' perché st'inverno ha gelato, e s'è tutto seccato. Mich'è
mia la colpa>>.
<<Lo
so, ma neanche mia, che posso andar fallito per voi>>.
<<Ma
voe nun ce annate fallito>>.
<<A
no? Sulla merce che voi comprate e non pagate, non ci guadagno neanche cinque
lire. La tengo perchè una bottega deve aver tutto. Voi me ne prendete più di
mille lire al giorno, a credito. Lo sapete che tutto il guadagno della bottega
è nelle vostre mani, e che per mangiare io vado sotto?>>
<<Ma
er vostro padre ...>>
<<Mio
padre un corno. V'ha agevolato fin troppo. Io non posso continuare. Non posso.
Capite?>>.
Ma
non capiva e non se ne andava; e continuava a gurdarmi con gli occhi di un cane,
perché non capiva, perché era povero.