IL TERREMOTO DEL 1976

Credevamo di farcela da soli. Ci avevano costretti a far sempre da soli. Eravamo fieri d'aver fatto tutto da soli. Il terremoto ha scosso anche questa certezza. Abbiamo avuto bisogno di tanti. Sono entrati nella nostra valle, vestiti in uniforme o in blue jeans. Erano soldati, erano vigili, erano scouts, universitari. Hanno cucinato per noi quando, inebetiti dallo spavento, non sapevamo più da che parte mettere le mani. Hanno distribuito vestiti, scarpe, cibo, con pazienza anche quando ognuno reclamizzava il suo bisogno. Hanno piantato tende, portato brande, costruito tavolati per sollevarle dal fango. Hanno estratto i nostri morti. L'alba del 7 maggio li aveva visti già sopra le macerie sulla collina di Pert. Poi abbiamo ripreso il nostro orgoglio e loro si sono eclissati.

Grazie...ovunque voi siate

 

 

 

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Quando "quella sera" la montagna finiva di scaricare massi a valle, fra nuvoloni di polvere e acre odore di silice, mi sono messo in macchina con nel cervello quel rombo orribile che si prolungava assurdamente. Le pupille avevano ancora impressa la strana visione di pareti che scherzavano piegandosi e ricomponendosi, che sobbalzavano scrollando via sassi e tegole. Continuavo a vedere quel noce, sul piazzale di Renzo, sussultare come scosso da un gigante che pretendeva noci fuori stagione. I tetti delle stalle abbassavano le ali per coprire il fianco lasciato vuoto dalla parete crollata. Ma la cosa che ricordo più distintamente, sono le urla di terrore impotente dei ragazzi sotto le finestre delle mamme già a letto. Le ho ancora qui che mi battono sui timpani. Quelle grida avevano rotto la improvvisa idea che cento o centomila convogli scendessero dai Marins sferragliando con fragore cupo e assordante. Come preso da spasimi atroci, il ventre della terra aveva preso a contorcersi con sussulti che obbligavano ad abbracciarci gli uni agli altri per tenerci in piedi. Il piccolo Costantino fra le mie braccia aveva solo gli occhi un po' stupiti mentre la sua mamma cercava di buttarsi sopra, quasi a coprirlo dalle montagne che nel buio sembravano sollevarsi e piombare su di noi. Lampi sismici spaccavano l'oscurità guizzando bassi lungo l'Arzino o saettando su verso il Venchiar. "Mio Dio, ma perché proprio ora la fine del mondo? Perché proprio a noi deve toccare". Con gli occhi chiusi per non vedere gli squarci della terra che avrebbero dovuto inghiottirci abbiamo pregato, chiamato la Vergine. Dopo 50 eterni secondi l'orco rabbioso che aveva squartato la terra si era calmato. Dai pendii ripidi, col rumore delle cascate o con tonfi sordi, sassi e rocce, sprizzate fuori dai loro strati millenari, rotolavano giù... giù. Abbiamo cominciato a chiamarci, a correre in casa a cercare la mamma o il papà che non avevano creduto alla prima scossa di avvertimento. Uscivano inebetiti come vermi da un guscio scricchiolante sotto una stretta potente. "Siamo vivi!". E ci si buttava tra le braccia dell'altro e ci si salutava con un bacio; con la gioia e la sorpresa di essere ancora tra i viventi. Fuori dalle case, in ogni borgata un fuoco raccoglieva le facce smunte dallo spavento e le voci che si intrecciavano per raccontare tremendi momenti. E pensare che credevamo d'esser solo noi della VaI d'Arzino le vittime di questo sisma furibondo che si ripeteva dopo quello del '28. Ecco dalle autoradio notizie incredibili: a Maiano, a Gemona, a Venzone tutto è sepolto. Forgaria è distrutta, Vito d'Asio è un cumulo di macerie. "A Pert c'è un morto, lo ha detto Vittorio al telefono". Qualcosa di immane sembra sovrastarci. Cominciamo a capire le proporzioni enormi di questo evento. Due uomini salgono urlando dai tornanti di Cerdevol. Sono usciti incolumi dalla vettura schiacciata dai massi a "Fraponti". Sono in preda a choc terribile, si aggregano con la coperta sulle spalle al gruppo di tutta Pielungo che si è ormai assiepato sulla piazza e ondeggia qua e là ad ogni sussulto di terremoto. Arriva un'ambulanza. Chiede dove sono i Cedolins. E' arrivata dalla strada di Clauzetto per ricoverare Elisa Ceconi, "la muta granda" rimasta sotto le macerie. Cerco di raggiungere Pert. Massi giganteschi hanno sfondato la strada e spezzato i muretti. Intimorito da valanghe di pietrisco che la montagna continua a scaricare, mi ritiro inciampando, correndo e rialzandomi. Sono le 4 e l'alba diffonde nell'aria, ancora afosa e insopportabile, un velo pallido fatto di luce e di foschia. Dai Battaias per un vecchio sentiero scendo a Chiamp. Trovo Walter che con la ruspa sta aprendo un varco lungo il CIapiat, dove persino le gallerie hanno ceduto sotto il bombardamento delle 21 e 2 minuti. Mi dicono che Pert è un cimitero. Salgo a scavare con i militari che sono lì già da due ore. Hanno estratto il povero Toni e sua moglie Margherita. Poco dopo rinveniamo la buona Albina. Il sole ormai batte forte quando riusciamo ad individuare il luogo dove un muro aveva fermato per sempre le giovani esistenze di Franco, di Rosina e del loro bambino. Sono sei dunque le vittime in questo angolo dell'Arzino. Mario e Pietro sono gravi in ospedale, ma se la caveranno.

Adriano Bianco