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Credevamo di farcela da
soli. Ci avevano costretti a far sempre da soli. Eravamo fieri d'aver fatto
tutto da soli. Il terremoto ha scosso anche questa certezza. Abbiamo avuto
bisogno di tanti. Sono entrati nella nostra valle, vestiti in uniforme o in
blue jeans. Erano soldati, erano vigili, erano scouts, universitari. Hanno
cucinato per noi quando, inebetiti dallo spavento, non sapevamo più da che
parte mettere le mani. Hanno distribuito vestiti, scarpe, cibo, con pazienza
anche quando ognuno reclamizzava il suo bisogno. Hanno piantato tende,
portato brande, costruito tavolati per sollevarle dal fango. Hanno estratto i
nostri morti. L'alba del 7 maggio li aveva visti già sopra le macerie sulla
collina di Pert. Poi abbiamo ripreso il nostro orgoglio e loro si sono
eclissati.
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Quando "quella sera"
la montagna finiva di scaricare massi a valle, fra nuvoloni di polvere e acre
odore di silice, mi sono messo in macchina con nel cervello quel rombo
orribile che si prolungava assurdamente. Le pupille avevano ancora impressa
la strana visione di pareti che scherzavano piegandosi e ricomponendosi, che
sobbalzavano scrollando via sassi e tegole. Continuavo a vedere quel noce,
sul piazzale di Renzo, sussultare come scosso da un gigante che pretendeva
noci fuori stagione. I tetti delle stalle abbassavano le ali per coprire il
fianco lasciato vuoto dalla parete crollata. Ma la cosa che ricordo più
distintamente, sono le urla di terrore impotente dei ragazzi sotto le
finestre delle mamme già a letto. Le ho ancora qui che mi battono sui
timpani. Quelle grida avevano rotto la improvvisa idea che cento o centomila
convogli scendessero dai Marins sferragliando con fragore cupo e assordante.
Come preso da spasimi atroci, il ventre della terra aveva preso a contorcersi
con sussulti che obbligavano ad abbracciarci gli uni agli altri per tenerci
in piedi. Il piccolo Costantino fra le mie braccia aveva solo gli occhi un
po' stupiti mentre la sua mamma cercava di buttarsi sopra, quasi a coprirlo
dalle montagne che nel buio sembravano sollevarsi e piombare su di noi. Lampi
sismici spaccavano l'oscurità guizzando bassi lungo l'Arzino o saettando su
verso il Venchiar. "Mio Dio, ma perché proprio ora la fine del mondo?
Perché proprio a noi deve toccare". Con gli occhi chiusi per non vedere
gli squarci della terra che avrebbero dovuto inghiottirci abbiamo pregato,
chiamato la Vergine. Dopo 50 eterni secondi l'orco rabbioso che aveva squartato
la terra si era calmato. Dai pendii ripidi, col rumore delle cascate o con
tonfi sordi, sassi e rocce, sprizzate fuori dai loro strati millenari,
rotolavano giù... giù. Abbiamo cominciato a chiamarci, a correre in casa a
cercare la mamma o il papà che non avevano creduto alla prima scossa di
avvertimento. Uscivano inebetiti come vermi da un guscio scricchiolante sotto
una stretta potente. "Siamo vivi!". E ci si buttava tra le braccia
dell'altro e ci si salutava con un bacio; con la gioia e la sorpresa di
essere ancora tra i viventi. Fuori dalle case, in ogni borgata un fuoco
raccoglieva le facce smunte dallo spavento e le voci che si intrecciavano per
raccontare tremendi momenti. E pensare che credevamo d'esser solo noi della
VaI d'Arzino le vittime di questo sisma furibondo che si ripeteva dopo quello
del '28. Ecco dalle autoradio notizie incredibili: a Maiano, a Gemona, a
Venzone tutto è sepolto. Forgaria è distrutta, Vito d'Asio è un cumulo di
macerie. "A Pert c'è un morto, lo ha detto Vittorio al telefono".
Qualcosa di immane sembra sovrastarci. Cominciamo a capire le proporzioni
enormi di questo evento. Due uomini salgono urlando dai tornanti di Cerdevol.
Sono usciti incolumi dalla vettura schiacciata dai massi a
"Fraponti". Sono in preda a choc terribile, si aggregano con la
coperta sulle spalle al gruppo di tutta Pielungo che si è ormai assiepato
sulla piazza e ondeggia qua e là ad ogni sussulto di terremoto. Arriva
un'ambulanza. Chiede dove sono i Cedolins. E' arrivata dalla strada di
Clauzetto per ricoverare Elisa Ceconi, "la muta granda" rimasta
sotto le macerie. Cerco di raggiungere Pert. Massi giganteschi hanno sfondato
la strada e spezzato i muretti. Intimorito da valanghe di pietrisco che la
montagna continua a scaricare, mi ritiro inciampando, correndo e rialzandomi.
Sono le 4 e l'alba diffonde nell'aria, ancora afosa e insopportabile, un velo
pallido fatto di luce e di foschia. Dai Battaias per un vecchio sentiero
scendo a Chiamp. Trovo Walter che con la ruspa sta aprendo un varco lungo il
CIapiat, dove persino le gallerie hanno ceduto sotto il bombardamento delle
21 e 2 minuti. Mi dicono che Pert è un cimitero. Salgo a scavare con i
militari che sono lì già da due ore. Hanno estratto il povero Toni e sua
moglie Margherita. Poco dopo rinveniamo la buona Albina. Il sole ormai batte
forte quando riusciamo ad individuare il luogo dove un muro aveva fermato per
sempre le giovani esistenze di Franco, di Rosina e del loro bambino. Sono sei
dunque le vittime in questo angolo dell'Arzino. Mario e Pietro sono gravi in
ospedale, ma se la caveranno.
Adriano Bianco
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