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ARLES

È per lui il Sud, con gli stessi colori e la stessa serenità del Giappone: ed è il luogo in cui esplode la sua follia. Vi arriva il 20 febbraio 1888, ma trova un paesaggio nordico, perché la cittadina è sotto la neve. Preferirà darne una veduta d’insieme in un quadro fatto “en plein air” in giugno, Sera d’estate, campo di grano al tramonto, con il sole che scende dietro l’arena romana e le ciminiere, il grano piegato dal mistral.

Si sistema inizialmente presso il ristorante-albergo Carrel in rue Cavalerie 30, per poi trasferirsi in una stanza del Café in place Lamartine (Il caffè di notte), «un posto dove ci si poteva rovinare, diventare pazzi o commettere crimini», racconta a Theo. In maggio aveva affittato quattro stanze nell’ala destra di una casetta presso la ferrovia, la cosiddetta Casa gialla. Va ad abitarvi solo alla metà di settembre, sognando di ospitare una comunità di artisti: l’unico che accetterà l’invito sarà Gauguin, che arriverà il 23 ottobre 1888.

Della cittadina van Gogh restituisce in alcuni dipinti scorci e atmosfere: giorni autunnali, grigi e gonfi di pioggia (Il ponte di Trinquetaille), atmosfere cupe come in Les Alyscamps, il cimitero gallo-romano disseminato di sarcofagi e di foglie cadute, viali e parchi, «una strada con castagni dai fiori rosa, un ciliegio in fiore, un glicine» (Strada con castagni in fiore).

Va via dalla città nei primi giorni di maggio del 1889, per essere rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy: ad Arles infatti la sua pazzia era esplosa. Dopo l’episodio del taglio dell’orecchio (notte tra il 23 e il 24 dicembre 1888), le sue crisi nervose erano divenute più frequenti, insostenibili per i vicini, che presentarono anche una petizione al sindaco per farlo internare o rimandarlo in famiglia. D’altra parte, secondo van Gogh, anche gli abitanti di Arles erano aggrediti da malesseri simili ai suoi: «Tutti qui soffrono sia di febbre sia di allucinazioni o di follia, e cos“ ci si capisce come membri di una stessa famiglia».

 

ARTAUD

«C’è in ogni demente un genio incompreso: l’idea che gli brillava nella testa sgomentò; e solo nel delirio ha potuto trovare una via d’uscita agli strangolamenti che la vita gli aveva predisposto»: si deve ad Antonin Artaud, poeta e teorico del teatro francese, uno dei testi più intensi sulla vicenda di Vincent, Van Gogh, le suicidé de la societé (1947). Accomunato a van Gogh da un destino di follia, Artaud ribalta la concezione che vuole romanticamente uniti i due termini di genio e follia: è la società che non riesce a tollerare la creatività e che dunque relega l’artista nella malattia, nella follia.

L’immagine che più coinvolge Artaud è quella dei corvi neri, degli uccelli presagi di morte che piombano sul Campo di grano due giorni prima della morte di van Gogh: «Non è comune vedere un uomo, con nel ventre la fucilata che lo uccise, ficcare su una tela corvi neri e sotto una specie di pianura livida forse, vuota in ogni caso, in cui il colore vinaccia della terra si scontra perdutamente con il giallo sporco delle messi. Ma nessun altro pittore tranne van Gogh avrebbe saputo trovare come lui, per dipingere i suoi corvi, questo nero come di tartufi, questo nero “da ricca scorpacciata” e nello stesso tempo quasi escrementizio delle ali dei corvi sorpresi dal lucore declinante della sera».

«Van Gogh ha scagliato i suoi corvi come i microbi neri della sua milza di suicidato a qualche centimetro dall’alto e come dal basso della tela, seguendo lo sfregio nero della linea in cui il battito del loro ricco piumaggio fa pesare, sul rimescolarsi della tempesta terrestre, la minaccia di un soffocamento dall’alto. Eppure il quadro è ricco. Ricco, sontuoso e calmo il quadro. Degno accompagnamento per la morte di colui che, in vita sua, fece volteggiare tanti soli ebbri su tanti covoni liberi da ogni vincolo, e che, disperato, con una fucilata nel ventre, non seppe non inondare di sangue e di vino un paesaggio, inzuppare la terra di un’ultima emulsione, gioiosa al contempo, e tenebrosa, con un sapore di vino inacidito e di aceto andato a male».

 

AURIER

«È un iperesteta, nettamente sintomatizzato, che percepisce con una intensità anormale, e forse anche dolorosa, i caratteri segreti e impercettibili delle linee e delle forme, ma ancor più i colori, le luci, le sfumature invisibili all’occhio normale, le magiche iridescenze delle ombre»: questa è una frase di Albert Aurier, autore dell’unico testo critico pubblicato mentre van Gogh era in vita, nel gennaio 1890, su “Le Mercure de France”: Les Isolés, Vincent van Gogh. Albert Aurier, allora venticinquenne, aveva conosciuto l’opera di van Gogh attraverso Émile Bernard che gli aveva mostrato alcune sue lettere con schizzi. Rintracciò poi i dipinti da Theo e da Père Tanguy.

Letterato simbolista, Aurier è attratto da «cieli or incisi nell’abbagliamento degli zaffiri o delle turchesi, or intrisi di non so quali zolfi infernali, caldi, deleteri e accecanti», dai «cipressi che innalzano le loro allucinanti silhouettes di fiamma, ma più propriamente nere» (Campo di grano con cipresso), dai «frutteti bianchi, rossi e dorati, come sogni chimerici di vergini» (Il frutteto bianco), dalle «aiuole di fiori, che più che fiori sono una sontuosa gioielleria di rubini, agate, onice, smeraldi, corindoni, crisoberilli, ametiste, calcedonio» (Giardino con fiori).

Come reagì Vincent? Scrisse poco dopo alla sorella: «Quando lessi l’articolo divenni quasi triste perché pensavo: “Bisognerebbe essere così e io mi sento inferiore”». Scrisse una lettera anche a Aurier, in cui, con grande generosità, indicò quanto doveva all’arte di Monticelli e di Gauguin: «Quando dite: “È il solo che concepisca il cromatismo degli oggetti con questa intensità, con questa qualità da metallo prezioso o da gemma”; se volete andare a vedere, da mio fratello, alcuni bouquets di Monticelli - bouquets bianchi, blu myosotis o arancioni - allora capirete cosa voglio dire [...]. Questo per dire che sul mio nome sono state spese delle parole che fareste meglio a dire di Monticelli, al quale devo molto. Inoltre devo molto a Paul Gauguin, con cui ho lavorato per qualche mese ad Arles e che, d’altra parte, conoscevo già a Parigi». E regalò a Aurier un quadro, Cipressi con due donne, perché aveva apprezzato la descrizione dei suoi cipressi come fiamme.

Il critico concludeva il suo articolo con una domanda, alla quale oggi è possibile rispondere: «Questo artista robusto e schietto, veramente di razza, con le sue rozze mani di gigante, i suoi isterismi da donnetta, l’anima d’illuminato, tanto originale e solo in mezzo a questa nostra ridicola arte odierna, potrà conoscere un giorno - tutto è possibile - la gioia della riabilitazione, le carezze pentite della moda? Forse».

 

AUVERS

Auvers-sur-Oise (La chiesa di Auvers) è una piccola cittadina dell’Ile-de-France (Case a Auvers), il luogo in cui van Gogh muore. Vi arriva il 19 maggio 1890 e prende alloggio nella mansarda di una pensione di proprietà di Arthur-Gustave Ravoux (Ritratto di Adeline Ravoux).

Erano stati i Pissarro a consigliare di trasferirsi dall’ospedale di Saint-Rémy a Auvers, dove conoscevano il dottor Gachet, medico omeopatico, con cui van Gogh stringe un’amicizia nata sui comuni interessi artistici.

Nei due mesi trascorsi a Auvers la sua attività è intensa: scorci del villaggio con le case dai tetti di paglia (La casa di Père Pilon), strade che si arrampicano (Strada con scala), ritratti (Contadina con cappello di paglia giallo), campi assolati o sotto il cielo nuvoloso, le rive del fiume Oise (Barche a remi da affittare): tutto è registrato in violenti contrasti di colore, con una tavolozza accesa e chiara, con una pennellata robusta e frenetica.

Esplora i dintorni e ripercorre i luoghi che già altri artisti avevano scelto prima di lui: vi aveva soggiornato Pissarro (L’Hermitage a Pontoise), e anche Cézanne, nei primi anni Settanta: a Auvers era nato uno dei suoi capolavori, La casa dell’impiccato.

A Auvers si era trasferito Charles-François Daubigny (Mattino sull’Oise), particolarmente amato da van Gogh, che lascia due quadri con Il giardino di Daubigny, uno dei quali destinato alla vedova del pittore.

Il tempo che van Gogh passa a Auvers è breve, due mesi: in un campo assolato si spara il 27 luglio e muore prima dell’alba del giorno 28. Il dottor Gachet traccia un disegno che lo ritrae sul letto di morte.

 

BATAILLE

Georges Bataille, lo scrittore francese di formazione surrealista noto soprattutto per i suoi testi sull’erotismo e la morte, pubblicò nel 1930 sulla rivista “Documents” un’interessante lettura dell’automutilazione di van Gogh, La Mutilation sacrificielle et l’oreille coupée de Vincent van Gogh. È un testo in cui il gesto del pittore è letto come atto sacrificale al dio sole.

«È relativamente facile appurare fino a che punto la vita di van Gogh è dominata dai rapporti sconvolgenti da lui intrattenuti con il sole [...]. I dipinti di sole dell’Uomo dall’orecchio tagliato sono abbastanza conosciuti, abbastanza insoliti per avere sconcertato: essi non diventano intelligibili che dal momento in cui sono osservati come l’espressione stessa della persona (o se si vuole della malattia) del pittore».

«Il sole non appare “in tutta la sua gloria” che nel 1889 durante il soggiorno del pittore al manicomio di Saint-Rémy, cioè dopo la mutilazione. La corrispondenza di questo periodo permette d’altra parte di mostrare che l’ossessione raggiungeva qui il suo punto culminante. È allora che in una lettera a suo fratello van Gogh impiega l’espressione di “sole in tutta la sua gloria” ed è probabile che si esercitasse a fissare dalla sua finestra questa sfera abbagliante (cosa che un tempo certi alienisti hanno ritenuto un segno di follia incurabile). Dopo la partenza da Saint-Rémy (gennaio 1890) e fino al suicidio (luglio 1890) il sole di gloria sparisce quasi del tutto dalle tele».

Ma per capire l’importanza e lo sviluppo dell’ossessione di van Gogh, è necessario avvicinare ai soli, i girasoli, il cui largo disco aureolato di corti petali richiama il disco del sole che d’altra parte lo stesso fiore non cessa di fissare, seguendolo dall’inizio alla fine del giorno. Questo fiore è ben conosciuto sotto il nome stesso di sole e nella storia della pittura è legato al nome di Vincent van Gogh, il quale scriveva che “aveva un po’ il girasole” (come si dice che Berna ha l’orso, o Roma la lupa)».

«I rapporti fra questo pittore (che si identifica successivamente con delle fragili candele, con dei girasoli ora freschi ora appassiti) e un ideale di cui il sole è la forma più folgorante apparirebbero cos“ analoghi a quelli che gli uomini intrattenevano un tempo con gli dèi, almeno finché questi li riempivano ancora di stupore; la mutilazione interverrebbe normalmente in questi rapporti come un sacrificio e rappresenterebbe l’intenzione di somigliare perfettamente a un termine ideale, caratterizzato abbastanza in generale, nella mitologia, come dio solare, per mezzo della lacerazione e del distacco di proprie parti».

«Non vi è, in effetti, alcuna ragione di separare l’orecchio di Arles [...] dal celebre fegato di Prometeo. Se si accetta l’interpretazione che identifica l’aquila provvida, l’aetos prometheus dei Greci, con il dio che ha rubato il fuoco alla ruota del sole il supplizio del fegato presenta un tema conforme alle diverse leggende di “sacrificio del dio”. [...] L’aquila-dio che si confonde nell’immaginazione antica con il sole, l’aquila solitaria che unica può fissare gli occhi nel sole contemplandolo “in tutta la sua gloria”, l’essere icariano che va a cercare il fuoco del cielo non è in fondo nient’altro che un automutilatore, un Vincent van Gogh».

 

BERNARD

Per van Gogh Émile Bernard fu forse l’amico più fedele. Secondo la sua testimonianza, i due si incontrano nell’atelier di Cormon, che van Gogh frequenta dalla primavera del 1886: probabilmente negli ultimi tempi della permanenza di Bernard, che proprio quell’anno fu cacciato dalla scuola per eccessivo spirito di indipendenza.

Iniziano a dipingere insieme lungo la Senna e a frequentare Asnières (Il parco Voyer d’Argenson; Il ristorante “de la Sirène”), dove vivevano i genitori di Bernard (Ponte ad Asnières), e la Grande Jatte: «Si metteva in cammino con una grande tela sulle spalle - racconta Bernard -, poi la suddivideva in tanti riquadri, a seconda dei soggetti; la sera la riportava tutta piena; ed era come un piccolo museo ambulante, in cui erano conservate tutte le emozioni della giornata».

Pensieri sull’arte, schizzi di dipinti che stava realizzando, occupazioni della giornata, sensazioni, emozioni: a Bernard van Gogh racconta tutto questo nelle 22 lettere che gli invia dopo la sua partenza da Parigi, in un’ideale comunanza di ideali, di fervori e progetti. E durante il soggiorno ad Arles, Bernard invia il proprio autoritratto all’amico lontano.

Fu Bernard a far conoscere la pittura di Vincent al critico Aurier, l’unico autore di un testo su van Gogh pubblicato mentre l’artista era in vita. Fu tra i pochi che parteciparono al funerale di Vincent a Auvers-sur-Oise; dipinse due anni dopo una tela, La sepoltura di van Gogh: insolitamente affollata, visto che a quei funerali, oltre a lui, c’erano solo Theo, Dries Bonger, Lucien Pissarro e Père Tanguy.

Nel 1892, organizza una mostra di van Gogh alla Galerie Le Barc de Boutteville.

 

CINEMA

La tormentata vita di van Gogh ha ispirato anche il cinema; il film forse più famoso è Lust for life, girato nel 1956 da Vincent Minnelli, interpretato da Kirk Douglas.

Più recenti sono Vincent and Theo di Robert Altman, del 1990, interpretato da Tim Roth; Van Gogh di Maurice Pialat del 1991, interpretato da Jacques Dutronc; e un episodio di Dreams di Akira Kurosawa del 1990, con Martin Scorsese.

 

DONNE

«Bisogna che una donna soffi su di te perché tu sia un uomo»; e ancora: «Che un uomo e una donna possano fare una cosa sola, diventare una cosa sola, e non due metà, io pure lo credo». Vincent cita cos“ L’Amour di Michelet, ma i suoi incontri con le donne furono pieni di sofferenza (Sorrow).

Il primo grande dolore sentimentale lo vive a Londra, nel 1874, quando si innamora di Eugénie Loyer, figlia della sua padrona di casa (La casa di Hackford Road). La ragazza lo rifiuta perché ha già un fidanzato segreto, e Vincent cade in una profonda depressione.

Nell’estate del 1881 a Etten si innamora della cugina Cornelia Adriana Vos-Stricker, detta Kee, vedova con un bambino: assillata dalle sue richieste, fugge ad Amsterdam. Vincent racconta: «Vivevo in preda a un’ansietà che diveniva poco a poco insopportabile, perché Kee si ostinava a tacere, perché non ricevevo mai la minima parola in risposta alle mie lettere. Allora sono andato ad Amsterdam. Là mi dissero: “Quando ti avvicini a questa casa, Kee se ne va. Alla tua decisione ‘O lei o nessun’altra’, lei replica ‘Lui in nessun caso’. La tua perseveranza è disgustosa”. Allora misi le mie dita sulla fiamma della lampada e domandai: “Permettetemi di vederla per lo stesso tempo che riesco a tenere la mano sul fuoco”. Ma loro hanno soffiato sulla lampada e hanno risposto: “Non la vedrete”. [...] Allora, ho sentito morire il mio amore. Non è morto del tutto subito, ma abbastanza in fretta, comunque, e un vuoto, un vuoto immenso, si è scavato nel mio cuore».

All’Aja, nel 1882, incontra la prostituta Clasina Maria Hoornik, detta Sien, una donna alcolizzata dal volto devastato dal vaiolo, sifilitica (Sien con sigaro), che aveva alcuni figli e ne attendeva un altro (Sien con fanciulla in grembo). Ne fa la sua modella e la ritrae in numerosi disegni, acquerelli e incisioni (The Great Lady). Spiega a van Rappard: «Non ho mai avuto un’assistente tanto brava quanto questa donna brutta e sfiorita. Ma io la vedo bella e in lei trovo ciò che voglio; ha avuto una vita dura e il dolore e le avversità hanno lasciato su di lei il loro segno. Ora di lei posso fare qualcosa». Con Sien convive per un periodo (Sien che cuce) e decide di sposarla, ma i familiari non accettano la scelta e Theo lo informa che i genitori vorrebbero farlo interdire. Racconta al fratello: «Non è la prima volta che sono incapace di resistere a quel senso di affetto - s“, di affetto - e di amore per quelle donne che vengono condannate e maledette e disprezzate dagli uomini di chiesa dal pulpito». Lascia L’Aja e Sien nel settembre 1883, avendo perdute tutte le speranze di redimerla.

A Nuenen nell’estate 1884 una storia d’amore finisce quasi in tragedia: chiede infatti alla trentanovenne Margot Begemann di sposarlo, ma di fronte all’opposizione delle famiglie, la donna «in un momento di crisi si avvelenò»; salvata, viene mandata a Utrecht. Nel settembre 1885 si sparge a Nuenen una diceria che gli attribuisce la gravidanza di Gordina de Groot, una contadina che gli faceva da modella: il curato cattolico proibisce allora ai parrocchiani di posare per lui.

A Parigi, ha «amori complicatissimi e abbastanza sconvenienti»: così scrive alla sorella Wil. Ha sicuramente una breve relazione, nel 1887, con Agostina Segatori, che gestiva il Café du Tambourin, sul boulevard de Clichy.

Alla storia è passata anche Rachel, la prostituta del bordello di rue Chiavari ad Arles, frequentato sia da Vincent che da Gauguin, alla quale consegnò il suo orecchio mozzato.

 

ESPOSIZIONI

La presenza di van Gogh nelle mostre ufficiali è limitata a pochi episodi. Al Salon des Artistes Indépendants di Parigi espone per la prima volta nel marzo 1888: invia tre quadri, due vedute parigine (ambedue oggi intitolate Lotti di terreno a Montmartre) e la natura morta Romans parisiens.

Al Salon des Artistes Indépendants del settembre 1889 sono esposti Notte stellata sul Rodano e le piante di Iris del giardino dell’ospedale di Saint-Rémy.

Nel 1890 espone all’VIII mostra del gruppo Les Vingts di Bruxelles. Invia sei dipinti: due girasoli (forse il Vaso con dodici girasoli e il Vaso con quattordici girasoli), il Vigneto rosso, Tronchi d’albero con veduta di Arles, Il parco dell’ospedale Saint-Paul e un paesaggio con un Campo al sorgere del sole. In quell’occasione il pittore Henri de Groux dichiara di non voler esporre nella stessa sala di Vincent, che defin“ «ignorante e ciarlatano», provocando la sfida a duello di Toulouse-Lautrec. Anche Signac non fu benevolo nel giudizio sui dipinti esposti: «La tomba del giallo, del cromo e del verde veronese: Tournesols, Le lierre, La vigne rouge».

Dieci tele sono poi presenti al Salon des Artistes Indépendants del 1890: tra queste, Sottobosco e Gelso.

 

FAMIGLIA

«Io ti chiedo molto apertamente come vanno le cose fra noi, sei anche tu un van Gogh? Per me tu sei sempre stato Theo. Quanto a me, sono di carattere assai diverso dagli altri membri della famiglia, non sono un vero van Gogh»: cos“ Vincent prende le distanze dalla sua famiglia, che considerava bigotta e piccolo borghese, dedita al commercio e segnata da eccessivo perbenismo.

Ebbe con i genitori rapporti drammatici, segnati da incomprensioni, come racconta a Theo in una lettera da Nuenen: «Mi rendo conto che Pa e Ma pensano a me per istinto [...] hanno la stessa paura di accogliermi in casa che avrebbero se si trattasse di un grosso cagnaccio. Quello magari si metterebbe a correre per le stanze con le zampe bagnate, sarebbe rozzo, travolgerebbe tutto, strada facendo. E abbaia forte. In poche parole, è uno sporco animale [...] Ma la bestia ha una storia umana e, anche se è soltanto un cane, ha un’anima umana, e molto sensibile anche».

La famiglia van Gogh è documentata già nel Seicento, e i suoi componenti erano di solito avviati alla carriera religiosa e al mercato dell’arte. Il padre, Theodorus, era pastore calvinista, seguace del cosiddetto partito di Groningen, un’ala liberale della chiesa olandese riformata. Alcuni zii paterni svolsero un ruolo determinante nella vita di Vincent: i mercanti d’arte Hendrick Vincent, Cornelis Marinus e il padrino Vincent; il viceammiraglio Johannes, che viveva ad Amsterdam, presso il quale il pittore trascorse un intero anno.

La madre era Anna Cornelia Carbentus, figlia di un rilegatore della casa reale. Ebbe sette figli: nel 1852 un primo Vincent, morto alla nascita; nel 1853 Vincent il pittore; nel 1855 Anna Cornelia; nel 1857 Theodorus; nel 1859 Elisabetha Huberta (che sarà autrice nel 1910 di una biografia del pittore); nel 1862 Willemien Jacoba e nel 1867 Cornelis Vincent.

L’artista ebbe uno stretto legame solo con il fratello Theo e la sorella Willemien, destinatari di molte delle sue lettere.

 

FOLLIA

Della malattia di van Gogh sospettarono già la gente della Drenthe che, racconta a Theo, lo considerava «un lunatico» e perfino «un assassino, un vagabondo».

E anche i suoi amici di Parigi notarono strane reazioni: Hartrick lo descriveva con «un aspetto poco diverso da quello di un pazzo» e raccontava che una volta, furente per la chiusura dello studio di Cormon, «si aggirava impugnando una pistola per sparare a Cormon».

Lucien Pissarro - che lo ha ritratto in un disegno con il critico Fénéon - raccontava che van Gogh disponeva i suoi lavori «per la strada tutti in fila contro il muro, con gran sollazzo dei passanti» e Signac ricordava che nelle discussioni «gridava e gesticolava, stretto alle mie calcagna, brandendo le sue grandi tele coperte di colore fresco che schizzava addosso a lui e ai passanti».

Vincent raccontò poi a Gauguin che quando aveva lasciato Parigi nel febbraio 1888 era «seriamente malato nel corpo e nella mente e quasi alcolizzato per tentare di calmare il furore e la tensione che mi stavano riducendo a mal partito».

Ma l’episodio più noto, quello del taglio dell’orecchio, avviene ad Arles, nel dicembre 1888: iniziano i suoi ricoveri in ospedale (Corsia dell’ospedale di Arles), e di lui si prende cura il dottor Félix Rey. Alle sollecitudini del medico, Vincent così reagisce: «... dice che invece di mangiare a sufficienza e regolarmente, io mi sono sostenuto a caffè e alcool. Io ammetto tutto questo, ma è pur vero che per raggiungere l’alta nota gialla che ho raggiunto quest’estate, è stata pur necessaria un po’ di esaltazione».

Nell’ospedale Saint-Paul a Saint-Rémy, dove viene ricoverato nel maggio 1889, i medici diagnosticano un’epilessia. Le continue crisi nervose debordano fino al suicidio, avvenuto a Auvers-sur-Oise nel luglio 1890. La sua malattia è stata in seguito variamente identificata: si è parlato di schizofrenia e di manifestazioni degenerative della sifilide e dell’assenzio.

 

GAUGUIN

Van Gogh e Paul Gauguin (I miserabili) si conoscono a Parigi nell’inverno 1886-1887. Quando Vincent va ad Arles, infervorato dall’idea di fondare una comunità di artisti, chiede all’amico di raggiungerlo. Gauguin arriva ad Arles il 23 ottobre 1888; ripartirà il 25 dicembre, dopo che Vincent si è mutilato l’orecchio sinistro.

Vincent aveva allestito la stanza dell’amico come un «boudoir per signora», e aveva appeso alle pareti due suoi dipinti con girasoli (Monaco; Londra). Gauguin pensò di fare «il suo ritratto mentre dipingeva la natura morta che tanto amava, i suoi girasoli. Quando ebbi finito mi disse: “S“, sono io, ma diventato pazzo”» (Van Gogh che dipinge girasoli).

In quei due mesi gli stessi soggetti sono nelle loro tele: il cimitero gallo-romano di Les Alyscamps (Les Alyscamps, viale di Arles; Veduta di Les Alyscamps), Madame Ginoux (L’Arlesiana; Caffè ad Arles), le Donne nel giardino dell’ospedale di Arles che per van Gogh diventa Ricordo del giardino di Etten.

La loro convivenza si rivela però impossibile: «Nelle nostre discussioni - racconta van Gogh - c’è un’elettricità eccessiva, e talora ne usciamo con il cervello a terra, esattamente come succede agli accumulatori elettrici». E Gauguin anni dopo scriverà (Avant et après, 1903): «Si avvertiva, in un certo qual modo, l’imminenza di uno scontro tra queste due nostre nature, l’una vulcanica, l’altra pure irrequieta ma più raccolta. Trovai in ogni cosa e dovunque un disordine che mi infastidiva. La cassetta dei colori conteneva a malapena i tubetti spremuti, mai richiusi, e malgrado il disordine e la confusione, un’armonia particolare fluiva dalla tela. Come dalle sue parole. Daudet, de Goncourt, la Bibbia bruciava questo cervello di olandese».

Van Gogh riconoscerà sempre l’apporto dell’amico che, tornato da poco da Pont-Aven, aveva messo a punto in quel soggiorno la sua teoria di simbolismo sintetico. Verso la metà di novembre scrive a Theo: «Gauguin, pur nelle nostre continue contraddizioni, mi ha quasi convinto che è ora che io cambi qualcosa nella mia pittura. E cos“ sto cominciando a dipingere a memoria». Altrove: «Da Gauguin attinsi il coraggio di immaginare le cose, e, certo, le cose immaginate esprimono una sostanza più misteriosa».

La versione di Gauguin: «Quando arrivai ad Arles, Vincent annaspava in pieno neoimpressionismo, senza trovare una soluzione. Non perché questa scuola come tutte le altre fosse cattiva, ma era lontana dalla sua natura indipendente e cos“ poco paziente. [...] Cercai allora di aiutarlo e mi fu facile perché trovai un terreno ricco e fertile. Come tutte le nature estrose e segnate da una forte personalità, Vincent non provava alcun timore né insofferenza verso chi gli era vicino. Da quel giorno van Gogh fece enormi progressi. Sembrava capirsi, e da qui tutta quella serie di soli in piena luce di sole. [...] Quando arrivai ad Arles, van Gogh ancora cercava se stesso, mentre io, più vecchio, ero già maturo. Devo qualcosa a Vincent. Con la certezza di averlo aiutato, la conferma delle mie idee in pittura, e nei momenti difficili il ricordo che c’è qualcuno ancora più infelice di noi».

Dal punto di vista artistico, lo scambio pare essere unilaterale, dunque, secondo Gauguin: di quell’amicizia sembrava rimanergli solo l’autoritratto come bonzo che van Gogh gli aveva dedicato. Eppure, anni dopo, ormai a Tahiti, il ricordo di van Gogh sembra molto vivo: dipinge infatti una Sedia con girasoli, simbolicamente vicina alla Sedia di Gauguin - evocatrice di un’assenza - dipinta da Vincent quando erano insieme ad Arles.

 

GIAPPONE

«Japonaiserie for ever», cos“ esclama van Gogh in una lettera a Theo nel novembre 1885 da Anversa, citando l’entusiasmo dei fratelli Goncourt per il Giappone. E tappezza la sua stanza di Anversa con stampe giapponesi.

La passione viene alimentata a Parigi, dove a poca distanza dalla casa di rue Lepic frequenta il negozio di Sigfried Bing, uno dei primi mercanti di “giapponeserie”, e con Theo mette insieme una collezione che nel marzo 1887 espone al Café du Tambourin. Nell’autunno 1887 dipinge tre soggetti derivati da stampe giapponesi: Japonaiserie: susino in fiore, Japonaiserie: ponte sotto la pioggia, ripresi da Hiroshige e Japonaiserie: Oiran da Kesai Eisen, ripreso dalla copertina di "Paris Illustré" del maggio 1886.

L’inserimento di stampe giapponesi negli sfondi dei suoi dipinti è frequente, la riproposizione è puntuale, come in due ritratti di Père Tanguy (uno al Musée d’Orsay, l’altro di collezione privata), in un Autoritratto del dicembre 1887, nel ritratto di Agostina Segatori, fino all’Autoritratto di Londra del gennaio 1889 in cui appare con l’orecchio bendato.

In realtà van Gogh si avvicina al mondo giapponese quando era ormai trascorsa la prima fase di assimilazione e ripresa da parte dei pittori impressionisti, iniziata negli anni Sessanta. Quasi nessuno degli impressionisti della prima generazione rimase indifferente di fronte alle scene di vita quotidiana proposte nelle stampe giapponesi, alla loro concezione spaziale: da Whistler (Capriccio in porpora e oro), a Manet (Ritratto di Émile Zola), a Monet (La Japonaise), a Degas.

Un fenomeno che van Gogh registra puntualmente, come scrive a Theo nell’estate 1888: «La grande tradizione giapponese sembra travasata negli interessi dell’impressionismo francese, pur se nella sua sfera d’origine è ormai in decadenza; è questo scambio culturale l’aspetto di gran lunga più importante del commercio delle giapponeserie».

Ancora negli anni Ottanta-Novanta, gli artisti francesi ripensavano la lezione orientale e tra gli amici di van Gogh i più sensibili interpreti furono Toulouse-Lautrec, che si fece perfino fotografare in costume da samurai, e soprattutto Gauguin (Natura morta con stampa giapponese), che elaborò molte delle concezioni estetiche giapponesi.

Per van Gogh, non si tratta solo di una passione da collezionista, non si tratta di fascino dell’esotico: esistono motivazioni tecniche e un’idealizzazione della pratica artistica giapponese di cui parlerà diffusamente soprattutto durante il suo soggiorno ad Arles. Dal punto di vista tecnico, lo affascinava per esempio l’increspatura della carta: anni dopo, l’amico Hartrick ricorderà: «Mi ha fatto rendere conto di una serie di “crêpes”, come le chiamava, stampe giapponesi riprodotte su una sorta di carta spiegazzata, che dava l’effetto di crespo. Era evidente che lo avevano molto impressionato e dal modo in cui ne parlava ho capito con certezza che anche lui nei suoi oli cercava di ottenere un effetto analogo di piccole ombre portate attraverso la ruvidità della superficie e, alla fine, c’è anche riuscito». Un effetto che si ritrova in molte nature morte, in diversi autoritratti e soprattutto nella Donna italiana dell’inverno 1887-1888.

Ma è con il trasferimento nel Sud della Francia che l’influsso dell’arte giapponese diventa più autonomo e profondo. Il Sud era per lui il Giappone, come scrive a Bernard: «Ho ancora sempre presente nella memoria l’emozione causatami dal tragitto percorso per venire da Parigi ad Arles. Come spiavo se per caso non fossi già in Giappone».

Nella luce mediterranea ricercava la bellezza dei colori giapponesi, la serenità orientale, come racconta a Bernard in una lettera del marzo 1888: «Vorrei cominciare a scriverti, secondo la promessa, esprimendoti la sensazione della bellezza di questo paesaggio simile al Giappone per l’ideale di una gamma di colori contrastanti dalla piena luce solare; i riflessi delle acque sono di un effetto azzurro smeraldo nella stessa gamma che vediamo nelle sete giapponesi [...]. In questi paesi del Mezzogiorno si respira una luminosa serenità che di per sé costituisce una risorsa creativa adeguata a coloro che cercano l’evasione dall’Occidente».

È ad Arles che arriva a dipingere quadri che non sono più solo riproposizioni di modelli iconografici giapponesi precisi, ma profondamente orientali nella loro concezione spaziale e cromatica: «Non ho più bisogno di stampe giapponesi, infatti mi dico sempre che qui sono in Giappone. Che mi basta aprire gli occhi e dipingere quello che ho davanti e che dà delle impressioni» (Il ponte di Langlois, Pero in fiore, Rami di mandorlo in fiore).

E si ispira alla pratica di vita comunitaria propria degli artisti giapponesi quando ad Arles pensa di formare una comunità di artisti, come racconta a Bernard: «Sono sempre stato colpito dall’intima partecipazione comunitaria che gli artigiani giapponesi sapevano trovare nel lavoro; sul presupposto evidente di un’amorosa concordia e secondo quell’armoniosa fraternità aliena dai rapporti competitivi. Se riuscissimo a prendere come modello l’armonia congeniale a quegli artigiani saremmo di gran lunga migliori; giacché sembra inoltre che essi vivessero come umili operai, in una specie di povertà disinteressata al guadagno».

In un’ideale riproposizione di armoniosa convivenza secondo il mito giapponese si colloca anche il suo continuo desiderio di scambiare i propri lavori con quelli degli amici artisti: «Già da tempo sono stato colpito dal fatto che gli artisti giapponesi praticano spesso degli scambi», scrive a Bernard. E come un monaco buddista giapponese si ritrae nel 1888 in un dipinto dedicato a Gauguin: a Theo dice che ha esagerato i «tratti somatici, ispirandomi innanzitutto all’aspetto di un bonzo in preghiera davanti al Buddha eterno».

 

HERMANS

L’orefice Hermans di Eindhoven fu l’unico committente di van Gogh, che si propose per decorare la sua sala da pranzo. Nell’agosto del 1884 cos“ racconta l’episodio al fratello: «Voleva farlo con composizioni diverse di santi. Gli feci osservare che forse 6 rappresentazioni tratte dalla vita dei contadini della Meijerji - simboleggianti contemporaneamente le quattro stagioni - avrebbero risvegliato maggiormente l’appetito delle persone che dovevano sedere a quel tavolo piuttosto che i personaggi mistici sopra nominati. Ora lui, dopo una visita al mio studio, si è entusiasmato all’idea».

La decorazione doveva comprendere «contadini che piantano patate, buoi all’aratro, il raccolto del grano, un seminatore, un pastore con atmosfera di temporale, raccoglitori di fascine nella neve»: un ciclo sui lavori dei campi come allegorie delle stagioni, ispirato a opere di Millet. Vincent forn“ i progetti e Hermans, pittore dilettante, li trasfer“ sul tavolato della parete; van Gogh si tenne cos“ le sue tele per le quali ricevette venticinque fiorini, ovvero il rimborso per le spese di materiale e di modelli. Del ciclo ci sono pervenuti quattro dipinti.

In quel periodo realizzò anche una serie di nature morte, ispirate dalle raccolte di anticaglie dell’orefice: «Hermans ha tante cose belle, - scrisse a Theo - vecchie anfore e pezzi di antiquariato, che vorrei chiederti se ti piacerebbe che dipingessi per la tua stanza una natura morta di alcuni di essi, per esempio qualcosa di gotico». Sono dipinti dai colori terrosi (Natura morta con bottiglie), e di alcune di esse van Gogh riutilizzerà in seguito il rovescio per degli autoritratti (Natura morta con ciotola di terraglia, boccale da birra e bottiglie). Di questa serie il dipinto che presenta una più matura composizione è la Natura morta con tre bottiglie e vasi di terraglia.

 

INFLUENZA

L’influenza maggiore van Gogh la esercitò sui giovani delle prime avanguardie storiche, sui francesi fauves e su alcuni componenti del gruppo tedesco della Brücke.

In Germania, i suoi quadri iniziarono a essere esposti dal 1901 nelle mostre delle Secessioni a Berlino e a Monaco; dal 1905 non solo le associazioni artistiche ma anche le gallerie private diffusero le opere di van Gogh; la mostra più importante fu quella allestita nel 1910 a Berlino nella galleria di Paul Cassirer, con 64 opere.

La pennellata vigorosa, la corposità materica, la cromia esasperata esercitarono influenze diverse su Heckel (Murature, 1907); su Kirchner, che vide le sue opere nel 1903 a Monaco (Ragazza con girasoli); su Nolde, che raccontò di avere visto i suoi quadri «con entusiasmo pieno di ammirazione e di amore» (Nel grano). Il loro debito nei confronti di van Gogh fu subito sottolineato dal critico Paul Fechter che in una recensione a una loro mostra del 1907 a Dresda parlò di «grossolana ripetizione» dello stile di van Gogh.

A Parigi, fu soprattutto Vlaminck - anch’egli autodidatta, di origine olandese - ad amare van Gogh, i suoi cieli attraversati da nuvole a vortice (Ponte a Chatou, 1905), l’accostamento di colori puri, spremuti direttamente dal tubetto (Case a Chatou, 1904). Matisse ricorderà in seguito di averlo conosciuto alla retrospettiva di van Gogh allestita nell’estate 1901 alla Bernheim-Jeune: «Un giorno mi trovavo da Bernheim, in rue Laffitte, alla mostra di van Gogh. Vidi Derain accompagnato da un ragazzo dalla figura gigantesca che con voce autoritaria gridava il suo entusiasmo. Diceva: “Vedi, bisogna dipingere con cobalti puri, vermigli puri, veronese puro”. Penso ancora che Derain avesse un po’ paura di lui. Ma lo ammirava per il suo entusiasmo e il suo calore. Mi si avvicina e mi presenta Vlaminck».

Anche per Derain quella mostra di van Gogh fu fondamentale: ancora un anno dopo, scriveva a Vlaminck: «Sarà presto un anno che abbiamo visto van Gogh, e, veramente, il suo ricordo mi perseguita senza tregua. Vedo sempre più un senso autentico in lui» (Ponte di Blackfriars a Londra, 1906 circa).

 

L’AJA

È all’Aja che van Gogh dipinge il suo primo quadro a olio, nel dicembre 1881, Natura morta con cavolo e zoccoli.

In quel periodo abitava presso Anton Mauve, suo parente acquisito, che era uno dei massimi esponenti della Scuola dell’Aja; i loro rapporti si interromperanno bruscamente nel marzo 1882, ma anni dopo, nel 1888, il ricordo di colui che fu il suo unico maestro, ancora era importante per van Gogh: saputo della sua morte, gli dedicherà uno dei dipinti di frutteti più compiuti, Peschi in fiore, “Souvenir de Mauve”.

Sotto la sua guida, van Gogh esegue i suoi primi dipinti e acquerelli, e li realizza dal vero, lavorando “en plein air”, secondo un metodo praticato dai pittori della Scuola dell’Aja, propaggine olandese della francese Scuola di Barbizon (Un villaggio presso Bonnières). I soggetti di questi suoi primi quadri sono ispirati a quelli di Mauve (Peschereccio sulla spiaggia a Scheveningen), di Jozef Israëls, o di Johannes Bosboom.

E dunque van Gogh rappresenta le periferie (Cortile di falegname e lavatoio), la spiaggia di Scheveningen (Calma di vento sulla spiaggia a Scheveningen), le dune, i pescatori (Pescatore sulla spiaggia; Moglie di pescatore sulla spiaggia), il bosco vicino alla città (Due donne in un bosco), gli interni delle botteghe, i volti del popolo (Panche di chiesa con uomini e donne dell’ospizio).

Traspaiono dai lavori di questo periodo le difficoltà compositive (La lotteria di Stato) che egli stesso riconosce: «Ma come è difficile farci entrare la vita e il movimento e mettere le figure al loro posto, eppure separate l’una dall’altra. È il grande problema del “moutonner” [accavallarsi]: i gruppi di figure formano un tutto unico, ma la testa o le spalle dell’una si elevano al di sopra dell’altra: in primo piano le gambe della prima figura risaltano molto e un poco più in là le gonne e i calzoni formano una specie di confusione in cui le linee sono ancora ben chiaramente visibili».

Lascia L’Aja nel settembre 1883: finita la sua storia d’amore con la prostituta Sien (Sien che cuce e fanciulla), gli rimane solo la consapevolezza di dover continuare a studiare e lavorare. Scrive profeticamente nell’estate 1883: «Voglio lasciare di me un qualche ricordo sotto forma di disegni o dipinti, non eseguiti per soddisfare un certo gusto in materia d’arte, ma per esprimere un sincero sentimento umano. Questo lavoro è dunque la mia meta...è cos“ che mi considero, come una persona che deve portare a termine qualcosa con amore, nel giro di pochi anni, e deve farlo con energia».

 

LETTURE

Nella Natura morta con Bibbia è dipinto il compendio della cultura letteraria di van Gogh, che leggeva molto: accanto al testo sacro compare La joie de vivre di Zola.

Testi sacri, saggistica francese e inglese fanno parte della sua formazione: la Bibbia, ovviamente, ma anche l’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis; l’Histoire de la Révolution di Michelet, che gli ispira il progetto di disegnare le cartine dei luoghi degli eventi; e, sempre di Michelet, il libro L’Amour, di cui cita spesso brani nelle sue lettere e Le Peuple. Ma anche Carlyle, severo spirito calvinista antimodernista e con il culto del lavoro di cui ha certo letto On Heroes, Hero-Worshif and the Heroic in History.

L’altra sua grande passione sono i romanzi francesi (Romans parisiens), il naturalismo di Zola, appunto, di Richepin, dei Goncourt.

Zola è forse quello che “abita” più spesso le sue nature morte: le copertine dei suoi libri sono dipinte nella Natura morta con tre libri della primavera 1887 (i titoli sono quelli di La fille Elise e Au bonheur de dame), dove appare anche il testo Braves Gens di Jean Richepin. E La joie de vivre di Zola torna nella Natura morta: vaso con oleandri e libri dello stesso anno.

Che cosa van Gogh apprezzasse negli scrittori del naturalismo francese lo spiega in una lettera alla sorella Wil del 1887, riferendosi ai romanzi dei Goncourt e di Zola: essi «descrivono la vita come noi stessi la percepiamo e soddisfano il nostro desiderio di sentirci dire la verità». Un titolo dei Goncourt compare nella Natura morta con busto in gesso, dove è poggiato sul tavolo il loro romanzo Germinie Lacerteux, insieme a Bel-Ami di Maupassant.

Ancora libri dei Goncourt compaiono in un Ritratto del dottor Gachet: di nuovo il racconto della malattia psichica di Germinie Lacertoux e Manette Salomon.

Nell’Arlesiana di Otterlo, dipinta mentre era ricoverato nell’ospedale di Saint-Rémy, compaiono Le case de l’oncle Tom di Harriet Beecher Stowe e i Contes de No‘l di Charles Dickens. Ambedue rievocavano in lui un’atmosfera domestica perduta: il primo perché era stato scritto dalla Beecher Stowe «mentre preparava la cena per i suoi ragazzi»; i racconti di Dickens, ambientati in situazioni natalizie piene di atti caritatevoli, gli ricordavano una pace domestica lontana.

Furono poi alcuni personaggi di romanzi che aveva letto a ispirargli dipinti di grande fascino: nel luglio 1888, dipinge la Mousmé, ispirato dalla lettura di Madame Chrysanthème di Pierre Loti, ambientato in Giappone. Da un altro romanzo di Loti sulla vita dei marinai, Pêcheur d’Islande, nasce l’idea de La Berceuse.

E dal romanzo su Tartarin di Tarascona di Alphonse Daudet nascono i quadri con il suo Autoritratto come Tartarin e quello della carrozza parlante esiliata in Algeria.

I libri che compaiono nei quadri non mancano di darci informazioni sulla sua vita quotidiana: nella Natura morta con cipolla del gennaio 1889, dipinta subito dopo la mutilazione dell’orecchio, compare un testo medico, l’Annuaire de la Santé del dottor Raspail, in cui cercava il rimedio per la sua insonnia.

 

MERCATO

Il 14 febbraio 1890, mentre è nell’ospedale di Saint-Paul, van Gogh riceve da Theo la comunicazione che all’esposizione di Bruxelles del gruppo Les Vingts, dove erano stati inviati sei suoi dipinti, è stato venduto il quadro Il vigneto rosso, per 400 franchi: fu questo l’unico dipinto di van Gogh venduto mentre era in vita. L’acquirente fu una donna, la pittrice Anne Boch, sorella del poeta Eugène, che van Gogh aveva ritratto ad Arles.

La mancata vendita delle sue opere era stata spesso causa di malumori nei confronti di Theo, al quale inviava tutta la sua produzione: «Non hai mai venduto un solo quadro dei miei - né per tanto né per poco - ma il fatto è che non hai neanche provato».

È tra il 1987 e il 1990 che avvengono le vendite a prezzi record di opere di van Gogh: nel 1987 è stato venduto un Vaso con girasoli dalla Christie’s di Londra a 24.750.000 sterline: van Gogh pensava che i suoi girasoli potessero valere sui 500 franchi.

Nel 1988 il dipinto degli Iris oggi al Getty Museum di Malibu ha raggiunto i 54.000.000 di dollari in un’asta Sotheby’s.

Al Ritratto del dottor Gachet spetta un record assoluto: il prezzo più alto mai raggiunto da un dipinto: è stato venduto dalla Christie’s nel 1990 per 82.500.000 dollari.

 

NUENEN

A Nuenen, un piccolo paese del Brabante settentrionale, van Gogh rimane due anni, dal dicembre 1883 al novembre 1885 (Viale dei pioppi in autunno).

Immalinconito dalla solitudine provata nella Drenthe, luogo malinconico di torbiere e campi, ormai deciso a dedicarsi interamente alla pittura, rientra in famiglia (Uscita dalla chiesa a Nuenen; La canonica di Nuenen). In due anni giungerà a una rottura definitiva con i genitori, sarà rifiutato dagli abitanti del luogo (Testa di contadino; Testa di contadina), pubblicamente accusato di comportamento scandaloso dal curato cattolico.

Ma notevole è la crescita culturale e artistica che avviene a Nuenen: legge Zola, i testi di Delacroix e Fromentin sull’arte, prende lezioni di solfeggio e di pianoforte, affascinato dalle teorie di Wagner sulla corrispondenza tra colore e musica; realizza circa duecento dipinti e centinaia di acquerelli e disegni. Allestisce anche uno studio, nella casa del sagrestano cattolico che gli mette a disposizione due stanze, luogo di rifugio quando, dopo la morte del padre (26 marzo 1885) (La torre del cimitero sotto la neve), lascerà la famiglia.

Pochi gli amici: va a trovarlo qualche volta il pittore Anton van Rappard, frequenta nella vicina Eindhoven l’orefice Hermans, l’impiegato delle poste Willem der Wakker, Dimmel Gestel - che diventerà pittore -, il commerciante Anthon Kerssemakers: tutti interessati alla pittura, a cui van Gogh dà lezioni.

I soggetti dei dipinti realizzati a Nuenen sono gli abitanti del luogo e il loro lavoro: il gruppo di quadri dedicati ai tessitori (Tessitore che ordina i fili), ai lavori agricoli (Il lavoro dei campi; Contadina chinata), gli studi di teste di contadini (Contadina con cuffia bianca) che preludono al dipinto che considererà il più compiuto della serie, I mangiatori di patate.

Gradualmente la sua tavolozza si schiarisce, e dai colori bitumosi di certi ritratti, terracei e su fondi neri violacei di alcune nature morte (Natura morta con cesto di patate) giungerà a paesaggi di cromia più delicata e chiara (Strada dei pioppi).

 

ORECCHIO

È ad Arles che avviene il taglio dell’orecchio, nella notte tra il 23 e il 24 dicembre 1888.

Il motivo scatenante di tanta rabbia è un diverbio con Gauguin, dopo il quale Vincent lo assale con un rasoio. Gauguin passa così  la notte nell’albergo del paese e il mattino seguente trova la polizia sotto casa. Così racconta Gauguin in Avant et après (1903): «Ecco cos’era successo: appena rientrato, van Gogh si era tagliato di netto un orecchio raso la testa. Impiegò certo molto tempo per fermare l’emorragia se il giorno dopo furono trovati stracci inzuppati, sparsi ovunque sul pavimento delle due stanze e la scala che portava alla nostra camera da letto. Quando fu in grado di uscire, ben fasciato e con un basco calato in testa, corse in uno di quei posti dove, in mancanza d’altro, si può trovare un po’ di compagnia e consegnò alla direttrice il suo orecchio ben pulito chiuso in un pacchetto. “Un mio ricordo”, disse. Poi uscì  in fretta, rientrò a casa, e si coricò addormentandosi. Trovò il tempo di chiudere le imposte e di mettere una lampada accesa sul tavolo accanto alla finestra» (Camera da letto).

«Poco dopo tutto il quartiere, insieme a quelle brave ragazze, era in subbuglio e commentava l’accaduto. Ero ben lontano dall’immaginare tutto questo quando mi presentai all’ingresso di casa, e quando il signore della bombetta mi chiese a bruciapelo: “Signore, che avete fatto al vostro amico?”. “Non so...”. “Ma s“... lo sapete bene... è morto». [...] Vincent giaceva immobile sul letto avvolto nelle lenzuola, tutto raggomitolato. Con molta dolcezza toccai il corpo caldo: era vivo dunque. Fu come se, improvvisa, mi fosse tornata la lucidità e il coraggio. Sottovoce mi rivolsi al commissario di polizia: “Vi prego”, dissi, “svegliate quest’uomo col massimo riguardo, e se chiederà di me, ditegli che sono partito per Parigi: vedermi, gli farebbe solo male”».

Gauguin avvisa telegraficamente Theo e il 25 dicembre lascia Arles, nonostante le condizioni di Vincent fossero gravi.

Dimesso dall’ospedale nei primi giorni di gennaio, van Gogh si ritrae con l’orecchio bendato.

 

PARIGI

A Parigi vive quasi due anni: arriva ai primi di marzo del 1886 e parte per Arles nel febbraio 1888. Giunge del tutto inatteso da Theo, che riceve un laconico biglietto: «Non arrabbiarti se sono arrivato cos“, all’improvviso; ci ho pensato su un bel po’, e poi ho deciso che fosse il modo migliore per guadagnar tempo. Ci potremmo incontrare al Louvre a mezzogiorno, o anche prima se vuoi».

I due fratelli vivono insieme, prima in rue Laval (oggi rue Victor Massé), poi in un appartamento più grande con studio annesso al terzo piano di rue Lepic 54, a Montmartre. La convivenza risulterà «insopportabile»: cos“ scrive Theo alla sorella Wil.

Inizia a frequentare l’atelier Cormon: è qui che conosce Bernard, Anquetin, Russell (Ritratto di van Gogh), Toulouse-Lautrec; suo amico diviene anche Lucien Pissarro, figlio del pittore Camille (Natura morta con cesto di mele).

Bernard diviene il compagno delle sue ricognizioni, delle giornate passate a dipingere “en plein air”: «Vincent diventava francese; - racconterà Bernard - dipingeva Montmartre, i suoi piccoli giardini rattrappiti, il Moulin de la Galette, le sue bettole» (La terrazza del Cafè La Guinguette; Finestra del ristorante “Chez Bataille”; Natura morta con assenzio).

Nascono alcune delle sue vedute di impianto fortemente impressionista, influenzate anche dalla conoscenza diretta dei lavori di Monet, Pissarro, artisti che avevano rapporti con il fratello Theo: numerosi scorci delle stradine di Montmartre e del Moulin de la Galette.

Veloce è anche l’appropriazione del linguaggio divisionista, di cui dà una versione personale, trasformando i meticolosi reticolati di Seurat e Signac in tessiture più movimentate, dalla pennellata più vivace (Interno di un ristorante); d’altra parte, dirà Gauguin, in quel tempo e ancora nei primi mesi del soggiorno di Arles, «egli annaspava in pieno neoimpressionismo, senza trovare una soluzione. Non perché questa scuola come tutte le altre fosse cattiva, ma era lontana dalla sua natura indipendente e cos“ poco paziente».

 

QUADRERIA

Van Gogh aveva una quadreria ideale, costituita da stampe che iniziò a raccogliere dal 1869, quando lavorava all’Aja nella succursale della casa d’arte Goupil & Cie. di Parigi. Era una collezione costituita da riproduzioni di quadri, la maggior parte di Jean-François Millet (L’Angelus).

Una collezione di “d’après”, dunque, da cui nacquero i “d’après” di van Gogh: i primi disegni significativi che realizza nel 1881 sono da opere di Millet (Seminatore; La preghiera della sera).

La sua quadreria su carta si rivela fondamentale durante il ricovero nell’ospedale di Saint-Rémy: nei periodi in cui le crisi diventavano acute e gli impedivano di dipingere “en plein air”, esegue opere ricopiando le stampe. E dunque realizza una ventina di quadri da Millet (Primi passi; Siesta), tre riprese da Delacroix (due versioni della Pietà, e Il buon samaritano), due da Rembrandt (Angelo; La resurrezione di Lazzaro), una da Demont-Breton (Il marito è per mare), da Doré (La ronda dei carcerati), da Daumier (I bevitori).

Nei due mesi trascorsi a Auvers, realizza un solo “d’après”, Mucche, da Jordaens.

Una parte della sua quadreria era poi costituita da stampe giapponesi originali e riviste; tre sono i “d’après”: Japonaiserie: susino in fiore, Japonaiserie: ponte sotto la pioggia, ambedue da Hiroshige e Japonaiserie: Oiran da Kesai Eisen.

Aveva però a disposizione anche una quadreria reale: erano i dipinti che aveva Theo, che era mercante d’arte. L’artista che preferiva era Adolphe Monticelli, pittore di nature morte, di fiori: «Pensando a Monticelli, piangeva», racconta Gauguin. E van Gogh stesso esprime la sua ammirazione in una lettera che manda al critico Aurier nel 1890, commentando l’articolo che questi aveva scritto su di lui: «Quando dite: “È il solo che concepisca il cromatismo degli oggetti con questa intensità, con questa qualità da metallo prezioso o da gemma”; se volete andare a vedere, da mio fratello, alcuni bouquets di Monticelli - bouquets bianchi, blu myosotis o arancioni - allora capirete cosa voglio dire [...]. Questo per dire che sul mio nome sono state spese delle parole che fareste meglio a dire di Monticelli, al quale devo molto». A lui si ispirava infatti quando dipingeva i suoi fiori in vaso a Parigi (Natura morta con zinnie; Natura morta con altee).

 

RELIGIONE

«Una volta ho visto un bel quadro; era un paesaggio serale. In lontananza, sulla destra, una fila di colline, azzurre nel cielo della sera. In queste colline lo splendore del tramonto, le nubi grigie costellate d’argento e d’oro e porpora. Il paesaggio è una pianura o una brughiera, coperta d’erba e di steli gialli, era infatti autunno» (Giardino della canonica di Nuenen).

«Il paesaggio è tagliato da una strada che porta a un alto monte, lontano, molto lontano; sulla sua cima una città che il sole al tramonto fa risplendere. Sulla strada cammina un pellegrino col suo bastone» (La cava di Montmartre con mulini).

«E questi incontra una donna - o una figura in nero - che richiama un’espressione di san Paolo: mesto ma sempre felice. Quest’angelo di Dio è stato posto qui per consolare il pellegrino e per rispondere alle sue parole» (Giardino in inverno; Viale dei pioppi in autunno).

«E il pellegrino le chiede: “Questa strada è sempre in salita?”. E la risposta è: “Certo, fino alla fine, sii attento”. E di nuovo egli chiede: “E il mio viaggio dovrà durare tutta la giornata?”. E la risposta è: “Dal mattino, amico mio, fino a notte”. E il pellegrino allora prosegue, mesto, ma sempre felice» (Un paio di scarpe).

«E quando ognuno di noi torna alla vita quotidiana e ai doveri quotidiani, non dimentichiamo che le cose non sono come appaiono, che Dio ci insegna, attraverso le cose della vita quotidiana, cose più alte, che la nostra vita è un pellegrinaggio e che noi siamo stranieri sulla terra, ma che abbiamo un Dio e un Padre che protegge e custodisce gli stranieri» (Autoritratto come Tartarin).

Questa è la parte finale della prima predica di van Gogh, tenuta alla fine di ottobre del 1876 a Isleworth, vicino a Londra.

 

SAINT-RÉMY

È la cittadina provenzale in cui van Gogh (Autoritratto) trascorre un anno nell’ospedale psichiatrico Sain-Paul-de-Mausole, un antico convento agostiniano (Veduta con la chiesa di Saint-Paul-de-Mausole). Vi entra su sua richiesta l’8 maggio 1889, accompagnato dal pastore protestante Salles, suo amico di Arles, e uscirà il 15 maggio 1890 (L’atrio dell’ospedale).

A Theo aveva scritto: «Risparmiatemi le spiegazioni, soltanto chiedo a te e ai signori Salles e Rey [il medico che lo curava ad Arles] di fare in modo che alla fine del mese, o all’inizio di maggio, io sia internato là come pensionato». Il dottor Peyron che lo prende in cura diagnostica attacchi di natura epilettica; Vincent si rassegna a considerare «la follia una malattia come un’altra».

Su richiesta di Theo, gli vengono date due camere contigue: una gli serve da studio (Finestra dello studio di van Gogh nell’ospedale), l’altra ha «una tappezzeria grigio verde con due tendine verde acqua con disegni di rose molto pallide, ravvivati da sottili tratti color rosso sangue».

I lamenti degli altri ammalati (Ritratto di un paziente dell’ospedale), le loro urla, il cibo mediocre, l’odore di muffa, gli ricordano un «ristorante di quart’ordine a Parigi».

Aveva promesso a Theo: «Se dovessi restare davvero in ospedale, io mi adatterei e credo che potrei anche trovarvi dei soggetti da dipingere». E infatti non smette mai di dipingere, se non durante gli attacchi che a volte lo lasciano senza conoscenza anche per settimane. Esplora e dipinge ogni angolo del giardino dell’ospedale (Iris), vedute del parco (Il parco dell’ospedale; I campi dell’ospedale), i campi che lo circondano (Campo di grano con montagne sullo sfondo; Campo con papaveri), gli oliveti, le vedute del paese (Grandi platani) dove poteva andare nei periodi in cui la malattia si acquietava. E quando rimaneva chiuso nelle sue stanze, le stampe che aveva con sé divenivano motivi di ispirazione e i ricordi dei paesi del Nord davano origine a immagini folgoranti (Notte stellata).

 

STUDI

Van Gogh parlava e scriveva quattro lingue, olandese, francese, inglese, tedesco. Aveva studiato teologia, e frequentato un corso di evangelizzazione a Laeken nel 1878: alla fine del trimestre di noviziato non viene ritenuto idoneo, per il carattere poco umile e sottomesso.

I suoi studi artistici sono da autodidatta, basati su alcuni manuali procurati da Theo: gli Exercises au fusain e il Cours de Dessin di Charles Bargue, i libri di Armande Cassagne. È documentata la sua iscrizione all’Ecole des Beaux-Arts di Bruxelles nell’inverno 1880-1881 e a quella di Anversa nel gennaio 1886 (Teschio con sigaretta accesa); agli esami di febbraio viene giudicato negativamente e respinto al corso elementare, ma quando vengono esposti gli esiti è già partito per Parigi.

Qui frequenta lo studio di Félix Cormon, e si cimenta nelle copie da modelli di gesso: uno di questi compare in una foto dell’atelier del 1885 circa, un Uomo inginocchiato ripreso da van Gogh in un olio su cartone.

Il compagno di studi Bernard racconterà: «Lo rivedo da Cormon, di pomeriggio, quando l’atelier privo di allievi diveniva una specie di cella per lui; seduto di fronte a un’opera antica in calco, ricopia le belle forme con pazienza angelica. Vuole impadronirsi dei contorni, delle masse, dei rilievi. Si corregge, ricomincia con passione, cancella fino a bucare il foglio» (Busto di gesso femminile).

«Il fatto è che egli non sospetta, di fronte a questa meraviglia latina, che tutto si oppone nella sua natura di olandese, alla conquista che vuole compiere; e troverà meglio e prima la sua strada tra gli impressionisti dalla libera fantasia, dal facile lirismo, che in questa calma perfezione rivelata a uomini sereni, durante civiltà vicine alla natura e al pensiero. Come capisce presto tutto ciò Vincent! Ed ecco andarsene via da Cormon, lasciarsi andare. Non pensa più a disegnare dall’antico [...]; ma, se non diventa “antico”, crede per lo meno di divenire francese» (Busto di gesso maschile).

 

TARTARIN

Tartarin di Tarascona è il personaggio con cui van Gogh si identifica: il vagabondo che erra per le strade del Sud della Francia, protagonista di tre romanzi di Alphonse Daudet: Les aventures prodigieuses de Tartarin de Tarascon (1872), Tartarin sur les Alpes (1885) e Port Tarascon (1890). Vincent è a tal punto affascinato dal personaggio che nel 1888 fa un piccolo olio in cui si raffigura come Tartarin, quadro che andò distrutto in un incendio nel 1945.

Dell’aprile di quell’ anno è anche un disegno sullo stesso tema, che raffigura La strada di Tarascona con un uomo che cammina. Francis Bacon nel 1957 dedica una serie di dipinti all’autoritratto di van Gogh come Tartarin.

Van Gogh amava molto in quel romanzo anche la carrozza parlante che si lamenta di essere stata esiliata in Algeria, e la raffigura in un quadro, come racconta a Theo in una lettera del 13 ottobre 1888: «Hai già riletto il Tartarin? Non dimenticartene! Ti ricordi di quel bellissimo passaggio in cui la vecchia diligenza di Tarascona si lamenta? Bene, io ho appena finito di dipingere quella stessa carrozza rossa e verde nel cortile dell’albergo».

E cos“ descrive il dipinto La diligenza di Tarascona: «Questo schizzo veloce ti potrà dare un’idea della composizione: in primo piano della semplice sabbia grigia, lo sfondo ugualmente semplice, mura rosa e gialle con imposte verdi alle finestre, una chiazza di cielo blu. I due veicoli sono colorati al massimo, verdi e rossi, ruote gialle, nere, blu e arancio».

 

THEO

Theo nacque nel 1857 e fu per Vincent un punto di riferimento costante, dal punto di vista artistico e umano. È il destinatario di 652 lettere di Vincent, ed è anche il suo unico “pubblico”: dal febbraio 1884 l’artista decide di ricambiare il sostegno finanziario e la vicinanza umana di Theo dedicandogli tutti i quadri che avrebbe fatto, firmati semplicemente “Vincent”.

Era mercante d’arte e arrivò a Parigi nel 1878, per rappresentare la ditta Goupil all’Exposition Universelle. Gli venne poi affidata la gestione di una delle tre succursali parigine, al 19 di boulevard Montmartre. Inizia a comprare opere impressioniste nel 1884: Pissarro, Sisley, Monet e Renoir; nel 1887 comincia a trattare Degas e Gauguin.

Mor“ il 21 gennaio 1891, sei mesi dopo Vincent; le sue condizioni di salute dopo la morte del fratello erano divenute precarie e nell’ottobre 1890 un crollo nervoso lo rese completamente apatico.

 

TOULOUSE-LAUTREC

Toulouse-Lautrec aveva conosciuto Vincent all’atelier Cormon e in quel periodo, nel 1887, fece un ritratto di van Gogh seduto in un locale.

In seguito, ricordava le visite di Vincent al suo studio, dove si svolgevano riunioni settimanali con altri artisti: van Gogh si presentava con delle tele sotto il braccio, si sedeva anche per mezz’ora in un angolo e poi se ne andava senza aver detto una parola.

Toulose-Lautrec apprezzò il lavoro dell’amico, tanto che all’esposizione del gruppo Les Vingts del 1890, sfidò a duello il pittore Henri de Groux che aveva dichiarato di non voler esporre nella stessa sala di Vincent, che considerava «ignorante e ciarlatano».

 

UMANITA’

Per usare l’espressione di san Paolo che van Gogh amava, «Mesto, ma felice», l’umanità da lui raffigurata è certamente mesta, ma non felice (Vecchio disperato). Dalle lettere e dai quadri traspare il rapporto empatico, fatto di amore e compassione, che van Gogh ha con i deboli, i poveri (La lotteria di Stato), i lavoratori, gli emarginati.

Contadini che lavorano la terra, che scavano le torbiere, tessitori, volti duri segnati dalla fatica (Testa di contadina con cuffia bianca): questi i soggetti preferiti, dal periodo in cui vive nella Drenthe, a Saint-Rémy quando ricopia le stampe di Millet (Due contadini che vangano). Compaiono rari momenti di pace domestica (Contadina seduta davanti al focolare).

Anche i pochi bambini rappresentati da van Gogh hanno un’espressione tormentata nel sorriso, che sembra presagire la durezza della vita (Due bambine).

È a questa umanità dolente che van Gogh cercò di portare un messaggio di conforto quando era predicatore. Viveva come i più poveri degli abitanti del luogo, isolato in una catapecchia, mangiando pane e acqua. Decenni dopo nel Borinage ancora si narrava di un predicatore laico olandese che aveva ricondotto alla chiesa un ostinato bevitore.

 

VINCENT

“Vincent” fu la firma di van Gogh: dedicò infatti la sua produzione al fratello che lo sosteneva sia economicamente che umanamente, firmando i suoi quadri semplicemente con il nome.

Vincent era il nome del fratello nato un anno prima di lui, stesso giorno e stesso mese, il 30 marzo, e subito morto.

E Vincent fu il nome del figlio di Theo, nato nel 1890 mentre van Gogh era nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy: per celebrarne la nascita, dipinse i Rami di mandorlo in fiore.

 

ZADKINE

Lo scultore cubista russo-francese Ossip Zadkine è l’autore di due monumenti dedicati a van Gogh: il primo è collocato a Auvers, dove Vincent e il fratello Theo sono sepolti. Terminata nel 1961, la scultura riprende l’autoritratto di van Gogh come Tartarin di Tarascona.

Il secondo monumento, con l’immagine dei due fratelli, è stato inaugurato nel 1964 a Groot Zundert, loro luogo di nascita.


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