0. Chi siamo 1. Spazio dibattito 2. Percorsi tematici 3. Arretrati rivista

1.Spazio dibattito

aggiornato:  

30/08/2002

SOMMARIO

Panorama / Vis-à-vis

Lettera al Direttore di Panorama dopo la "Rettifica" pubblicata sul n.35 del 23 agosto

Articolo di Panorama n.35

Lettera al Direttore di Panorama dopo l'articolo pubblicato sul n.34 del 15 agosto

Postilla di Roberto Massari Editore

Articolo di Panorama n.34

Segnali inquietanti /2 Confederazione COBAS (27/08/02)

________

Il convitato di pietra: il movimento

Le quattro giornate di Napoli

Re: Vis-à-Vis Comunicato sull'atomica di Bush

Centinaia di migliaia di soggettività autonome in marcia da piazza Esedra al Circo Massimo... pochi e stronzi guitti mercenari in piazza del Popolo!!!

Lo sciopero generale, questo sconosciuto

Alle radici della civiltà occidentale"... il nazismo?!

SEATTLE, NAPOLI, GENOVA … Verso la ricomposizione del nuovo soggetto collettivo rivoluzionario

Dedicato a Carlo con rabbia

Genova 2001: dallo spettacolo della moltitudine al carnevale del proletariato universale 

Oreste Scalzone e Rifondazione Comunista

Riccardo Bellofiore, “Critica della ragion spuria

Le libertà ed i soggetti

"Karletto contra Totonno"

Due interventi di Riccardo Bellofiore

   

 

  

Isole nella rete

 

Tactical media crew

 

indymedia

  

  Internationale situationniste

 

labor notes

  

Intermarx

 

Chaos

 

Collective action notes

  

Archivio storico della nuova sinistra "Marco Pezzi"

 

Marxists internet Archive

 

 68-77

 gruppi e movimenti si raccontano

68-77 gruppi e movimenti si raccontano

 

 

 

Panorama / Vis-à-Vis

Al Direttore di Panorama (23 agosto 2002)

Per sua stessa ammissione sommerso dalle proteste (contro l'articolo "C'è posta per le BR", pubblicato sul trascorso fascicolo n. 34, a firma di Giacomo Amadori e Gianluca Ferraris), "Panorama", il rotocalco da Lei diretto, nel nuovo fascicolo (il n. 35) in distribuzione dal 23 agosto, replica con uno scritto di tal G.A. (probabilmente da intendersi come Giacomo Amadori), intitolato Guerrilla sì, ma di parole e riportante alcune considerazioni che ci obbligano, ovviamente, ad un secondo intervento.

    Nel "pezzo" citato, per un verso, si è costretti ad ammettere, di fatto, che sul sito di "Vis-à-Vis" NON ESISTE traccia alcuna della frase che - nel precedente articolo del n. 34 -, si pretendeva avervi rinvenuto. Per un altro verso, si ricorre ad uno stile a dir poco "circonvoluto", per evitare di formulare la doverosa esplicita "smentita" della menzogna precedentemente formulata, come da noi formalmente e tempestivamente richiesto, ai sensi delle vigenti leggi sulla stampa (vedasi la nostra raccomandata A.R., del 17 u.s., alla S.V. indirizzata). Con banale artificio "retorico", si tenta infatti di "cavarsi d'impaccio", concedendo che <<è doveroso segnalare due smentite>> (la nostra e quella di "InformationGuerrilla"), facendo intendere però che esse vanno attribuite esclusivamente ai diretti interessati, dai quali provengono ab origine, e non coinvolgono affatto l'estensore dell'articolo, il quale, dal suo canto, si limita "magnanimamente" a darne mera comunicazione ai lettori, pur esplicitamente ammettendo, nel nostro caso, di averci effettivamente attribuito la frase da noi contestata, peraltro senza poterne ora suffragare in alcun modo l'origine (da intendersi quindi esperibile soltanto nella sua fervida fantasia!).

    E ciò si conferma in modo tanto più inoppugnabile, in forza dell'"acidula" conclusione di "G.A.", in cui si crede di poter impunemente affermare: <<Ecco fatto. Rettifica publicata. Ma, né l'impaginazione né il testo dell'articolo [del n. 34] accusava i siti in questione di alcunchè>> SIC !?!

    Qui siamo veramente in presenza di un'improntitudine che, in altro contesto, risulterebbe addirittura esilarante. Ma al contrario, nello specifico, la sensazione che se ne ricava è di un'autentica e sgradevolissima presa in giro, offensivamente indebita; sensazione ancor più accentuata dalle successive parole dell'articolista, in cui si pretende sostenere che l'intento da cui egli sarebbe stato mosso, nella sua precedente <<inchiesta>> (che tutto poteva sembrare tranne che tale, se per "inchiesta" si intende un'indagine eseguita nel rispetto di alcuni inderogabili principi di esaustività, precisione e correttezza, che afferiscono alla deontologia giornalistica), era quello "nobilissimo" di mettere in guardia <<i gestori dei siti>>, nei confronti del <<pericolo di essere usati per fini criminali>>. Laddove, semmai, l'unico risultato effettivamente perseguito è stato, invece, quello di criminalizzare gli stessi, in modo assolutamente non argomentato … e, nel caso nostro, addirittura tramite l'esplicita attribuzione di parole mai scritte né "ospitate", sul sito di "Vis-à-Vis", né tanto meno sui suoi voluminosi fascicoli annuali, sin qui pubblicati in "forma cartacea": altro che la lamentata <<gogna telematica>> cui "Panorama" sarebbe stato sottoposto!

    Dopo tale indubitabile esito, dunque, suona quanto meno velata di una certa ipocrisia la "tardiva" domanda, riportata come "sottotitolo" dell'articolo in oggetto: <<qual è la responsabilità di chi gestisce siti di informazione militante, che possono però venire usati da altri per fini illegali?>>.

    Ecco che - guarda caso -, in questa replica, le originarie spavalde "certezze" si stemperano e si coniugano in forma "candidamente" interrogativa, giungendo a ipotizzare soltanto la mera eventuale possibilità che <<altri>> possano subdolamente "infiltrare" i siti di chi, incolpevolmente ignaro di cotanto rischio, concede i propri spazi "virtuali" come strumento di libera circolazione di informazione, comunicazione, dibattito.

    Quesìto legittimo, figuriamoci! Ma, allora, se il "dubbio" che ora tanto assilla l'articolista inopinatamente spogliatosi delle precedenti certezze, è quello di un ipotetico uso strumentale dei <<siti di informazione militante>>, perché non gli vien da pensare che tale "rischio" può riguardare di fatto ogni e qualsivoglia organo di informazione? Se per la televisione si potrebbero immaginare segnali convenzionali trasmessi magari da qualche "spettatore pagante", al passaggio della telecamera, per la carta stampata ci sono sempre stati gli "annunci", ad assere idonei per tale funzione di circolazione clandestina di notizie. Per la "rete", infine, dovrebbe essere addirittura superfluo ricordare che non c'è forum, chat o mailing list che possa considerarsi "immune" da contaminazioni, grazie alla specificità dei propri interessi privilegiati: anche un consesso virtuale di massaie amanti dell'uncinetto può diventare, per chiunque, un utile "luogo" di appuntamento, un convettore di informazioni criptate. E allora?!

    Allora no! Evidentemente il punto è un altro! Il vero nocciolo del problema, che riguarda tutti coloro che sono malauguratamente diventati oggetto (vittime?!) della "inchiesta" svolta dai Suoi articolisti, egregio Direttore, è la malsana idea che va ultimamente sempre più sfrontatamente esplicitandosi, in seno all'attuale compagine governativa e ai suoi "pasdaran". In ciò rimarcando uno scarto "qualitativo" di valenza nefasta, rispetto a tutta la pregressa esperienza dei governi della repubblica (e lo diciamo con un senso di reale sgomento, visto quello che "Vis-à-Vis" va argomentando da quando è nata - 1993 - contro "la politica di Palazzo" in ogni sua "salsa").

    Si tratta, in buona sostanza, di una sorta di assiomatico "aut aut": "o si è con noi o si è ... TERRORISTI"! Una sorta di "scontro di civiltà" o di "eticità". Da una parte "IL BENE", il Governo e gli amici dell'"Unto dal Signore", e dall'altra "IL MALE", la nebulosa che comprende, in pratica, il resto … del pianeta: dai Talebani a Cofferati, da Santoro ai Kamikaze di Hallah, dai clandestini agli orchi pedofili ecc.ecc. Insomma, una "visione medievale" del mondo, che ha accomunato fra l'altro - ci piace notarlo en passant - tanto i proclami di Mr. Bush Jr., quanto quelli speculari del suo supposto nemico Bin Laden ...

    E in tale orizzonte è sin troppo ovvio che la comunicazione acquista una valenza assolutamente paradigmatica (come ben sa il Suo editore e aveva ancor meglio compreso Goebbels, ai suoi tempi), soprattutto ora che alcuni grossi "nodi stanno avvicinandosi al pettine" e la dialettica sociale stà riattivandosi, riavocando a sé quel diritto di parola che, per decenni, era stato monopolizzato da rappresentanze politico-istituzionali evidentemente cointeressate alla sua afasia, al suo atomistico immobilismo. Non si può pretendere di criminalizzare/ingabbiare il conflitto di classe, senza mettere la musaruola alla stessa libertà di espressione, di comunicazione/informazione: è per questo che vogliamo riconfermarLe quanto il Suo articolista "A.G." ha invece miratamente stralciato (pur evidenziandolo correttamente, con tanto di "puntini di sospensione") dalla frase che ha voluto riprendere dalla nostra precedente, disattesa lettera di diffida: <<Le uniche armi di cui "Vis-à-Vis" ha da sempre ostinatamente perorato l'uso, sono quelle della critica, che di per sé diventano strumenti operanti di modificazione reale dell'esistente, quando si trovano ad essere "brandite" nella pratica/teorica di massa di un sociale, infine riscopertosi soggetto autonomo e conflittuale, rispetto all'ordine storicamente dato>>.

    Come recentemente ha avuto modo di ricordare Paolo Flores d'Arcais, in un'aulica e dotta schermaglia col Presidente del Senato, i principi del liberalismo democratico prevedono due "luoghi" specifici su cui si fonda ed esprime quella "sovranità popolare", da cui il Suo editore si dichiara "plebiscitato" e di cui si pretende garante, quando ad esempio denuncia una "giustizia partigiana", e tali "luoghi" sono l'"urna elettorale" e la "piazza", intesa com'Ella certo ben saprà, nel senso di "agorà", luogo pubblico d'incontro, di discussione, di proposta, di democrazia diretta. Ecco, con buona pace del nostro vecchio amico Flores, della S.V. e del Suo editore, le nostre armi (della critica!) non mirano tanto a penetrare nel segreto individualistico dell'urna (o di una qualsiasi altra "istanza" comunque "separata", "privata", in sé circoscritta), quanto nella dimensione pubblica, aperta, collettiva, appunto, della "piazza", del corpo sociale colto cioè nella sua materialità quotidiana, nella sua diretta espressione di sé in quanto "soggetto" portatore di bisogni e interessi specifici (se non temessimo di ferire la Sua sensibilità, diremmo "di classe"!). Solo lì, dentro quell'immensa maggioranza di individui riscopertisi omogenei e coesi, quelle "armi" potranno dismettere la forma di <<parole>> (di cui al titolo, invero "furbettino", dell'articolo oggetto della presente) e diventare così concreto strumento collettivo di modificazione della realtà.

    Salut.

Addì, 23 Agosto 2002                                                                                                                      

La Redazione di "Vis-à-Vis"

 

P.S.:  Tranquillizzi il Suo solerte articolista: come Le abbiamo già scritto, <<le sette elitarie di esperti di balistica>> sono da sempre un bersaglio non irrilevante della nostra critica, d'altronde sarebbe bastato che "il di cui sopra A.G." avesse minimamente "sfogliato le pagine" del nostro sito, e si sarebbe potuto accorgere - anche lui - che per noi la critica dell'autonomia della politica trova il suo inevitabile complemento nella critica dell'autonomia del militare (ma anche questo avevamo già fatto presente alla Sua cortese attenzione).

 

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Da "Panorama" n 35 del  23 agosto 2002:

ATTUALITÀ - TERRORISMO

POLEMICHE MONDO NO GLOBAL, TERRORISMO E INTERNET

GUERRILLA SI', MA DI PAROLE

 

(G.A.)

<<(...) Ma è doveroso segnalare due smentite. La prima, quella dell'associazione Vis-à-vis, che addirittura lancia una caccia al tesoro all'interno del proprio sito per ritrovare l'invito alla "classe salariata a prendere le armi" attribuitole da Panorama: "Le uniche armi di cui abbiamo sempre ostinatamente perorato l'uso sono quelle della critica (...) coerentemente radicale nei confronti di quello stato presente delle cose alla cui indispensabile abolizione riteniamo infatti di offrire il nostro contributo". La seconda, da parte di Roberto Vignoli e Alessandro Grazioli di Informationguerrilla: "Vi invitiamo a rettificare l'accostamento creato con l'impaginazione che presenta la home page del nostro sito come prima, tra le altre, sopra titoli quali "C'è posta per le Br" (...) e immagini riferite all'omicidio di Marco Biagi: avvicinamenti equivoci e dannosi per la nostra immagine".

Ecco fatto. Rettifica pubblicata. Ma, né l'impaginazione né il testo dell'articolo accusava i siti in questione di alcunché. (...)>> 

L'intero articolo è pubblicato on-line a questo indirizzo: http://www.mondadori.com/panorama/area_2/area_2_10969.htm

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Al Direttore di "Panorama" (16 agosto 2002)

Il "gioco" evidentemente continua: procede e si allarga la campagna
diffamatoria e di autentico terrorismo psicologico nei confronti di quanti
comunque si ostinino a rivendicare il diritto di dichiararsi incompatibili
rispetto allo stato presente delle cose e, soprattutto, di pretendere una
pratica diretta di autodeterminazione politico-progettuale da parte dei
soggetti sociali, al di là delle forme "inciucistiche" della politica di
palazzo.


Dopo le infamanti montature de "il Giornale" (articolo del 22 marzo 2002,
dal titolo I brigatisti si organizzano in rete), ora scende in campo anche
la truppa scelta dell'"informazione" berlusconiana, da Lei efficacemente
diretta, per alimentare un'oggettiva campagna di disinformazione, che di
fatto ben s'inquadra nell'attuale estesa propensione alla criminalizzazione
del conflitto sociale, in ogni sua forma: a movimentare l'indolente clima
ferragostiano, è comparso infatti, su "Panorama" (n. 34 del 22 agosto 2002),
un articolo a firma di Giacomo Amadori e Gianluca Ferraris (dal titolo C'è
posta per le BR, con occhiello: Allarmi Attacco Virtuale al cuore dello
stato) in cui nuovamente si indica la "Rete" come pericolosissimo
ricettacolo di sordidi complottisti, impegnati nel rilancio dell'esperienza
"lottarmatistica".


Nel confuso profluvio di accenni ed allusioni assemblati sulla base di una
scorribanda su Internet, evidentemente tanto rapida quanto superficiale, i
due articolisti hanno tirato in ballo una serie di siti telematici fra cui
anche quello di "Vis-à-Vis", che specificatamente ci riguarda. E, nel far
ciò, hanno preteso addirittura attribuirci, con tanto di virgolettatura,
l'intento di invitare esplicitamente la "classe salariata a prendere le armi
per radicalizzare lo scontro nei confronti del capitale" SIC!?!?


Ora, pur consci che le pagine della nostra rivista non sono di molto agevole
lettura nemmeno per chi ci è più prossimo, in quanto a lessico e impianto
analitico-categoriale, neanche il più sprovveduto, fra chi veramente si
fosse cimentato in una visita minimamente "meditata" del nostro sito
(dedicato soprattutto alla presentazione della raccolta completa degli otto
fascicoli annuali da noi sin qui pubblicati, con possibilità di
lettura/scaricamento della più gran parte degli articoli in essi comparsi),
avrebbe potuto mai pensare di attribuirci, con una qualche credibilità, una
siffatta dichiarazione di intenti!


Le uniche armi di cui "Vis-à-Vis" ha da sempre ostinatamente perorato l'uso,
sono quelle della critica, che di per sé diventano strumenti operanti di
modificazione reale dell'esistente, quando si trovano ad essere "brandite"
nella pratica/teorica di massa di un sociale, infine riscopertosi soggetto
autonomo e conflittuale, rispetto all'ordine storicamente dato. Una critica
coerentemente radicale nei confronti di quello stato presente delle cose,
alla cui indispensabile abolizione riteniamo infatti di offrire il nostro
contributo, dentro il largo processo di attivazione autonoma e diretta di
tutti quegli sfruttati, precarizzati, marginalizzati che oggi costituiscono
l'immensa maggioranza dell'umanità.


D'altronde, è ormai evidente, non solo a noi, che l'umanità tutta è sospinta
in una corsa sempre più follemente autodistruttiva in cui, innegabilmente,
solo un'infima minoranza di privilegiati riesce a trovare un proprio lauto
"guadagno", nella cieca ed egoistica incuranza per quella incombente
catastrofe ecosistemica denunciata con forza da segmenti sempre più ampi di
una "comunità scientifica" non certo imputabile di alcun sovversivismo
ideologico!


E davanti a siffatto scenario, l'unica possibilità di intervento, a nostro
avviso, viene non già da una qualche velleitaria scelta avanguardistica da
"setta elitaria" di più o meno improvvisati esperti di balistica, bensì,
come sempre (e come abbiamo infinite volte ribadito), dalle armi della
critica che devono diventare patrimonio collettivo e concretizzarsi in una
pratica autonoma e di massa, in grado di invalidare i meccanismi di
astrattizzazione e autonomizzazione sia del "politico", che del suo estremo
derivato: il "militare"!


Insomma, se da un lato pensiamo di organizzare una "caccia al tesoro", con
l'eventuale premio di un abbonamento triennale a "Vis-à-Vis" per chi
riuscisse ad individuare, fra le svariate migliaia di pagine da noi
pubblicate, almeno una frase che possa in qualche modo aver offerto l'estro
per tanto sconsiderato (?!?!) stravolgimento semantico, ai due estensori
dell'articolo in oggetto, dall'altro, a norma delle vigenti disposizioni di
legge sulla stampa e con riferimento all'articolo succitato medesimo,
esigiamo la sollecita pubblicazione di una esplicita e puntuale smentita da
parte del periodico da Lei diretto, in merito a quanto su di noi affermato e
alla frase del tutto indebitamente attribuitaci, da parte di due Suoi
redattori, specificando che tale smentita - come la norma prevede - dovrà
avere la stessa visibilità grafica dell'articolo che ci ha gravemente
oltraggiato, con rilevantissimo danno per la nostra immagine.


Salut

16 agosto 2002


La redazione di "Vis-à-Vis"

Postilla di Roberto Massari Editore 

Cari amici di "Vis-à-Vis", in quanto editore della vostra rivista, non so se
indignarmi di più per la sostanza della falsificazione operata ai vostri
danni (ma nei fatti anche anche miei) dall'articolo di "Panorama", o per il
livello di ostentata disinformazione (leggi: crassa ignoranza) dei suoi
redattori. Diciamo dialetticamente che l'una (la falsificazione) si alimenta
dell'altra (la disinformazione) ed entrambe mirano a conseguire un unico
scopo: terrorizzare la gente comune associando una cosa già in sé
tecnologicamente misteriosa (come la Rete telematica) alla crescente ripresa
della mobilitazione sociale, riducendo quest'ultima a una pura
manifestazione di terrorismo minoritario. Come studioso del terrorismo
potrei consolarvi/mi dicendo che la storia è piena di esempi di manovre del
genere, dalla Russia dei narodniki all'Italia del '69 e che gli organi
polizieschi di mezzo mondo si sono sempre avvalsi di fogli di
disinformazione, per gettare discredito sulle lotte dei lavoratori. Ma non
ho nessuna intenzione di consolarvi/mi: anzi, se la legge sulla diffamazione
a mezzo stampa ancora vige, vi invito ad esigere il massimo di risarcimento
possibile (morale ed economico), associandomi fin d'ora ad ogni iniziativa
che vorrete prendere in difesa della vostra rivista, del vostro editore e
dei vari altri soggetti culturali ingiustamente calunniati nella maldestra
"velina" di "Panorama".

Bolsena 16/08/2002.


Roberto Massari Editore

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"Panorama" (n. 34 del 15 agosto 2002):

C'è posta per le Br

I nuovi terroristi affollano la Rete. E, per mimetizzarsi, usano persino i siti porno. Così, tra email, forum e chat, si prepara l'autunno caldo online. Con l'appoggio dei no global più duri.

di  GIACOMO AMADORI e GIANLUCA FERRARIS 15/8/2002

<<(...) e Vis-à-vis, che invita esplicitamente la «classe salariata a prendere le armi per radicalizzare lo scontro nei confronti del capitale». (...) >>

L'intero articolo è pubblicato on-line a questo indirizzo:
http://www.mondadori.com/panorama/area_2/area_2_10913.htm

 

SEGNALI INQUIETANTI / 2

Confederazione COBAS (27/08/2002)

Continuano le provocazioni contro il Movimento e il fronte di lotta che si oppone al neoliberismo. Dopo le incursioni nelle sedi sindacali e le richieste di avere le liste nominative dei quadri sindacali in Molise da parte dei carabinieri (richiesta accolta dalla CGIL), è arrivata la schedatura dell’ASSOLOMBARDA, costola importante della Confindustria. Non contenti di agire tramite i carabinieri, gli "incursori notturni" e le associazioni padronali, si scatena anche la corazzata mediatica arkoriana, che tramite il settimanale "Panorama", denuncia la "pericolosità" della rete informatica, accusata "tout court" di essere fiancheggiatrice della lotta armata (tra i siti citati, tutti al di sopra di ogni sospetto, Indymedia e la rivista "Vis - à - Vis" (sic !). Su quest’ultimo fatto, già ampiamente denunciato dagli stessi soggetti messi sotto tiro (lo stesso settimanale spiega di essersi servito delle inchieste della polizia postale e della Digos), non ci soffermiamo, auspicando che segua qualche querela, visto che "lorsignori" sono molto sensibili al portafoglio, e che ciò serva a potenziare gli strumenti dei siti informatici del Movimento. Vogliamo rimarcare, invece, altri due fatti, di rilevanza europea: il recente arresto di Paolo Persichetti, e la messa fuorilegge del partito basco Batasuna, tentando di dare una lettura unitaria al tutto. Sull’arresto parigino, è chiaro che si sta concretizzando quel coordinamento delle polizie europee già annunciato da tempo ed oggi facilitato ed accelerato dall’omogeneità di un’Europa per 4/5 governata dal centrodestra. L’obiettivo è quello di rivedere la posizione assunta dai governi Mitterand e Jospin sull’estradizione dei rifugiati politici italiani in Francia. Sulla questione BATASUNA (ma possibile che in Italia l’unica voce istituzionale dissenziente debba essere quella di Kossiga ?), siamo veramente al neofranchismo. Basta ricordare che alla base della legge Aznar, che decide tra buoni e cattivi, c’è l’obbligo di emettere comunicati di condanna contro eventuali azioni dell’ETA. Non basta non fiancheggiare o non "tifare". Occorre una pubblica esternazione "contro", che non ricorda forse il giuramento di fedeltà al regime fascista ?

Di fronte a questi fatti, come non arrivare alla conclusione di essere davanti ad un piano repressivo preordinato e di largo respiro ? Il "Nuovo Ordine Mondiale", annunciato da Bush I, sembra avere attuazione con Bush II, e trovare il suo corollario nella guerra permanente, nella repressione generalizzata contro i sindacati non filogovernativi, contro gli immigrati, contro le formazioni antagoniste, insomma contro chiunque mostri di non essere compatibile con la "Law and order" liberista.

Pertanto, rinnoviamo l’appello alla massima vigilanza, considerato anche il clima politico del prossimo autunno, quando la "fantasia" dei soliti noti potrebbe dispiegarsi con le modalità di una strategia della tensione, sperimentata in più di trenta anni di storia italiana.

Roma, 27.08.2002

CONFEDERAZIONE COBAS

                                

 

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IL CONVITATO DI PIETRA:  IL MOVIMENTO

COMUNICATO

di

 "Vis-à-Vis"

e

"Corrispondenze Metropolitane"

 

 Escusatio non petita …

Quando dopo molto, troppo tempo la storia comincia di nuovo a marciare e l’utopia concreta torna a manifestarsi a livello planetario, il saluto di questo evento fluisce con spontaneo entusiasmo.  Noi siamo stati tra i primi a dare un calorosissimo benvenuto alla "vecchia talpa", quando il suo muso è tornato a spuntare dai profondi cunicoli, che nel deserto sociale degli ultimi venti anni non si era mai stancata di scavare.  Lo abbiamo fatto con i dovuti toni e con una inusuale (almeno per noi) stringatezza.  Dopo tanti anni, la passione politica poteva di nuovo esprimersi con forza senza cadere nell’insensato vaniloquio di chi sempre vede situazioni rivoluzionarie, anche dove regna sovrano l’atomismo della sconfitta.  Purtroppo, la vecchia talpa è un animale capriccioso (sarà forse l’età) e quando riaffiora non è detto che esca fuori del tutto con la rapidità che tutti noi auspichiamo:  si ferma lì un pochino interdetta, fa una leggera retromarcia, scava ancora un po’.  Ma oramai la sua presenza è divenuta concreta, anche se si diverte a fare la preziosa.  Oggi ci troviamo proprio in questa situazione:  una prima forte scossa ha fatto tremare il vecchio e marcescente edificio del capitale totale, ma ben altri tremori devono arrivare perché i "Palazzi" incomincino a crollare.  A questo punto il primo entusiasmo è un po’ sopito e la consapevolezza dei compiti che ci attendono, a fronte di tanta confusione che offusca la lucidità di molti, prende il sopravvento.  La penna fluisce meno leggiadra sul foglio e si incaglia su alcuni scogli pericolosi, che ostruiscono la navigazione verso il mare aperto della libertà.  L’agile propaganda dei comunicati viene soppiantata dalla pesantezza dei documenti di analisi.  L’argomentare si fa più circostanziato, forse anche un po’ minuzioso, per non dire un tantino pedante.  Purtroppo, la “fatica del concetto” è un passaggio che non si può eliminare.  Almeno per noi, convinti come siamo dell’impossibilità di immergerci nell’assoluta pienezza del positivo e della necessità di menarcela ancora con il “travaglio del negativo”.  I nostri lettori ci perdoneranno se qualche pesantezza espositiva non era strettamente necessaria.  Nessuno è perfetto, a parte i perfetti idioti …

 

IL CONVITATO DI PIETRA:  IL MOVIMENTO

 

1.  A mo' di analisi di fase di un capitalismo fuori fase.

 

Da Seattle a Roma, passando per Praga, Nizza, Napoli, Genova, i giochi si sono riaperti su scala planetaria.  La "fine della storia", il monolitismo egemonico del "pensiero unico", le magnifiche sorti e progressive del mercato e della new economy post-fordistica ... tutto dissolto sotto il fumo sia dei lacrimogeni avvolgenti la città del mitico luglio '60, che delle macerie insanguinate delle Twin Towers, simbolo dell'arroganza yankee infine venata di un'inquietante "angoscia tardo-imperiale"!

L'oggettività dell'ormai ultraventennale crisi di stagnazione da sovrapproduzione, che attanaglia Monsieur le Capital, va innescando con effetto-domino una serie incontrollabile di focolai di crisi interimperialistiche sempre più aspre e minacciose e, nella caduta verticale di un'economia di scala ormai incapace di attivare una domanda adeguata, si infrange il mito di quello "sviluppo dell'accoglienza" che, nonostante ben due guerre mondiali, ha caratterizzato il ciclo di capitale lungo il corso della prima metà del secolo appena conchiusosi, sino all'ultimo grande sussulto espansivo del secondo dopoguerra.

Il capitale finanziario, nel suo versante produttivo, sta portando avanti da diversi anni una guerra intestina tra le sue diverse fazioni, a forza di guerre commerciali, fusioni e acquisizioni, finalizzate alla conquista dei mercati oramai troppo ristretti perché ci sia spazio per tutti;  nel suo versante monetario, fa razzia di profitti speculativi, spostandosi senza ostacoli da una parte all'altra del globo, per assorbire una parte del plusvalore prodotto nei diversi punti della terra, data la sua incapacità di investire produttivamente le grandi masse di profitto precedentemente realizzato.  E' un gioco unico, che gli stessi attori portano avanti su due tavoli, senza preoccuparsi affatto che si tratti di un gioco praticamente "a somma zero", in cui, di volta in volta, per ogni "vincitore" rimangono sul campo moltitudini di vittime assolutamente estranee alla conduzione del "gioco" stesso:  quelle enormi masse umane, definitivamente mercificate e deprivate dei loro già miseri mezzi di produzione precapitalistici, espulse dal ciclo ormai "globale" della produzione/riproduzione sociale, sottoposte alla precarizzazione più feroce della loro stessa esistenza quotidiana e, nel "migliore" dei casi, taglieggiate oltre ogni limite, nei loro redditi salariali.

In tale disarticolazione irrefrenabile del proprio quadro strutturale e gerarchico, il dominio capitalistico assiste pressoché impotente allo scatenarsi di fenomeni sempre più incontrollabili di insorgenze di conflitto sociale, a cui non ha più margini di manovra/recupero per rispondere, tramite idonee politiche redistributive.

In cinque anni il crinale del conflitto è ritornato dunque a delineare i contorni di un'alterità possibile, e la torsione in chiave sempre più scopertamente militaristica delle dinamiche disciplinatrici innescate da Monsieur le Capital, in forza dello "spettacolare quanto provvidenziale evento" delle Twin Towers, mostra la sua irrefutabile inadeguatezza rispetto alla reale portata della crisi sistemica in atto.  La dichiarazione unilaterale di una guerra permanente, contro un nemico tanto invisibile (il "terrorismo"!?!) quanto incistato dentro le fibre del suo stesso "modello sociale", al di là di qualsiasi connotazione ideologico-spettacolare, costituisce di fatto una sorta di controrivoluzione preventiva, sostanzialmente mirata contro il solito "fantasma rosso" che torna ad aggirarsi per il mondo, tendendo a reincarnarsi nel minaccioso e immane corpo di quel proletariato universale di cui il capitale stesso ha posto in essere le condizioni materiali di esistenza, quasi inconsapevolmente "evocandone" la furia distruttrice … la famosa "negazione della negazione" di marxiana memoria!

Il potere capitalistico per ora dominante, quello americano, che qualcuno vorrebbe "biopolitico" ed "imperiale" (?!?), dipana in realtà la sua mortale potenza bellica su uno scenario geografico che:  A) si può facilmente sovrapporre alla cartina delle fonti e delle rotte distributive dell'energia (Medio Oriente, Balcani, Caucaso e Asia Centrale), mostrando l'incessante dipendenza dell'accumulazione capitalistica anche dai "soliti fattori oggettivi" della produzione (quella "morta materia", liquida o gassosa che sia, che necessita poi dell'altrettanto indispensabile "fattore soggettivo", unicamente esperibile nel "lavoro umano");  B) delinea una strategia di preventivo contenimento nei confronti degli attori geopolitici potenzialmente in grado, nel breve-medio periodo, di minare l'egemonia americana (Europa, Russia, Cina), mettendo in evidenza una conflittualità interimperialistica in via di dirompente approfondimento, sebbene ancora oggi latente, perché nessuna potenza è attualmente in grado di contrastare gli Stati Uniti, simultaneamente sul piano politico, militare ed economico.

 

2.  Riemergere della conflittualità e letture mistificanti.

 

Al di là, comunque, dell'oggettiva "rendita di posizione" garantita dall'odierno approfondirsi e rendersi operanti delle contraddizioni materiali che minano costitutivamente il ciclo di capitale ed il suo dominio, è doveroso rimarcare a tutt'oggi un pesante ritardo, sul versante della soggettività anticapitalistica.

Se ad evidenziare questo dato preoccupante, non bastasse il quadro complessivo della dialettica sociale che, pur ormai riattivandosi su scala planetaria, continua però ad evidenziare soprattutto valenze di mero rifiuto ribellistico delle condizioni presenti, tende purtroppo a confermare tale valutazione anche lo stesso peculiarissimo "caso argentino", malgrado esso sia certamente di ineguagliata esemplarità, sul versante di una definitiva e totale "messa a nudo del Re" con conseguente universale delegittimazione del cosiddetto "potere costituito" (e dei suoi lacchè politicanti di qualsivoglia colore, così come dei suoi "padrini imperiali").  Infatti, anche se in Argentina assistiamo ormai da mesi ad una mobilitazione estesa e tutt'altro che effimera (che in qualche pur vago modo, con il suo sedimento reticolare di "comitati territoriali" di autogestione/autorganizzazione "sociale", richiama l'epoca dei cordones obreros di Santiago e Valparaiso, ai tempi di Unidad Popular, al di là - come evidenzia lo stesso nome - delle ben più salde radici, di questi, dentro le "cinture" industriali e proletarie delle due metropoli cilene), la drammatica impasse in cui tale "rivolta di popolo" sembrerebbe stazionare, rischia di sancire ulteriormente, e con impietosa evidenza, il fatto che un mondo diverso è certamente necessario, ma al tempo stesso terribilmente "problematico":  la "moltitudine che disobbedisce" non costituisce di per sé una forza in grado di ribaltare di segno il movimento inerziale che tende a riprodurre, aggravandolo, lo stato di cose presenti.

La "moltitudine", ancora una volta, non si rivela altro che come il corpo sociale stesso (cioè la fantomatica cosiddetta "società civile", omologo di quell'"asineria" che per Marx era il "popolo") nel suo stato di atomizzazione e di conseguente oggettiva impotenza.  La mera, immediata ribellione allo stato presente delle cose, non può non sancire come prima espressione di sé un "antagonismo acefalo", un rifiuto che necessita di un ulteriore, qualificante ed essenziale passaggio:  ciò che urge, sul versante della soggettività, è una pratica teorica di massa in grado di coniugarsi nel lessico di un'autonomia reale e di una consapevole progettualità finalisticamente orientata, incentrata sul crinale impervio ma qualitativamente determinante del rapporto capitale/lavoro.  Senza tale scarto soggettivo sul piano di una operante autodeterminazione strategica, è alla lunga inevitabile che il corto circuito della passivizzazione si ripristini, riconducendo tutto sotto il dominio del ciclo dell'astratto.  Quel ciclo dell'astratto che sostanzia la realtà del processo di valorizzazione del capitale, celando sotto l'unica forma relazionale alienata loro concessa in quanto merci (cioè il mercato!), il comune fondamento materiale delle individualità affatto irrelate, che compongono la "moltitudine" stessa:  fondamento unicamente esperibile dentro il "segreto laboratorio della produzione", nella reticolare complessità dei rapporti sociali che a questa afferiscono.

Senza la consapevolezza critica e di massa di tale "fondazione", in un "corpo sociale" ancora unificato soltanto dalla comune avversione nei confronti del potere politico-economico "trascendente", non si risolvono né "egemonicamente" né "conflittualmente" le profonde spaccature di classe che inevitabilmente attraversano la cosiddetta "società civile".  E in ciò, ancora, l'Argentina docet:  le assemblee di barrios, di per sé, non possono ricomporre, nella sola dialettica della democrazia diretta autogestionaria, l'antagonismo di interessi di classe contrapposti, come quelli dei ceti medi, che vorrebbero ristabilire lo status quo ante, in cui era loro permesso di spartirsi le briciole dei banchetti speculativo-finanziari, e quelli del proletariato, che anche nelle condizioni precedenti alla crisi non aveva da dividersi che la propria miseria.  La strutturale precarizzazione di quest'ultimo, oggi definitivamente giunta all'espulsione di enormi masse di salariati dai luoghi di lavoro (i piqueteros), deve riuscire a produrre dentro le sue fila una piena consapevolezza critica dei suoi specifici interessi, inevitabilmente conflittuali con chi tende prioritariamente a rivendicare soltanto i piccoli privilegi oggi sottrattigli dall'imperversare di una crisi sistemica di cui è tuttora inimmaginabile l'esito.  E la pratica diretta sul terreno concreto dei bisogni proletari, in Argentina come dovunque, non potrà che riconoscere e sancire nelle lotte autorganizzate sul fronte strategico del conflitto anticapitalistico, dentro i rapporti di produzione, la reale autonomia di un nuovo processo di ricomposizione politica di classe.

Restando sull'esempio offerto dal pur avanzato ed emblematico laboratorio argentino, una tragica crisi senza soluzione sarebbe quindi l'esito inevitabile, SE ci si dovesse malauguratamente attestare sull'esistente, scambiando/spacciando i lineamenti embrionali di un nuovo soggetto collettivo rivoluzionario, con la sua forma compiuta.  Le difficoltà attuali diverrebbero così impedimenti strutturali, ontologici.

E proprio questa, ahinoi!, sembra essere una convinzione assai perniciosamente diffusa anche tra chi, nel sin troppo "variopinto" caleidoscopio dell'appena conchiuso Forum Intercontinentale di Porto Alegre, si pretenderebbe "antagonista".  Con l'aggravante, però, che in tal caso quella convinzione, certo in sé rinunciataria, riesce a ribaltarsi in ridicolo trionfalismo, trasformando idealisticamente (spiritualisticamente?!) la debolezza in "forza", il limite in "punto di arrivo", il misero tatticismo in "grande strategia".

 

3.  "Movimento dei movimenti" e fondazione materiale.

 

Questo singolare fenomeno è particolarmente visibile in Italia.  Ecco quindi diffondersi, nella nostra "beata" penisola, le brillanti trovate verbali che pretendono trasformare in oro tutto ciò di cui trattano.  Tra queste una si segnala per impareggiabile genialità:  il "movimento dei movimenti".  Laddove un movimento di massa altro non è che l'operante abolizione/superamento di quella separatezza atomistica, che il mercato capitalistico determina nel seno del corpo sociale da esso costantemente riprodotto/rimodellato, non si capisce bene cosa possa essere un movimento costituito da un'indeterminata serie di "corpi separati".  E' ovvio che un movimento non è una "mistica unione" in cui tutte le differenze vengono abolite:  ogni movimento esprime dentro di sé tendenze differenti, talvolta confliggenti, che determinano una dialettica interna anche molto aspra, per la cui libera articolazione necessitano specifici "luoghi" deputati all'autodecisionalità collettiva, in termini di democrazia diretta, e per il cui superamento sincronico, ogni volta vanno riverificati momenti mobilitativi di autentica fusione materiale.

Tuttavia, tali differenze dovrebbero articolarsi nel contesto di un orizzonte di finalità, sorretto da un impianto analitico-categoriale condiviso da tutte le componenti.  Un'analisi comune, cioè, delle forme attuali del capitalismo, dei modi dello sfruttamento e del controllo, della composizione di classe posta in essere dall'attuale ciclo dell'accumulazione, delle contraddizioni materiali intrinseche ad esso (conflitti intercapitalistici e tensioni sul piano geo-economico e geo-politico);  così come anche un orizzonte di prospettive generali, che sappiano individuare un percorso complessivo capace di andar oltre le semplici scadenze (simboliche o vertenziali che siano), per passare dalla contestazione di singoli eventi, a una costante presenza conflittuale nella "quotidianità" del dominio del capitale, a partire da quei rapporti sociali di produzione che ne alimentano le dinamiche espansivo/accumulative, garantendone la valorizzazione (nei soliti termini ad esso propri:  la subordinazione/sfruttamento del lavoro).

Solo in un quadro generale di tale specie, pienamente condiviso, le componenti (individuali e/o collettive) del movimento compiono realmente, e non solo "formalmente", la propria fusione in esso, rinunciando al proprio essere "parte separata", per diventare componente di una universalità che si determina come concreta (il movimento di massa a struttura soggettiva), in quanto nessuno abdica alla piena libertà di intervenire nei suoi processi decisionali.

Parlando di "movimento dei movimenti" si allude, invece, al fatto che queste parti si giustappongono, si sommano, rimanendo sostanzialmente estranee le une alle altre;  un'allusione che, riducendo il movimento a semplice movimento delle coscienze, da un lato vuole offrire una nobilitazione a questa separazione (che, come vedremo, lascia enorme spazio a quei soggetti organizzati "esterni" che, da fuori appunto, sono in grado di portare, o meglio, "rappresentare", in termini mediati e delegati, il presunto "interesse generale" del movimento), dall'altro, ne occulta le strette connessioni materiali con le articolazioni specifiche dei rapporti sociali di produzione.  Infatti, benché il lavoro, almeno sul piano dell'immaginario generale, non costituisca più il fondamento della società, fonte di senso e identità sociale, esso rimane, però, nella sua forma storicamente determinata (cioè specifica del modo di produzione capitalistico), come lavoro astratto, "senza qualità", come merce forza-lavoro, il motore insostituibile di tutto il ciclo del capitale.

Dunque, se ancora il "centro di gravità permanente" della società del capitale è costituito dalla sottomissione reale del lavoro vivo, è su di esso che deve saper convergere qualsivoglia forma di conflitto radicalmente e coerentemente indirizzato contro lo stato di cose presenti.

Il blocco, lo scardinamento del circuito del valore non può che partire dall'elemento cardine di esso, non può cioè non negare la subordinazione del lavoro vivo al lavoro morto, il fatto che quello sia espropriato per essere reso funzionale alla razionalità calcolante del profitto.  Insomma, "un altro mondo è possibile", certo, ma perché esso divenga reale è necessario trasformare la forza-lavoro da mero fattore, sia pur "soggettivo" (variabile dipendente), della produzione di capitale, in "agente storico sociale" (variabile indipendente), autonoma capacità teorico-pratica di progettazione/costituzione di alterità qualitativa, rispetto all'astrazione concreta del "a-qualitativo".

Tutto ciò dovrebbe essere banale e scontato per ogni coscienza critica, ma, ahinoi!, pesanti rimozioni sembrano ancora gravare su non pochi settori di movimento.

 

4.  Soggetto collettivo, trucchi della politica e ciclo della rappresentanza.

 

Nel momento in cui un nuovo soggetto collettivo si affaccia sul proscenio della storia, le organizzazioni politiche preesistenti non hanno che due alternative:  o sciogliersi in esso, rimanendovi tutt'al più come componenti interne, o preservare se stesse, mantenendosi nella loro separatezza.  Questa secca alternativa non può in alcun modo essere elusa attraverso miseri giochi di prestidigitazione.  Un "gruppo politico" che per astratto decreto si autodefinisca "movimento", pretendendo con ciò di entrare a pieno diritto nell'alveo del "movimento dei movimenti", non risolverebbe certo il problema, anzi, finirebbe per intorbidare le acque, come infatti ci sembra capiti, ad esempio, con il neonato "movimento dei disobbedienti":  una "combinazione meccanica", sempre reversibile, viene sostituita a bella posta a quella "reazione chimica" irreversibile che costituisce ogni reale movimento a struttura soggettiva.

Nel caso in cui il ceto politico non rinunci a essere tale, non si sciolga cioè nel movimento, ma rimanga conchiuso nella propria logica da apparato, come corpo separato, la sua traiettoria politica finisce inevitabilmente e inerzialmente per confliggere con il soggetto collettivo stesso, anche nel caso in cui esso si predisponga a "fiancheggiarlo", considerandolo però, in buona sostanza, o come semplice serbatoio di forza lavoro politica, o come inerte massa di manovra.

E poco conta pretendere di poter effettuare l'azzardo di un passaggio dalla forma-partito alla forma-movimento, come parrebbe voler tentare Rifondazione Comunista, nel tentativo di innescare una sorta di "transustanziazione" fra il proprio corpo militante e il corpo sociale del "movimento dei movimenti":  non bastano i nominalismi e/o i formalismi di una logica comunque inalteratamente politicistica, a cambiare la sostanza di un rapporto di intrinseca alterità, rispetto al determinarsi autopoietico dei soggetti collettivi, come quello che il partito del "movimentista" Bertinotti in quanto tale non può non avere … a meno che il ben cospicuo "zoccolo duro" di "amministratori istituzionali" che vanta il PRC non si pensi di poterlo convertire, per decreto, in un ennesimo "movimento" da far confluire nel grande alveo del "movimento dei movimenti" (il che sarebbe per altro "in linea", con quell'"impossessamento dei nessi amministrativi", cui tendono, in ultimissima istanza, le rocambolesche pratiche ad alto tasso spettacolare del sedicente "Movimento dei Disobbedienti", oggi assai vicino, non a caso, al PRC).  Né, anche proprio in forza del suddetto "zoccolo duro", ci sentiamo di considerare lo "strappo" con la tradizione terzinternazionalista, recentemente compiuto da Bertinotti, molto di più di un pur intelligente escamotage (tutto politico, appunto), per mettere una seria ipoteca in chiave elettoralistica, sul grande bacino di potenziali voti che può rappresentare il tanto vezzeggiato "movimento dei movimenti", per chi non ha mai veramente cessato di intendere la politica soprattutto come "arte del governo dell'esistente".

D'altronde, non è qui certo in questione una presunta "cattiva fede" dei rappresentanti, una loro tendenza al tradimento degli interessi rappresentati.  Non si tratta di un meccanismo di "corruzione"/corrompimento dell'integrità dei delegati, ma delle dinamiche oggettivamente intrinseche alla rappresentanza stessa.

Il rapporto tra rappresentati e rappresentanti è un rapporto dialettico e, in quanto tale, conflittuale.  La volontà del rappresentante si oppone conflittualmente a quella del rappresentato quando questi, avendo trovato le condizioni della propria unione/fusione materiale con altri da sé, confluisce in un unico soggetto collettivo.  Per questo il rappresentante, se vuole seguitare ad essere tale, si pone oggettivamente in contrapposizione rispetto alla possibilità stessa della fusione e della ricomposizione del soggetto collettivo, così come anche dell'autonoma, diretta costituzione di sedi autodecisionali da parte di questo.

Contrariamente a quando si verifica la fusione generale e si autodetermina il soggetto collettivo in grado di esprimere una sua propria "volontà generale", nelle condizioni di atomizzazione connaturate alla società del capitale, gli individui fra loro irrelati sono costretti, per tale proprio status, a richiedere ad altri (il rappresentante eletto) di farsi portatore dei loro interessi ed esprimere con ciò la presunta "unità" delle loro volontà.  Un'unità che, non essendo né potendo essere espressione diretta e autonoma delle particolarità concrete dei singoli individui, ma generica sommatoria di interessi separati di individui separati, trasposta nell'astrattizzazione della mediazione politica (di cui la rappresentanza è peculiare formalizzazione), viene costituita in una falsa universalità, occultante la separazione reale, e nella quale ogni capacità decisionale viene assunta, per via di delega, dal rappresentante.  In questo senso, la volontà espressa dal rappresentante è astratta.  E' astratta perché la volontà rappresentata è separata dal corpo sociale, al quale invece questa volontà dovrebbe appartenere:  è quindi una volontà vissuta da altri, in altri luoghi e con altri tempi e modalità.  E', di fatto, la mera volontà generica del rappresentante che "unifica" in sé le singole volontà rappresentate, sopprimendo la loro pluralità e l'insieme delle loro particolarità, sostanzialmente alienandole nel ciclo dell'astrattizzazione universale.

La prima vera origine dell'alienazione politica sta appunto qui:  nella cessione della propria libertà di decisione alla figura del rappresentante, qualunque possa essere la "fedeltà" di questo al mandato, ricevuto assolutamente … "in bianco".

La "volontà astratta" esercitata ed incarnata dal rappresentante non è perciò la sua mera volontà personale, ma è il portato dell'uso individuale che egli fa della delega che il rappresentato gli concede, alienandogli la propria "capacità di volere".  Senza tali passaggi il rappresentante torna nel "nulla" atomistico di cui evoca, col suo stesso ruolo (anche magari illusoriamente informato da sincere velleità "contestative"), la pervasiva passivizzazione sociale.

Al tempo stesso, però, il rappresentante necessita anche di una "sponda istituzionale" che gli consenta di poter svolgere il proprio compito di mediazione tra la concretezza del sociale, di cui egli costituisce l'espressione alienata, e la sfera politica che in quella sponda innerva se stessa, come riproduzione specifica dell'astrattizzazione universale indotta dal capitale.

In quanto mediatore, il rappresentante necessita, dunque, di una duplice legittimazione:  da un lato, la "legittimazione democratica" del corpo sociale, "dissoltosi" in corpo elettorale, dall'altro, il riconoscimento dell'istituzione che lo include in quanto a sé "conforme/omologo".  E al fine di tale inclusione, il rappresentante non può dunque evitare di uniformarsi a quelle stesse "regole" dell'astratto che soprassiedono al ciclo della rappresentanza determinante la sua stessa esistenza in quanto tale:  in quanto "uomo d'apparato" (partito, sindacato, e giù giù sino alla più "ereticale" delle microrganizzazioni), egli non può non assumere le "compatibilità" istituzionali come proprio necessitato ambito d'azione, al fine del raggiungimento di una qualche serie pur minimale di obiettivi, sulla cui base rassicurare/imbonire coloro dai quali è stato eletto.

Insomma, sempre e comunque, la ri/attivizzazione diretta ed autonoma dei "rappresentati" costituisce la negazione più radicale della stessa ratio della mediazione politico/rappresentativa;  quella mediazione che, nella mistificante rappresentazione di un'astratta volontà generale, presuntivamente ricompositiva di diversi interessi di classe, costituisce il fondamento specifico della produzione della stessa sovranità dello stato.

In tale ottica, nel momento in cui i rappresentanti incarnano e sanciscono il potere di dissolvenza del reale, proprio del ciclo dell'astratto, inevitabilmente costituiscono anche un argine di contenimento normativizzante per il sociale, e quindi un pesante ostacolo nella sua capacità di fusione e di autodeterminazione.

 

5.  Movimento e ceto politico.

 

In base a quanto esposto, risulta evidente la particolare specificità del contesto venutosi a determinare, relativamente all'attuale fase del movimento in Italia.  Come abbiamo sempre riconosciuto, il ceto politico che ha saputo "attraversare il deserto", dopo la sconfitta del ciclo di lotte del decennio rosso '68/'77, riuscendo a mantenere una preziosissima e sinergica sintonia, rispetto alla graduale riapertura di varchi di contestazione e conflitto, iniziata dalla fine degli anni 80, oggi rischia di trasformarsi in una sorta di oggettivo ulteriore ostacolo per il movimento stesso.  Dopo aver tanto a lungo lottato perché un nuova fase di conflittualità dispiegata si aprisse, ora che tale obiettivo pare ormai realmente a portata di mano, anche grazie alla congerie infinita di contraddizioni che travagliano il mai tanto instabile dominio di Monsieur le Capital, questo ceto politico, soprattutto in alcune sue componenti, sta riproducendo esattamente le dinamiche poco sopra accennate, non accettando di percepire come in via di esaurimento la propria pur fondamentale funzione di "volano" atto a superare i "punti morti", le fasi di sconfitta e di passivizzazione/atomizzazione sociale.

Evidentemente, tale lucidità, tale autoconsapevolezza ancora non costituisce acquisizione consolidata delle tante battaglie che dal '68 si sono condotte sul fronte della critica della politica, nella sua costitutiva valenza alienata (in senso marxiano), ed a maggior ragione contro il rifiuto più radicale della tendenza di essa a farsi "autonoma", sfera assolutamente separata, dalla materialità delle dinamiche e del protagonismo sociale.  Al di là del falso dilemma di una presunta interna oppositività (assolutamente inesistente!) che si è troppo a lungo preteso individuare nel rapporto spontaneità/organizzazione, si pone qui il problema, invece, del ruolo dei comunisti, o di quanti, comunque, si collocano antagonisticamente, rispetto all'esistente dato, in forza di una propria opzione di alterità sistemica, nel cui nome si fanno agenti di contaminazione dentro i reticoli relazionali della presente complessità sociale.

Non ci stancheremo mai di ripetere che tale ruolo è fondamentale, MA deve essere sempre concepito come affatto strumentale e transitorio:  l'organizzazione in cui tali "agitatori", "militanti", "compagni", "monatti sovversivi" (li si chiami come si vuole) si uniscono in "collettivo", al fine di ottimizzare la forza di impatto del proprio impegno contestativo, non può e non deve mai diventare un fine in sé, né tanto meno subornare le diverse individualità, in una forzata quanto surrettizia omologazione "di gruppo".  Ma, soprattutto, quando si evidenzia la riemersione di un processo di ricomposizione sociale che prelude all'autodeterminazione di un nuovo soggetto collettivo rivoluzionario, essa deve saper autoidentificarsi in termini di assoluta internità e duttilità, rispetto al rinascente movimento, evitando di ossificarsi in "corpo separato", ma fluidificandosi in esso, attraversandolo e facendosene attraversare, e stimolando/agevolando al massimo l'indispensabile, autonoma costruzione "dal basso" di organismi associativi a democrazia diretta, che sappiano giungere a costituire le sedi reali di autodecisionalità del soggetto collettivo stesso.

Ecco, proprio tale "atteggiamento" ci pare sia assai raramente riscontrabile, nelle fila pur diversificatissime, di coloro che, in un modo o nell'altro, sono identificabili come ceto politico, "corpo militante", preesistente e confluente al/nel movimento che sta via via emergendo e formandosi, nel corso degli ultimi due anni circa.  Tant'è che già da parecchio andiamo denunciando che troppo ampi settori di esso non accennano affatto a rinunciare alla propria natura di struttura in sé conchiusa, per giunta, talvolta, anche più o meno scopertamente ricalcante obsoleti cliché "avanguardistici" di emmellistica memoria.

D'altronde, è pur vero che, in questa fase, il movimento ha, paradossalmente, rafforzato il ceto politico preesistente, dotandolo di una forza che prima, in un contesto di atomismo e di marginalità delle pratiche antagoniste, esso non aveva affatto.  E’ certo, questo, un passaggio per nulla inedito nello sviluppo dei movimenti:  le prime ondate di riattivazione del sociale spesso portano in alto, elevano, per una sorta di eterogenesi dei fini, settori consistenti di quel ceto politico che, durante la risacca della sconfitta di un precedente ciclo di lotte, ha garantito la resistenza, ha assicurato la trasmissione della memoria della sconfitta e si ritrova improvvisamente investito da quel soggetto collettivo che ha a lungo evocato.

Tuttavia, il movimento attuale sembra fare i conti con una particolare capacità del ceto politico di perpetuarsi e di assorbire la critica pratica di massa del ciclo della rappresentanza.  Causa, anche, del fatto che gran parte di questo stesso ceto si è costituito come "residuo" del precedente movimento di lotta del ventennio sessanta/settanta, in quanto composto da chi a esso partecipò direttamente o da chi, pur successivamente sopravvenendo, si è a esso idealmente riferito.  Volendo porsi in continuità con tale passato, quindi, questa parte di ceto politico “di movimento” non si percepisce per ciò che è realmente, ma si considera piuttosto come parte integrante di quella dimensione mobilitativa di massa di cui ha raccolto, a suo tempo, il testimone e di cui ha oggi promosso la riattivazione.  Esso stenta quindi a percepire la propria "estraneità genetica" da tale nuova ondata di mobilitazioni e conseguentemente non coglie la necessità di scegliere se mantenere il proprio ruolo, e quindi porsi in oggettiva contrapposizione a essa, o se abdicare a tale funzione, gradualmente sciogliendosi, diluendosi nel magma sociale che si sta ricomponendo.  Ma ci sono anche altre componenti del ceto politico, che invece non hanno attraversato i passati movimenti e/o che hanno esplicitamente e consapevolmente assunto l’opzione del primato dell’azione dell’organizzazione, rispetto all’autonomia dei soggetti sociali:  questi, consapevolmente “autocostituendosi” in una sorta di élite depositaria dei presunti "veri interessi" del movimento, vedono in esso una legittimazione e un sostegno al proprio operato (e non già la più radicale e pratica contestazione di ogni forma di autonomia del politico), sino a tentare di assumerne il ruolo di mediatori nei confronti degli apparati istituzionali, come autentici “professionisti della politica” che si fanno forza, nelle istituzioni rappresentative, grazie alla loro interlocuzione dialettica con il movimento e, nel movimento, grazie alle loro afferenze istituzionali-amministrative.

Situazione ben diversa fu invece quella del movimento degli anni 60 e 70, che si scontrò con un apparato partitico, quello del Pci, che si collocava in un orizzonte, culturale e di immaginario oltre che politico, caratterizzato da statolatria e fedeltà ai canoni del partito-soggetto, unico autentico motore delle lotte, portatore di quei contenuti generali e radicalmente trasformatori (di cui "per natura" si pretendeva il sociale fosse sprovvisto) e rigidamente strutturato su base gerarchica.  Quel movimento, insomma, si ritrovò a fare i conti con una “sinistra storica” che non poteva non porsi in contrapposizione immediata con l’improvvisa emersione di un processo di autodeterminazione del sociale per essa sostanzialmente inconcepibile, anche quando (e fu il caso di Longo, avversato duramente da gran parte del partito) tentò una timida apertura nei confronti del movimento, con obiettivi puramente ed esclusivamente strumentali:  conquistare una non indifferente massa di voti alle imminenti elezioni e, magari, reclutare qualche giovane quadro d’apparato.

Insomma, se il ’68 ebbe di fronte la muraglia cinese (anzi, russa) del Pci, assolutamente impermeabile e refrattaria ad aprirsi a esso, il movimento oggi si deve confrontare con un autentico "muro di gomma", con un ceto politico che si fa forza proprio di quel soggetto sovvertitore di ogni meccanismo di delega e di ogni espropriazione di volontà, e di cui al tempo stesso, per l’inevitabile portato dell’oggettività, paventa il dispiegarsi.

A testimoniare la difficoltà estrema di evitare l'inerziale innesco di tali dinamiche oggettive, non si può non registrare quella sorta di "lapsus freudiano" in cui gli stessi Cobas, una componente del ceto politico tra le più trasparenti e non compromesse con ambigue tentazioni "inciucistiche", sono incorsi in seguito allo sciopero generale del 15 febbraio.  Dopo aver dato un fondamentale contribuito (con tutta la loro stessa storia!) alla preparazione della scadenza e della grande vittoria che essa ha segnato, con il comunicato successivo alla manifestazione, hanno paradossalmente assunto un tono di immotivato bassissimo profilo, riconducendo tutto alla galassia del sindacalismo di base, con le sue pur sacrosante urgenze rivendicative, e lasciando invece oscurata sullo sfondo, la saldatura tra il movimento “no global” e ampi settori del mondo del lavoro, che proprio in quella giornata ha iniziato a profilarsi concretamente.  Quasi una "inconscia rimozione" del movimento, insomma, e paradossalmente proprio nel momento in cui, per la prima volta (anche grazie al loro impegno), questo ha assunto esplicitamente caratteri di classe, andando a convergere sul centrale terreno della contraddizione capitale/lavoro.

Ma, come abbiamo precisato, qui siamo di fronte ad abbagli sostanzialmente attribuibili alle difficoltà oggettive della fase ed alla enorme e problematica responsabilità di gestione di uno sforzo mobilitativo enorme, se rapportato a quella "forma-cobas", che di per sé nega qualsiasi forma di funzionariato e di delega, reggendosi esclusivamente sul livello dell'autorganizzazione diretta dei soggetti sociali, dentro i luoghi di lavoro!

Ben altro "stile" dobbiamo riscontrare invece, là dove ci si diletta di vaghi slogan che vengono surrettiziamente riempiti di contenuti determinati, senza che questi siano apertamente discussi e vagliati nell'ambito di sedi autonomamente scelte dal movimento;  e poco conta che, magari, il movimento stesso invalidi tali comportamenti, con il più eloquente dei "messaggi", semplicemente non mobilitandosi su quei contenuti (valga per tutte, l'esperienza della "marcia Perugia-Assisi", alla quale il movimento autonomamente decise, appunto, di non aderire, lasciando sfilare per conto loro, il "movimento delle municipalità uliviste", la galassia clericale, i socialimperialisti bombaroli, ecc.!).

Il tutto, d'altronde, tende sempre a risolversi in unanimistici quanto asfittici compromessi al ribasso, tra ceto politico autonominatosi dirigenza dei singoli "movimentini" che compongono il "meta-movimento globale" (il "movimento dei movimenti").  E siccome ancora non è data l'esistenza e, peggio ancora, non si sente alcun bisogno di un soggetto collettivo che sia realmente in grado di pretendere tutto, magari fra qualche tempo, le sedicenti dirigenze di movimento si sentiranno giustificate a cavalcare la miseria del presente accontentandosi di un nonnulla, purché venga concesso subito.  I rappresentanti hanno infatti incistato nel loro Dna il gene della "virtuosa ragionevolezza", della mediazione, del compromesso, in una parola, della politica, nel cui astratto regno i soggetti sociali concreti giungono trasfigurati in sbiadite rappresentazioni.  In questo processo di trasfigurazione, i bisogni, le volontà, i desideri del proletariato divengono merce di scambio per il ceto politico che può scegliere quale aspetto concreto elidere e quale mantenere, per giungere ad una rappresentazione compatibile con i suoi disegni di compromesso con l'avversario di classe.

Infine, c'è semmai da notare come, in un settore del movimento dotato di ampia visibilità pubblica (e che di tale connotazione ha fatto un suo proprio permanente e prioritario obiettivo, a suon di spettacolarizzazioni mediatiche!), si siano affermate parole d'ordine di carattere per così dire "movimentista" (pur con le ambiguità che abbiamo visto prima a proposito del "movimento dei movimenti") e una pratica reale fatta di verticismo, primato dell'organizzazione (sia pur rinominata "movimento") e conseguente prevalenza degli interessi immediati e strumentali della propria struttura su quelli complessivi.  Gli stessi "portavoce", in assenza di momenti di discussione e decisione realmente aperti e orizzontali, tendono a configurare una cessione più o meno "democraticamente delegata" ad altri, della parola e volontà (la "capacità di volere") di coloro nel cui nome pretendono parlare.  A quanto pare, la pratica dei "figli", i "Disobbedienti" (cui stiamo evidentemente riferendoci), si pone in perfetta continuità con quella dei "padri", nei confronti dei quali i primi sembrano essere particolarmente ... obbedienti.  D'altronde, l'attività politica e teorica del milieu "potoppino" (e in specie dell'ineffabile Prof. Totonno Negri) è stata sempre coerentemente organizzata intorno a un nucleo interpretativo solo raramente esplicitato:  la riduzione dell'insieme dei rapporti sociali capitalistici (rapporti di sfruttamento e comando) a mera forma politica, ad arbitrario dominio, cui si contrappone specularmente la necessità, per chi su quei rapporti vuole intervenire, di strutturarsi sempre utilizzando quella forma.  Il depotenziamento della libera attivazione dei soggetti sociali, in favore di strutture politiche, è l'elemento di fondo che accompagna l'intero peregrinare politico e teorico del filone di matrice appunto "potoppina".  I membri di questo si sono sempre posti come entità a se stanti, con i piedi ben piantati nelle "alte quote" della politica:  nell'autonomia della politica, oltre e contro il sociale.  Dal canto loro, i "figli", nella loro nuova, nominalistica "registrazione soggettiva" di "movimento dei disobbedienti", lasciano trapelare la solita vecchia tentazione ipersoggettivistica di un ceto politico che pretende non più soltanto di "costruire i movimenti", ma addirittura di "transustanziarsi" in essi:  non più "soltanto" la coscienza esterna che manipola e plasma nel proprio lessico politicistico l'immota decerebrata materialità del "sociale", ma la "coscienza politica" che si fa negrianamente (gentilianamente?!) "spirito assoluto" e fonda e incarna, nell'immanenza del proprio atto, un essere sociale "moltitudinario", eternizzato nella propria dimensione atomistica, tanto "oggettivamente" polimorfica, quanto sostanzialmente afasica e incapace di autodeterminarsi e di esprimere una propria soggettività.  L'autonomia della politica si riaffaccia così, nella più bieca forma di un vetero-leninismo inconfessato!

 

6.  Porto Alegre, ovvero l'insostenibile leggerezza delle … grandi ammucchiate.

 

Se questa è la situazione italiana, ormai unanimemente riconosciuta come la più avanzata a livello internazionale, non sorprende che Porto Alegre, ben lungi dall'offrire qualificanti spinte in avanti, abbia invece addirittura fatto rimarcare un'inaspettata quanto indubbia regressione, rispetto al livello su cui si era assestata l'esperienza del primo forum mondiale, ospitatovi un anno fa.

Malgrado giammai, come in questo caso, possa dirsi che il tempo abbia lavorato per noi, sul piano "oggettivo", è innegabile che, a fronte di ciò, risaltano invece con maggiore impietosa evidenza quelle carenze sul piano della soggettività, di cui abbiamo già accennato.  Da un lato, infatti, nel corso degli ultimi tempi, e soprattutto dopo la stretta in senso militaristico imposta dagli Usa, sull'onda dell'evento delle "Twin Towers", al proprio vacillante predominio mondiale, si è potuto notare uno strisciante inasprirsi delle contraddizioni interimperialistiche fra il "vecchio" gendarme del mondo e il nuovo polo economico-finanziario dell'Europa, tuttora subordinato al primo sul piano politico-militare, ma sempre più orientato ad accaparrarsi nuove aree di espansione accumulativa.  Da un altro lato, e proprio in forza di tali contraddizioni accentuantisi sul versante del capitale globale, purtroppo su Porto Alegre si è andato specificatamente orientando l'interesse dei rampanti comparti finanziari europei, i quali hanno ritenuto di mettere in campo i propri rappresentanti politici, per far loro giocare la carta di una fantomatica "Europa sociale dei diritti e delle regole", in grado di dialettizzarsi con lo stesso "movimento no-global", offrendogli una sponda di interlocuzione tanto accattivante, sul piano di una "logica dell'obbiettivo", quanto inquinante sul piano della sua stessa autoidentificazione strategica.

Ed è così potuto capitare che, contro il recente progetto made in Usa dell'"Alca" (Area di Libero Commercio delle Americhe), nuova variante di quella ben nota "dottrina Monroe" che identificò il continente sudamericano come il cortile di casa yankee, la "pallida madre Europa" ha puntato la carta della sua primazia sul terreno dei diritti umanitari e, sguinzagliando i propri socialdemocratici cantori di un "capitalismo dal volto umano", ha di fatto posto la sua snaturante ipoteca sull'"evento Porto Alegre"!  Evento che, conseguentemente, è risultato articolato, di fatto, su due livelli ben distinti:  uno "ufficiale" (quello delle Ong, delle socialdemocrazie, dei PC, delle gerarchie e comunità religiose, ecc.ecc.) e uno "ufficioso" (quello degli “incompatibili”, degli ospiti "poco raccomandabili" o addirittura "impresentabili").  Laddove, all'insegna di una sostanziale doppiezza tutta politicistica, il primo livello è stato mirato al tentativo (tuttora in atto) di un’operazione di recupero/integrazione, con finalità anche funzionali, appunto, al conflitto interimperialistico, mentre al secondo è stata affidato il ruolo della classica, ipocrita "carotina" da elargire per garantirsi il fiore all'occhiello della "democratica" partecipazione al Forum di ognuna delle innumerevoli componenti del "movimento dei movimenti".

Il tutto all'insegna di un'irrisolvibile ambiguità di fondo, snaturante le stesse originarie finalità del forum e tesa non alla critica della globalizzazione, ma alla sponsorizzazione di una “globalizzazione dal volto umano”;  non alla critica del capitalismo tout court, ma solo della sua "versione neoliberistica";  non alla critica dell’economia del capitale globale, ma al rilancio della politica come utile regolamentazione delle sue più aspre aporie interne.

A Porto Alegre, insomma, le sinistre istituzionali della UE sono sbarcate in forza, lasciando le bombe a casa, non certo per fare una scampagnata in un posto esotico, né per rifarsi una "verginità" cui non hanno mai conferito alcun valore:  tali inveterati lupi della politiKa si sono precipitati a giocare una perversa partita sulla pelle delle "moltitudini desideranti", tesa allo smarcamento dall'invadenza ormai insopportabile del padre/padrone ameriKano, nella ricerca di un'alleanza strategica col "popolo no-global", che potrebbe fungere da strumento di penetrazione politico-economica in territori ove il secolare predominio yankee sta ormai scatenando uno stato di crisi permanente con conseguenti esplosive "crisi da rigetto".

D'altro canto, l'appoggio dei socialisti francesi ad Attac la dice lunga sulle possibili strumentalizzazioni del "movimento dei movimenti".  Per non parlare poi dell'oggettiva funzione di "diplomazia informale" delle Ong, le quali, praticamente a costo zero (essendo per lo più sovvenzionate da istituzioni internazionali come l'Onu), si fanno veicolo strumentale della "frazione imperialistica socialdemocratica" (l'Europa!) per la creazione di preziosissime teste di ponte in funzione affaristico-mercantile, in giro per il mondo:  "controllare la mondializzazione in senso umanitario" diventa così un ipocrito slogan dietro cui si cela l'anelito europeo verso una cospicua serie di sbocchi commerciali assolutamente indispensabili, in tempi di crisi da sovrapproduzione siffatti!

Insomma, a Porto Alegre, ancora una volta, la vaghezza dei contenuti e il politicismo di una gran parte delle sedicenti dirigenze di movimento sono stati oggettivo pretesto per coprire/servire progetti che nulla hanno a che fare con gli interessi del proletariato universale.

Ma c'è di più:  l'oggettiva legittimazione/canonizzazione determinatasi, da parte della "sinistra di governo", nei confronti del ceto politico "di movimento", ha un'ulteriore precipua finalità.  Si tratta di una sorta di "esorcismo preventivo" nei confronti dello spettro che si RI/aggira per il mondo:  il proletariato universale.  Rinsaldando con una patina di ufficialità l'oggettivo vincolo di omogeneità nell'astratto, della comune afferenza alla sfera della mediazione politica e della rappresentanza, entrambi quei comparti di professionisti della politica politicante tentano di esorcizzare il materializzarsi di quello spettro da cui finirebbero per essere ugualmente spazzati via!

Se non ci fossero state le Madri de la Plaza de Mayo (che alcuni nostri ineffabili "rappresentanti" non si sono esentati dal "bacchettare", disvelando nel modo più spregevole la propria miserabile natura di insignificanti quanto inconsapevoli usignoli del Principe!) a garantire la più dispiegata ed irrefutabile visibilità alla memoria di classe e ad un'analisi di fase centrata sulla necessità strategica del conflitto anticapitalistico e del riconoscimento dei suoi più autentici protagonisti (quei piqueteros del Rio della Plata in cui esse hanno saputo riconoscere i loro stessi figli e figlie massacrati), se non ci fossero state queste donne a segnare distonicamente, con la loro coerenza e radicalità, la grande kermesse di Porto Alegre, ben poco in tal senso avrebbero potuto/saputo fare i nostri gloriosi "rappresentanti" italiani (fra cui certo, non sono mancati pochi isolati e pur infaticabili assertori di un "no-global" effettivamente alieno da illusioni neoriformistiche).

 

7.  Che fare?  Il movimento che verrà.

 

Di fronte a questi esiti nefasti, bisogna ribadire la necessità che il movimento trovi le sue sedi e le sue modalità di autorganizzazione, attraverso la più radicale pratica di democrazia diretta che permetta il pieno esplicitarsi del suo antagonismo e della sua autonomia.  Ma affinché ciò accada il movimento stesso deve attraversare - e consolidarvisi - i gangli vitali di quel processo della valorizzazione capitalistica che, come si è detto, costituisce la struttura fondamentale degli assetti di potere dominanti.  Solo immergendosi nella contraddizione costitutivamente fondante dell'intero sistema di dominio, quella tra capitale e lavoro, il movimento può assumere un potere di veto, una permanenza e una visione strategica che lo mettano in grado di sparigliare le carte sul putrido tavolo da gioco del capitale.

In questo senso, non vi sono dubbi sul fatto che la scadenza del 15 febbraio abbia rappresentato un oggettivo salto di qualità nel percorso che si è andato a delineare da Seattle in poi.  In esso si è prodotto quell’incontro effettivo tra il "popolo no-global" e ampi settori del mondo del lavoro, che si era verificato solo parzialmente nelle scadenze precedenti.  Ciò risulta tanto più significativo, qualora si prenda in considerazione un dato:  i "social-forum" non hanno sostanzialmente granché puntato su tale scadenza (nel corteo romano, erano infatti assai scarsamente visibili), e altrettanto si può dire del PRC e dei quotidiani che "fiancheggiano" il movimento ("il manifesto" e "Liberazione"), che nei giorni precedenti hanno in certo modo sminuito la valenza della mobilitazione del 15.  In pratica, il cosiddetto "popolo no-global" si è mosso un'ulteriore volta, senza seguire le concrete indicazioni dei soggetti politici che pure possono essere considerati "di riferimento".

L'operazione tentata a Genova dagli apparati statali, di “intervento preventivo” contro ogni forma di riattivazione antagonistica del sociale, quindi, non è riuscita.  La svolta ferocemente repressiva, che nel corso delle “giornate di luglio” ha dispiegato tutte le proprie ricadute distruttive, così come la successivamente esplicitata "dichiarazione di guerra permanente" contro un cosiddetto ”terrorismo” dentro cui si tende a comprendere ogni e qualsivoglia espressione di conflittualità indirizzata contro il dominio globale del capitale, non sembrano essere riuscite ad arrestare l'ormai dilagante espandersi, su scala planetaria, della conflittualità sociale;  né ci riuscirà l'eventuale innovata "strategia della tensione", che sembra venir rinfocolata, con tempismo davvero spudoratamente eloquente, con il per ora "sommesso" preavviso della bomba al Viminale.

Quella sorta di rappresentazione simbolica della ricomposizione di classe, che si poteva intravedere nella scadenza ligure, aveva spinto il lacchè amerikano di Arkore a rilanciare con ancor maggior decisione la stretta repressiva che già si era palesata a Napoli e Goteborg, affinchè il passaggio dal simbolico al concreto non si determinasse.  A Roma, il 15 febbraio, si è invece oggettivamente passati dal dato simbolico a quello reale, anche al di là, paradossalmente, di quanto sia stato effettivamente colto e dichiarato dagli stessi organizzatori della giornata.

La grande vittoria dello sciopero generale, indetto dal “sindacalismo di base” il 15 febbraio, e l’enorme corteo che in quel giorno ha attraversato Roma, hanno imposto di fatto, con la loro forza di massa, il catalizzarsi dell’eterogeneo insieme delle diverse componenti di movimento, intorno a un orizzonte prospettico infine articolato con dispiegata chiarezza lungo il crinale di un conflitto di classe, saldamente centrato dentro i rapporti di produzione e valorizzazione capitalistici, cioè, appunto, dentro l'esiziale contraddizione tra capitale e lavoro.  Insomma, il primo ma inequivocabile segnale, anche se indubbiamente in forma ancora solo larvale, dell’ineludibile scarto qualitativo dalla attivazione delle sole coscienze individuali alla ricomposizione materiale di classe:  passaggio necessario per riempire di concretezza sociale (la comunanza delle condizioni di vita, dei bisogni, degli interessi di classe) quell’agglutinazione di individui, legati dalla condivisione di una “opinione pubblica”comune, in cui sino ad ora consisteva il movimento.

Ora, però, un ulteriore salto di qualità si impone.

Dopo le “giornate di Genova” il movimento ha a più riprese affermato, in diversi imponenti “appuntamenti metropolitani”, la propria persistente capacità di mobilitazione di massa.  Ed è riuscito a materializzarsi nel corso di tali grandi scadenze mobilitative, segnando la propria presenza, il proprio riapparire sullo scenario del conflitto, soltanto e specificatamente in risposta alle urgenze politiche di volta in volta imposte dalla controparte.

In tale dinamica in qualche modo "intermittente", esso ha di fatto assunto e fatto propri i tempi della “Politica”, modellando su di essi la sinusoide dei propri primi sia pur consistenti momenti di "emersione".

Lo sciopero generale del 15 febbraio ha definitivamente sancito la necessità/possibilità per il movimento di andare oltre questi tempi, giungendo ad innervarsi nella quotidianità, nella materialità delle esistenze;  la necessità ormai improrogabile di assumere quindi come propri, non già i tempi della “Politica”, sui cui ritmi manifestarsi soltanto nelle grandi scadenze da essa surdeterminate, ma i tempi del tessuto sociale, laddove, contro la permanenza del dispotismo di classe di Lor Signori, è ormai possibile, oltre che urgente, riattivare la permanenza di una conflittualità concretamente e capillarmente radicata, al di là di episodiche emergenze, tanto esemplarmente simboliche, quanto, alla lunga, pericolosamente esposte al recupero spettacolare.  Alle emersioni improvvise e sorprendenti delle grandi manifestazioni di piazza, dovrà cioè accompagnarsi un "lavoro sottotraccia", dentro la materialità del quotidiano, laddove l'antagonismo sta ormai tornando prepotentemente ad attivarsi, rompendo la passivizzazione dello "stato presente delle cose", succeduto alla sconfitta epocale consumatasi al termine degli anni settanta, che si pretendeva ormai eternizzato.

Il ceto politico che ha saputo attraversare il deserto degli "80", deve ora sapersi fluidificare capillarmente nelle fibre di questo movimento nascente, contaminandone dall'interno, nelle sue variegate radici sociali, la potenzialità dinamica, in chiave coerentemente e radicalmente anticapitalistica.  E per agevolare tale passaggio, ora più che mai sarà essenziale un costante, dispiegato impegno di inchiesta, finalizzato ad una sempre più estesa consapevolizzazione dei soggetti sociali in termini di reale autonomia di classe.

Solo per questa via l'attuale movimento, in lenta ma costante formazione su scala planetaria, potrà realmente giungere ad autodeterminarsi come il nuovo soggetto collettivo rivoluzionario;  solo in questo modo le oceaniche e spettacolari aggregazioni in cui esso sinora s'è saputo manifestare, potranno esprimere, sedimentare e far valere "egemonicamente" la propria più profonda valenza strategica, contro il dominio globale di Monsieur le Capital.

 

1-marzo-2002

Le Redazioni di 

Vis-à-Vis

Quaderni per l'autonomia di classe

 e

Corrispondenze Metropolitane

(Roma)

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LE QUATTRO GIORNATE DI NAPOLI

     L'8 dicembre del 1999, ci ponevamo questo quesito assolutamente retorico: <<Seattle 1999: il baco o la talpa?>>.

    E subito chiarivamo che, ben al di là del gran clamore riguardo al paventato "baco di fine millennio", non già nello spazio virtuale della rete telematica ma dentro le fibre della materialità storico-sociale, l'evento di Seattle rappresentava:

<<l'ultima frontiera che separa il passato dal futuro. Impercettibile, eppure fragoroso, discrimine su cui si gioca una partita storica tra la barbarie del capitale e il riaffiorare di mille frammenti di memoria, che subito diventano carne e sangue delle ancora scomposte fibre del nuovo soggetto collettivo rivoluzionario, già da ora in via di ricomposizione, anche tramite tale primo, grande "appuntamento metropolitano". La "città di silicio", rarefatta e vuota rappresentazione high-tech dell’attuale sistema di dominio imperiale del capitale, improvvisamente è stata recuperata ai colori, ai rumori, alle pulsioni della vita, nell’annichilimento di un potere ridotto a nascondersi dietro lugubri schiere di impotenti, patetici "robocop". Seattle è così diventata il palcoscenico per le prove generali dell’avvento di quel "proletariato universale" di cui Marx seppe preconizzare la capacità di esprimere la condensazione finalmente trasparente a se stessa della miseria assoluta del presente e al contempo dell’infinita ricchezza futura che in questo si cela. Condensazione di bisogni universali concreti, immediatamente percepiti come tali, amalgama oggettivo delle innumerevoli soggettività particolari tuttora disperse e atomizzate sotto l’universale omologazione astrattizzante del capitale. [...]  Dalle putride macerie del socialismo irrealizzato e dalle arroganti megalopoli del capitalismo reale, invece dell’atteso millennium-bug riemerge inaspettata la vecchia talpa del comunismo: sta a noi saperla riconoscere e saperci riconoscere in essa. Probabilmente tornerà a scavare sotterraneamente ancora a lungo, ma è ormai chiaro che non si è estinta, il suo lento lavorio sta continuando. Sta a noi seguirne il tracciato, individuarne e anticiparne i possibili futuri punti di emersione>>.

    Oggi, nelle nuove "quattro giornate di Napoli", dopo poco più di un anno, la valenza ancora soprattutto simbolica dei "fatti di Seattle" si va ad incarnare nella materialità di un'ondata di massa che ha coinvolto la multiforme realtà sociale del tessuto proletario di una megalopoli assolutamente "paradigmatica" per le contraddizioni immani che la attraversano e che la rendono del tutto omogenea rispetto a quei brulicanti ammassi di umanoidi, rigidamente "compartimentati", in cui vanno trasformandosi tutti i grossi insediamenti "urbani" del globo, autentici gangli nodali dei nuovi assetti su scala planetaria del ciclo del valore e del comando capitalistico.

    Se, come allora affermammo, Seattle fu <<la "situazione", l’evento che disvela e introduce il nuovo millennio, [...] il materializzarsi ancora una volta del fantasma rosso che definitivamente evoca scenari di alterità radicale, oramai inscritti nell’orizzonte del possibile>>, Napoli, dopo i successivi "passaggi" di Praga, Nizza e PortoAlegre, rimarca uno scarto qualitativo verso la riemersione definitiva della "vecchia talpa" del comunismo:  il primo embrionale consolidarsi, cioè, di un movimento di lotta che giunge infine ad esprimersi nelle forme ricompositive di una soggettività collettiva non più soltanto "evocata" sul piano dei comportamenti di pur significativi segmenti di antagonismo, ma direttamente innervata nella  concretezza di una pluralità di settori sociali che, nella loro autonoma pratica-teorica di massa, anticipano quei processi di fusione diretta sul terreno del radicamento territoriale e dello scontro anticapitalistico che, riproducendosi su scala planetaria, fonderanno la futura autocostituzione in soggetto collettivo rivoluzionario del proletariato universale.

    Al di là della loro arroganza e delle loro "cortine" di mistificazione mediatica, "Lor Signori" l'hanno perfettamente capito:  il Re è Nudo, di nuovo, ed il loro sporco gioco sta venendo smascherato. E' il "gioco" di un conflitto di classe che essi non hanno mai cessato di praticare con feroce costanza, un gioco la cui posta va, per loro, ri/facendosi pesante e diverrà ben presto estrema, come estremo già è il degrado dell'"umano" e del "naturale" che oggi impongono al mondo, con sempre più efferato cinismo.  La reazione con cui questa volta hanno risposto alla denuncia coerentemente radicale del loro abominio, costituisce la prova irrefutabile della loro paura, del senso di accerchiamento da cui sono ormai assaliti; e quindi la verifica, anche, di una nostra ritrovata capacità di arrivare a spiazzarli, a "sparigliare il gioco", uscendo dalla testimonianza simbolica, sempre esposta al rischio del recupero liturgico-spettacolare, e obbligandoli invece al confronto sul terreno ben concreto del radicamento di massa, delle lotte e dell'azione diretta.

    I margini di manovra stanno drasticamente assottigliandosi e, di fronte all'insorgenza di momenti di conflitto che sempre più vanno trovando le proprie radici dentro la concretezza dei bisogni e della quotidianità violata/negata dell'immensa maggioranza dell'umanità, il capitale non può che rispondere "rispolverando" quello strumento normativo/repressivo che la forma-stato da sempre rappresenta in modo precipuo.  I giocherelli democraticistico-elettorali li lascia fare ai suoi burattini, ben pronto a surdeterminarne l'operato con plateale arroganza, quando il gioco si fa duro per lui:  l'operato delle forze di polizia contro la manifestazione di sabato non è certo una "semplice malaugurata" variabile impazzita (così come, peraltro, non lo sono stati tutti gli omicidi di stato di cui si è da sempre macchiato il cosiddetto "mantenimento dell'ordine pubblico" in tutti i paesi a "democrazia avanzata"), esso costituisce la "risposta preventiva" che il capitale scaglia in forma violentemente repressiva contro i primi segnali di una ripresa della conflittualità, sul piano concreto dello scontro di classe, e non più mediabile sul terreno "inciucistico"-spettacolare.              . 

    Le "quattro giornate di Napoli" segnano la ripresa di parola diretta di un magma sociale frammentarizzato da lunghi decenni sotto il maglio della mercificazione/precarizzazione universale, attivato da un capitale sempre più arrogante nella sua rivoluzione restaurativa;  ma proprio in questo nuovo protagonismo in presa diretta, quel magma disperso e atomizzato tende a dimostrare che, al suo interno, stanno finalmente riattivandosi processi ricompositivi a lungo annichilitisi, dopo l'epocale sconfitta del ciclo di lotte dei sessanta/settanta.  A Napoli, per la prima volta dall'"evento-Seattle", il territorio metropolitano, ormai pervasivamente sussunto nel ciclo della valorizzazione capitalistica e inquinato dai devastanti processi di una sorta di "mutazione antropologica" indotta dal pensiero unico borghese (dopo il primo segnale  positivo, di Ravenna ... che stia rimanifestandosi la ben nota "anomalia italiana"?!), ha saputo aprirsi ad un vento nuovo, ha saputo "accogliere" chi lo attraversava, testimoniando il proprio rifiuto e la propria rabbia nei confronti dei padroni del mondo e delle loro devastazioni, e riconoscerne l'internità rispetto a se stesso.  Questo è un segnale che non va sottovalutato e  che sancisce una svolta, rispetto all'esperienza di Seattle, in cui la metropoli rimase assolutamente impermeabile, di fronte alla "carovana aliena" che la attraversava.

    Le "quattro giornate di Napoli", come avevano lucidamente anticipato i compagni/e della Rete Campana No-Global, non hanno visto nessuna <<calata di Lanzichenecchi>>, se non quella delle migliaia e migliaia di mercenari in divisa che "qualcuno" ha scelto di scatenare contro un corteo composto semplicemente di donne e uomini che si ritrovavano uniti nel voler sancire il proprio desiderio di un mondo radicalmente diverso da quello che si vorrebbe imporre loro:  un mondo reale qualitativo, contro il mondo astratto A/qualitativo del capitale.  Uomini e donne  che hanno scelto di riemergere dal  silenzio, di tornare protagonisti delle proprie esistenze e di una storia che, tramite loro, ricomincia visibilmente a tessere le proprie inarrestabili trame.

    Le "quattro giornate di Napoli", al di là degli scontati latrati dei tanti sciacalli e/o cani da guardia, più o meno ammantati delle auliche vesti di "analisti sociali", "filosofi ereticali", "dispensatori di ricettari dilotta" ecc., che immancabilmente si cimenteranno nel loro compito preferito di elargire sentenze, almanaccando di "buoni" e "cattivi", di "poveri passatisti" e di "arditi innovatori", rimettono al centro di questo presente storico e rilanciano in avanti il conflitto di classe:  quel conflitto che si pretendeva dichiarare esaurito sotto l'imperversare di una colonizzazione ideologica, mirata alla revisione/rimozione della sua storia ed all'eternizzazione del presente, sotto il segno della restaurata sacralità della razionalità del profitto e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.  Nessuna scorciatoia, nessun trucchetto compromissorio, nessuna fantasmagorica "mossa del cavallo":  l'alterità, la radicalità di un rifiuto che pretenda realmente farsi "negazione della negazione", deve cimentarsi sul piano concreto e trasparente a se stesso della contraddizione di classe e individuarne, comprenderne e praticarne l'espressione più peculiare e costitutivamente fondativa dell'intero complesso sistemico sociale:  la contraddizione capitale/lavoro.  E ciò non già per ritornare a proporre vecchie, suicide mitologie lavoristiche, ma proprio per negarne la sostanza più intima:  cioè per negare alla forma-salario il ruolo di autentica, ineludibile "forca caudina" a cui sottomettersi per aver accesso al "diritto di vivere".  Il rifiuto DEL lavoro, nel suo esplicito e strategico alludere al diritto all'ozio, anzitutto implica il riconoscersi della "forza-lavoro" come "variabile indipendente" dalla logica del  profitto e dalle mortifere regole del mercato capitalistico.  Dinnanzi a tale "programma minimo", che a Napoli ha cominciato a delinearsi come comune denominatore di un primo momento mobilitativo autenticamente di massa, ben poco importa una contabilità ragionieristica dei sanpietrini lanciati (sempre comunque per difendere la propria libertà di rifiuto!):  quello che conta sono le decine di blocchi stradali e ferroviarii, di "comizi volanti", di variegati momenti di comunicazione, di festa collettiva, di azioni dirette che hanno visto diffondersi per l'immenso corpo della megalopoli partenopea il "virus" dell'insubordinazione, del sogno di un'alterità ancora possibile!

    Di  fronte alle "quattro giornate di Napoli" si dissolvono ridicolmente tutte le ciance dei tanti "grilli parlanti" impegnati a decretare la misera fine della cosiddetta (da loro!) "Grande Utopia Comunista" e della lotta di classe, che essa aveva ardito assumere come invariante della "preistoria umana":  quell'utopia che Marx seppe calare nella concretezza del farsi della storia, dopo decenni  di rimozione coatta, con la "spallata" di Napoli compie un ulteriore essenziale passo per tornare ad esprimersi nei corpi, nelle vite, nelle emozioni, nei bisogni  di  quell'immensa maggioranza di "espropriati" che il "Grande Vecchio" di Treviri aveva individuato come l'unico potenziale protagonista del suo inveramento:  il  proletariato universale. 

    Il cammino è certamente ancora lungo, ma qualcosa si sta muovendo ... lo spettro rosso sta tornando a turbare i sonni di Monsieur le Capital e la storia non è finita: i giochi sono ancora aperti così come ancora tutta da giocare è quella chance rivoluzionaria che il XX secolo ha visto arenarsi sulle secche limacciose del politicismo statolatrico della Chiesa Marxista-Leninista!  Da Napoli dovremo saper ripartire, senza arretrare di un passo!

SOLIDARIETA' CON I/LE COMPAGNI/E FERITI/E!

LE "COLPE" DEI/LLE COMPAGNI/E INQUISITI/E SONO ANCHE NOSTRE!

AI PADRONI ED AI LORO SERVI:   JATEVENNE!!! 

La redazione di Vis-à-Vis Quaderni per l'autonomia di classe

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Re: VIS-à-VIS" - COMUNICATO sull'atomica di Bush

----- Original Message -----
From: Marco Valli
To: <movimento@ecn.org>; karletto <karlettom@libero.it>;
<networkcontroG8@yahoogroups.com>; <no-ogm-ra@yahoogroups.com>;
<cerchiodig8@yahoogroups.com>
Sent: Monday, September 24, 2001 12:50 AM
Subject: Re: [movimento] "VIS-à-VIS" - COMUNICATO sull'atomica di Bush



> L'accenno del ministro della Difesa americano Rumsfeld al possibile
> utilizzo di armi atomiche *non* dovrebbe, a mio avviso, condurci alla
> catastrofica previsione di un attacco nucleare indiscriminato -recepito
> come un insensato tentativo di risolvere "alla radice" il c.d. problema
> del terrorismo internazionale- contro la popolazione afghana;

No, non ci siamo, caro Marco.  L'intento del comunicato di "Vis-à-Vis" era
evidentemente non già di commentare il mero fatto di cronaca, ma di
rilevare una
tendenza di fondo, assolutamente trasparente dal tono dell'affermazione
statunitense.  E qui il problema NON sta tanto nell'ipotesi (non comunque
peregrina) della distruzione del popolo afgano, ma nella definitiva sanzione
del "diritto" amerikano di fare ricorso al proprio arsenale nucleare come e
quando meglio crede, in base ad uno "stato di belligeranza" dichiarato
unilateralmente dagli Usa contro un qualsivoglia ipotetico "nemico", come
tale individuato a loro esclusivo e insindacabile giudizio!

> l'arma
> atomica è da molti anni diventata (nelle mostruose menti degli
> strateghi del pentagono) uno strumento di guerra come gli altri,
> altrettanto usabile ed altrettanto giustificabile.

Lo si sapeva "tutti", in certo senso era inscritto nell'ordine delle cose,
ma nessun membro dell'establishment amerikano (nè di altri paesi in possesso
di tale armamento) aveva mai sanzionato l'odierno passaggio che svincola
definitivamente l'uso dell'arma atomica dal suo imprescindibile carattere di
deterrenza (certo, anche ... "preventiva", al limite!), rispetto al
palesarsi
di un realistico rischio di aggressione su tale medesimo
livello.

> Le armi atomiche in
> questione sono state progettate con lo scopo di distruggere i centri di
> comando sotterranei: la quantità equivalente di tritolo è diverse
> decine di volte inferiore alle atomiche di Hiroshima e Nagasaki e
> l'esplosione -avvenendo sottoterra- esclude, in linea teorica, il
> rischio del fall out (ricaduta) radioattivo.

Questo è ciò che si sforzano di spiegarci personaggi alla Gen. Jean, e
raffinati
polemologhi consimili.  Sta a noi guardare al di là delle loro edulcorate e
tranquillizzanti elucubrazioni ed andare a cogliere il senso vero di tale
ormai ufficiale "sdoganamento" dell'uso dell'arma nucleare, da parte della
potenza militare smisuratamente più forte del pianeta.

> La sola idea che un'arma atomica sia usabile ed accettabile non è
> nuova, anzi.

L'"idea", se è per questo, risale sin alla stessa origine dell'"atomica".
Ma chissà come mai, in "teatro di guerra" a NESSUNO, sino ad oggi era venuto
in mente di rilasciare una dichiarazione siffatta (che lascia chiaramente
intendere di voler essere assolutamente realistica e non già soltanto di
carattere minatorio)!?  Nè ai "sovietici" in Afghanistan o ai "russi" in
Cecenia, nè ai pakistani o agli indiani nel Kashmir, nè agli amerikani in
Iraq, nè alla Nato in Yugoslavia, nè ai cinesi su Tai-wan ecc.ecc.

> Il primo possibile impiego su larga scala delle armi
> atomiche è stato pensato in relazione ad uno scenario tattico; solo più
> tardi (agl'inizii degli anni '50) con l'introduzione della bomba
> all'idrogeno -centinaia di volte più potente di quelle sganciate sul
> Giappone e prima con l'introduzione dell'arma nucleare negli arsenali
> sovietici- la 'bomba' è divenuta strumento, simbolo  e sinonimo di
> distruzione planetaria.

Lasciamo da parte la pur semplice constatazione del fatto che innescando un
"gioco al rialzo", sul piano della "potenza di fuoco", che superi sia pur
"solo unilateralmente" la fatidica soglia del "nucleare", infrangendo una
ormai consolidata mole di trattati internazionali nel merito, nulla ci
garantisce che non si inneschi una spirale incontrollabile (il ben noto
"effetto
domino") in tutta l'area circonvicina, ove "affacciano almeno altre quattro
"potenze atomiche" (ammesso che anche l'Iran non sia già annoverabile come
tale) e sono ubicate smisurate risorse di approvvigionamento ad altissimo
carattere strategico per ciascuna di esse.  Resta comunque il fatto che ciò
che noi vogliamo sottolineare è il "principio" perverso che va
oggettivamente ad instaurarsi con tale affermazione (ORMAI DEFINITIVAMENTE
CONFERMATA) del Ministro della Difesa yankee:  in nome dei suoi "valori"
(?!?)
l'Amerika è disposta ad usare tutta la sua potenza di distruzione, sia pur
contro un "nemico" affatto evanescente e che proprio per questo acquista una
valenza simbolica dirompente, dalle ricadute inimmaginabili.  In primis, già
è stato sancito che il fatto che tale "entità" venga semplicemente "intuita"
in un determinato luogo (il famigerato concetto di paese "ospitante"), rende
"legittimo" per Washington il ricorso alla rappresaglia più indiscriminata,
che inevitabilmente sarebbe provocata dal ricorso alla devastante capacità
d'impatto dell'atomica .... o vogliamo ancora credere alle favolette degli
ordigni "ad alto tasso di sapienza chirurgica"?!?!?!   Abbiamo tutti potuto
verificare quanto erano "intelligenti" quei missili che, pur essendo
enormemente meno potenti della più "piccola" delle bombe nucleari, hanno
immancabilmente massacrato popolazioni inermi  nelle ultime "guerrette a
bassa intensità" che son state condotte per motivi di "polizia" o di
"umanitarismo", o anche quali siano state le conseguenze dell'impiego di
minutissime dosi di "semplice" uranio impoverito.  Figuriamoci ora che si
dichiara una "vera guerra", con tanto di esplicito preventivato ricorso al
nucleare contro una sorta di fantasma che potrebbe trovare "ospitalità" in
circa una sessantina di nazioni (stando alle mappe del Pentagono)
disseminate per il mondo!  Questo, a nostro avviso, significa la sanzione
esplicita e definitiva del DIRITTO DI VITA O DI MORTE degli Usa nei
confronti di tutti coloro che, un domani, saranno da essi tacciati di  "NON
essere con loro"!

> Ciò che mi appare angosciante non è la tesi che
> la redazione di vis-à-vis ci sottopone (un Occidente capitalista che
> scopriamo ha inciso nelle proprie carni -come un orrendo marchio- il
> proprio destino di distruzione), ma la mia ipotesi che l'Occidente e la
> sua avanguardia statunitense siano assolutamente in grado di
> controllare il proprio devastante sviluppo, neutralizzando di volta in
> volta il pericolo delle apocalissi da loro stessi partorite, in
> un'incessante susseguirsi di quotidiane e apparentemente 'normali'
> catastrofi.

Il concetto di <<Occidente>> e quello della <<sua avanguardia statunitense>>
mi risulta invero un po' oscuro, stante che io/noi ormai da un po' si
ragiona in termini di capitale totale (se no la Russia, la Cina, il
Giappone, l'India ecc.ecc. dove li mettiamo?).  Se poi vogliamo parlare
delle crisi ormai endemiche che scuotono il dominio su scala planetaria del
capitale, è evidente (e non sono pochi coloro, fra cui noi stessi, che già,
più o meno organicamente, l'hanno richiamato su questa ml) che non
costituisce affatto una "novità" il bisogno ciclico (anche se ora esso stava
premendo ormai da un ventennio circa), da parte capitalistica, di ricorrere
all'induzione forzata di momenti di "drastico smaltimento" di enormi quote
di merci e di capitale stesso.  Il ciclo intrinsecamente
espansivo/accumulativo del modo di produzione capitalistico genera da sempre
crisi da sovraproduzione:  le distruzioni belliche son sempre state una
sorta di salutare salasso/potatura da cui Monsieur le Capital risorgeva "più
bello e più forte che pria".  Allora in che cosa consisterebbe la "novità"
dell'<<angosciante>> ipotesi da te formulata?!  Nel fatto che avresti
"scoperto"
che il capitalismo, a livello macrosistemico di "capitale collettivo" (e non
già di singoli capitalisti, giacchè il mercato è una jungla feroce, nei
momenti di crisi, e malgrado la cassa di compensazione che sempre si
richiede allo stato di garantire, da parte dei pur "ultraliberisti
imprenditori", non
riesce mai ad evitare del tutto reali ecatombi anche nelle loro fila),
avrebbe finalmente "imparato" a superare le sue inevitabili cicliche crisi,
con quello che chiami <<un incessante susseguirsi di  ... "normali"
catastrofi>>?  Ma allora, mi dispiace, ma saremmo semplicemente alla
scoperta della più classica "acqua calda".
Se poi, invece, con il concetto di <<apocalissi da loro stessi partorite>>,
intendi riferirti non già alle inevitabili, ripetute crisi del ciclo di
capitale, ma ad insorgenze eccezionali, sul tipo dei recenti accadimenti
negli Usa, allora, scusami, ma non riesco proprio a comprendere come tu
possa mai aver pensato che lo "strike amerikano" (definizione non mia, ma
che ho volentieri ripreso per l'intricante polimorfismo semantico del
vocabolo "strike") avrebbe rappresentato realmente un qualche serio pericolo
strutturale per il capitale totale!  Certo, assai probabilmente chi,
dall'interno degli Usa "aveva guardato" ma NON aveva voluto vedere, non si
immaginava uno sfracello di tale portata:   è il caso di dire che il
burattino ha strappato un tantinello i fili e s'è preso qualche libertà di
troppo. O forse, è addirittura ipotizzabile che la regia di tutta
l'operazione
sia sempre rimasta nelle mani dei "soliti noti mostri inturbantati", i quali
per la prima volta, nell'infinita storia di siffatte operazioni di alto
(?!?!?) machiavellismo, avrebbero surclassato i "servizi" yankee nel
perverso "giochetto di chi strumentalizza chi" e li avrebbero di fatto
raggirati, presentandogli alla fine un inaspettato conto davvero assai
salato.
Ma, comunque, restiamo pur sempre nell'ambito di dinamiche certamente
"compatibili", se non addirittura sfruttabili a proprio smisurato e
graditissimo vantaggio da parte del complesso sistemico del dominio del
capitale totale:  come ogni guerra che si rispetti anche questa presenta un
suo aspetto intrinsecamente favorevole a riavviare, nel medio termine, il
volano della produzione/riproduzione sociale capitalistica.  Tutto dipende
soltanto dall'"ottica di settore" in cui ci si pone.  Le grandi holding
della tecnologia
militare e del petrolio si stanno fregando certo le mani perchè  ne
usciranno spropositatamente rinvigorite, e con loro gli Usa ed il loro
ruolo di gendarme del mondo, che stava appannandosi,  a causa della marcata
recessione economica in atto da circa un anno.  Per quanto riguarda la "new
economy", se si saprà innovare, funzionalizzandosi alla locomotiva suddetta
dell'enorme, pervasivo indotto militare, ne uscirà comunque discretamente.
Di converso, sul versante della "old economy" rischia di saltare l'intero
modello introdotto dalla fine dei settanta:  il "just in time", in tempi di
generale rallentamento dei trasporti a causa delle strozzature introdotte
nei flussi, per fini di controllo, subirà traumatici contraccolpi da cui
potrebbe addirittura fuoriuscire una radicale inversione di tendenza di
stampo, magari, ... "neo-fordista"!?  Insomma, nella sua media sistemica,
Monsieur le Capital saprà "capitalizzare" gli eventi innescatisi, che,
quindi, misurati attraverso lo schema da te ipotizzato, non avrebbero
realmente alcunchè di qualitativamente innovativo, nè di più "angosciante"
di quanto sia sempre stata l'inesauribile capacità di "riciclarsi" del
suddetto (al di là del rischio di implosione ecosistemica, ormai sempre più
tragicamente aumentante, la vera, dirompente contraddizione intrinseca al
capitale e per lui potenzialmente mortale, è sempre stata e resta quella
"soggettiva", che lo vede costretto a rigenerare costantemente in sè la
propria stessa negazione: la contraddizione capitale/lavoro) .
Del tutto al contrario "Vis-à-Vis" sostiene che con l'11 settembre si è
consumato un salto di ordine epocale, che va lentamente delineando i
passaggi  tramite cui innescherà, inevitabilmente, profondissimi mutamenti
di scenario su scala planetaria.  Il primo che si evidenzia, in termini di
assoluta irrefutabilità, è appunto il definitivo autonomizzarsi del ricorso
alla guerra, rispetto alle "normali" condizioni che "prima" dovevano
realizzarsi nell'inevitabile coinvolgimento di almeno una coppia di
protagonisti reciprocamente ben definiti e riconosciuti, e soprattutto,
rispetto a quei "limiti" non sanzionati ufficialmente ma vigenti di fatto ed
universalmente tacitamente condivisi, sulla cui base il ricorso agli ordigni
nucleari  era oggettivamente "non ammesso".
Ora tutto ciò viene fatto decadere totalmente di senso:  il nemico
dell'Amerika non può essere
soggetto di interlocuzione alcuna, in quanto esso è la negazione assoluta di
tutto ciò che essa pretende di rappresentare in termini di "valori"
(cultura, civiltà, libertà, umanesimo e via "universalizzandosi":  e poi si
tenta di negare quella razzistica "valenza da crociata" che si vuole di
fatto far intendere al mondo intero, sia pur in modo "strisciante", quasi
subliminale!);  esso non è identificabile spazialmente (né ciò è più
necessario) e su questa base il
mondo intero può essere "identificato" come "suo ospitante legittimamente
aggredibile";  per tali stesse sue connotazioni, esso giustifica di fatto
l'infrangersi del "tabù atomico":  d'ora innanzi contro il male assoluto
rappresentato dall'altro da sè potrà/dovrà essere usato qualsiasi strumento
d'offesa/disinfestazione ... un po' come la Sacra Inquisizione che mandava
al rogo colui che "ospitava" in sè il demonio.  I
I fantasmi di Salem volteggiano sugli states e nel gran polverone di
Manhattan va prendendo forma un incubo orripilante.

> saluti
> Marco Valli - Disubbidiente INcivile

salut
Marco Melotti

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CENTINAIA DI MIGLIAIA DI SOGGETTIVITA' AUTONOME

IN MARCIA DA PIAZZA ESEDRA AL CIRCO MASSIMO

... POCHI E STRONZI GUITTI MERCENARI IN PIAZZA DEL POPOLO!!!

Al di là e contro un tempo proprio da "governo ladro"!

Al di là e contro le ben realistiche "dichiarazioni di guerra" dei Reparti Celere!

Al di là e contro i "ritardi" e le manfrine di ogni ceto politico!

il movimento si è oggi ritrovato, si è preso la rivincita su quella marcia Perugia-Assisi in cui non si era potuto/voluto riconoscere ... ed ha reimposto le sue regole a tutti!

    A Roma stanno marciando, fittamente, gomito a gomito, urlando tutta la propria rabbia contro il capitale totale e la sua guerra imperialistica, centinaia di migliaia di compagni/e, caratterizzati da una radicalità politica assolutamente "nuova" e inaspettatamente all'altezza della radicalizzazione dello scontro oggettivamente innescatasi in forza del pretesto delle Twin Towers

   La testa dell'immensa fiumana sta già accalcandosi nel grande bacino del Circo Massimo, mentre la coda attende ancora di partire da Piazza Esedra ... e soprattutto mentre quattro lacchè guerrafondai hanno trovato il ghetto della ... "loro S.Maria degli Angeli-Assisi", nel catino semivuoto di Piazza del Pololo, trasformatosi per l'oscena e risibile occasione, in una squallida imitazione di quelle mega-convention che l'Amerika ha creato come modello e luogo privilegiato della propria allucinante "democrazia spettacolare".

    Il movimento, come a Napoli ma più che a Genova, ha imposto l'oggettivo "scioglimento" di qualsivoglia ceto politico, di ogni esternità organizzativa precostituita, dentro la propria irresistibile capacità di egemonia collettiva.  In questa sua davvero enorme dimostrazione di forza e di volontà protagonistica, si riverbera la potenziale smisurata energia di quel proletariato universale che, su scala planetaria, sta manifestando ormai in modo sempre più pressante la propria alterità radicale rispetto a questa necrogena "società del capitale".

    Ancora una volta, pur sotto la devastante pressione della "nuova guerra umanitaria permanente" scatenata in una evidente ottica da "controrivoluzione preventiva", da parte di Monsieur le Capital, i mille rivoli del rifiuto e del conflitto hanno saputo individuare e ri/conquistare il territorio devastato/disumanizzato di una megalopoli imperialistica, come il punto più avanzato d’incontro sinergicosnodo essenziale di quei percorsi ricompositivi che soli potranno permettere la lenta futura autodeterminazione del nuovo soggetto collettivo rivoluzionario, su scala planetaria.

    Ora si tratta, per il movimento, di saper infine trasporre la forza sin qui dimostrata, in uno sforzo continuativo e pervasivo di visibilità e protagonismo, al di là e contro quelle forme della politica- politicante che fino ad oggi si è tentato di imporgli da parte di quanti, più o meno in buona o mala fede, si ostinano a ritenerlo incapace di autodecisionalità reale. 

    Le armi della critica che hanno saputo consentire a questo movimento di ri/trovarsi oggi in modo totalmente autonomo, al di là e contro tutti gli errori ed i machiavellismi opportunistici del ceto politico, che pur aveva originariamente saputo impegnarsi nell'evocarne/stimolarne l'emersione, quelle armi dovranno miratamente e permanentemente rivolgersi contro il rischio di un riattivarsi dell'alienazione della politica, sempre presente dentro l'inerziale ripristino passivizzante del principio di delega.

    Sta inoltre a tutti/e coloro che non hanno mai smesso di considerarsi agenti di contaminazione in senso sovversivo di questo mondodimmerda, impegnarsi coerentemente perchè divenga consapevolezza universalmente condivisa nel movimento, la necessità di un suo definitivo radicamento dentro quella contraddizione capitale/lavoro che sorregge e fonda l'intera complessità sistemica della colonizzazione spettacolare della vita.

 

ROMA, ore 18,15 del 10 novembre 2001

La redazione di  Vis-à-Vis Quaderni per l'autonomia di classe

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Lo sciopero generale, questo sconosciuto

    Lo sciopero generale, questo sconosciuto.  Annunciato più volte, come l'indispensabile momento di passaggio del "movimento di Genova", verso un radicamento nelle contraddizioni materiali di classe che ancora costitutivamente attraversano il dominio globale di Monsieur le Capital, sarebbe stato legittimo attendersi che tale passaggio si compisse definitivamente, allorchè la logica "astratta" dell'economia si è oscenamente concretizzata nella pratica sanguinaria della guerra.  

    Oggi, infatti, il capitale totale, ancora una volta, ci ricorda quanto tragicamente reale sia quell'astrattizzazione in cui sussume tendenzialmente ogni manifestazione dell'umano. 

    Ma quando il gioco si fa duro e acquista le fattezze di una guerra, è inutile continuare a fare giochetti di simulazione:  in guerra la controparte non tratta, spara.  Chi si scandalizzava di fronte al "tasso di militarizzazione" rappresentato dal variegato arredo urbano di cui si fece uso collettvio nelle giornate di Genova, si trova oggi a fare i conti con la dura efferatezza del ben più "variegato" arsenale autenticamente militare, messo in campo da George W. "Black Bloc" Bush & C

    La critica di questa disarmante idiozia non implica evidentemente alcuna indulgenza nei confronti dell'idiozia uguale e contraria di chi volesse mai pretendere di trovare una qualche presunta legittimazione, nell'attuale scarto in avanti della strumentazione messa in campo dall'avversario, per la riesumazione, dalla pattumiera della storia, di vecchi deliri lottarmatisti.  La nostra unica possibilità di risposta viene infatti, come sempre, dalle armi della critica che devono diventare patrimonio collettivo e concretizzarsi in una pratica autonoma e di massa, in grado di invalidare i meccanismi di astrattizzazione e autonomizzazione del politico e del suo estremo derivato: il militare

    E tale passaggio non può che articolarsi dentro la materialità di quella contraddizione di classe che costituisce l'unico punto di leva adeguato a scardinare l'altrimenti imbattibile macchina da guerra, attivata nell'attuale conflitto imperialistico.

    Se questo è vero, lo sciopero generale rappresenta un atto dovuto, anche se, in prima battuta, può risultare un'azione in certa misura simbolica.  Indicare una strada coerentemente percorribile che permetta, in prospettiva, di superare l'afasia di un sociale schiacciato sotto il tremendo ricatto della "guerra contro la barbarie terroristica", e al contempo apra contraddizioni e varchi, nell'asfissiante cappa dei "recuperatori" di ogni e qualsivoglia tipo:  è questo il compito che, in modo assolutamente trasparente, un ceto politico sedicente "disobbediente" e/o antagonistico deve sapersi assumere, nel momento in cui, come oggi, vorrebbe/dovrebbe supportare il lento processo ricompositivo di quel nuovo movimento di massa a struttura soggettiva che a Genova aveva saputo finalmente manifestarsi sul versante di un capacità mobilitativa finora mai raggiunta, ma che di fronte all'evento dell'11 settembre ha subito oggettivamente un pesante arretramento.

    E invece, tale trasparenza non è dato vedere, nei comportamenti e nell'agire quotidiani, che hanno portato alla scadenza delle giornate di mobilitazione previste in occasione del prossimo vertice del Wto, prudentemente convocato nel Qatar.

    Tant'è che alcune domande sorgono spontanee:

1 - Perchè si è provveduto a promuovere così tardivamente la mobilitazione nazionale su Roma, attendendo sino alla notte fra martedì 6 e mercoledì 7, per diffondere l'appello?

2 - Perchè l'iniziativa dello sciopero generale si è man mano andata ridimensionando, giungendo a coinvolgere solo tre "sigle" del sindacalismo di base, malgrado gli appelli reiterati e di varia provenienza sin qui lanciati?

3 - Perchè è stata disattesa la decisione, presa a Firenze, di una riunione nazionale del Network per i diritti globali, prevista per la giornata di domenica e avente finalmente per ordine del giorno quella discussione su natura ed obiettivi del Network ("Contentitore? Consulta? Progetto?" recitava un'ormai dimenticata dichiarazione d'intenti),  sino ad oggi non sufficientemente affrontata?

    Queste sono domande a cui, se fossimo maliziosi, potremmo nello stesso ordine rispondere, che:

1 - ci si è impantanati tra opposte fazioni, nell'estenuante giochetto delle alleanze e della conseguente "ripartizione" delle scadenze mobilitative;

2 - hanno pesato i veti incrociati delle componenti più "attente", nella galassia del sindacalismo di base, ai desideri di quel Prc che tanto anela a ricongiungersi con una "sinistra sindacale" alquanto suscettibile, rispetto ad uno sciopero generale che la possa scavalcare a sinistra;

3 - forse il Network, per alcuni, dovrebbe essere destinato a fungere solo da perenne minaccia virtuale, da agitare di tanto in tanto come spauracchio, per garantirsi una qualche residua visibilità, di fronte alla melassa ecumenica dei social forum, in cui pur giustamente si percepisce il rischio di un totale appiattimento delle proprie identità politiche.

    D'altronde, considerando che, a questo punto, l'infamante accusa di "dietrologia" ce la siamo senz'altro tirata addosso (almeno da qualche versante), tanto vale esprimere un altro paio di quesiti.

    Non sarà che i social forum stanno diventando una sorta di "intergruppi" (di antica, deprimente memoria), caratterizzati dalla riaffermazione inconfessata della delega, sotto la forma di quelle pervasive metastasi che sembrano diventate le figure dei "portavoce"?!   E non sarà che tale deriva era già inscritta nell'originaria vocazione da movimentismo neo-riformista, del Genoa Social Forum, che ha sempre tentato di modellare la mobilitazione di piazza in funzione di un rapporto organico/strategico con le istituzioni?! 

    Se così è, però, di fronte alla tragedia incombente di un conflitto bellico non più gestibile su scala meramente locale e già prefigurante i contorni di una tremenda stretta planetaria sul piano dell'oppressione e del disciplinamento sociale più feroci, cosa hanno a che spartire, con tali ecumenismi assolutamente disarmati e disarmanti sul piano critico e progettuale, tutti coloro che ancora si ostinano a definire il proprio sogno di un'alterità possibile, dentro l'unico orizzonte di praticabilità oggi definitivamente rimasto: il comunismo?!

 8 novembre 2001

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ALLE RADICI DELLA "CIVILTA' OCCIDENTALE" ... IL NAZISMO ?!

 

Sulla base dei Tg della sera, gli Usa hanno affermato ufficialmente (fonte Ministero Difesa), che <<non si esclude il ricorso alle armi atomiche>> ... gli Usa si sentono sotto aggressione "bellica" e sono "scesi in guerra".  Per questo rivendicano il diritto di decidere in assoluta autonomia le modalità di quella che intendono come la "propria legittima reazione".

Se confermata, questa decisione segnerebbe uno scarto di valenze incommensurabili!

LA COSIDDETTA "CIVILTA' OCCIDENTALE" MOSTREREBBE INFINE IL PROPRIO VERO VOLTO, PALESEREBBE CHE LE SUE PIU' PROFONDE E MAI RECISE RADICI AFFONDANO NELL'ORRORE ESTREMO CHE SINORA SI PRETENDEVA IPOCRITAMENTE "RELEGARE NELLA ZONA OSCURA" DEL MALE ASSOLUTO, DEL NAZISMO:  LE PIU' SOFISTICATE TECNOLOGIE E I PIU' RAFFINATI STRUMENTI DI CONTROLLO VERRANNO MESSI AL SERVIZIO DI UNA RAPPRESAGLIA INDISCRIMINATA, ASSOLUTAMENTE ASCRIVIBILE A QUELLA STESSA PERVERSA RAZIONALITA' "CALCOLANTE", ESPRESSA DAL III REICH, NELL'"OTTIMIZZAZIONE" PIANIFICATA DEL GENOCIDIO CULMINATA NELL'ABOMINIO DEI CAMPI DI STERMINIO!

TUTTO CIO' E' SEMPLICEMENTE MOSTRUOSO!!!

GLI SPIRITI ANIMALI DI MONSIEUR LE CAPITAL , CON TUTTA LA PROTERVA FEROCIA DELLA LORO DISUMANA LOGICA DI DOMINIO, DA OGGI, PONGONO VIRTUALMENTE L'INTERO GENERE UMANO NEL MIRINO DI UN ANNIENTAMENTO UNIVERSALE.

L'UNICO PERVERSO "SENSO" DI TUTTO CIO' RISIEDE NELL'ESERCIZIO DI UN POTERE ASSOLUTO E TOTALMENTE ASTRATTO DA OGNI E QUALSIVOGLIA "INTERESSE", CHE NE POSSA IN QUALCHE MODO VINCOLARE LA FOLLIA NECROGENA A PARAMETRI COMUNQUE AFFERENTI ALLA PUR LACERATA E CONTRADDITTORIA SFERA DELL'UMANO SENTIRE.

LA LOGICA DELLA MORTE ATOMICA PERTIENE E RIMANDA IN MODO ORMAI PIENAMENTE DISVELATO A QUEL CICLO DELL'ASTRATTIZZAZIONE UNIVERSALE, CHE DA SEMPRE S'INSCRIVE NEI GENI COSTITUTIVI DEL CICLO DEL VALORE.

LA GUERRA AI PARADISI FISCALI DEGLI INTRECCI ECONOMICO/FINANZIARI PIU' "INDICIBILI", CERTAMENTE INTUIBILI DIETRO UN TERRORISMO IN BUONA SOSTANZA "MADE IN CIA/USA", AVREBBE COMPORTATO DI NECESSITA' LA CHIAMATA DI CORREO NEI CONFRONTI DELLA STESSA LOGICA DEL PROFITTO CAPITALISTICO.  PER QUESTO ESSA LASCIA OVVIAMENTE IL POSTO ALLA PIU' "SEMPLICE" GUERRA CONTRO IL GENERE UMANO IN QUANTO TALE:  SI PUO' DIMEZZARE L'UMANITA', MA NON SI PUO' INTRALCIARE IL MECCANISMO ACCUMULATIVO, PRETENDENDO UN'IMPOSSIBILE SEPARAZIONE FRA UN "CAPITALE PULITO" ED UNO "SPORCO".

LA PERVERSA UTOPIA DI UNO "SVILUPPO INFINITO", IMPLICITO NEL CICLO DELL'ACCUMULAZIONE DI CAPITALE, AVREBBE IMPOSTO COSI' L'UNICA OPZIONE A SE' CONGENIALE:  DI FRONTE AL RISCHIO DI UN'IMPLOSIONE ECOSISTEMICA, I "RAMI DA TAGLIARE" NON VANNO CERTO RICERCATI DENTRO IL MODELLO DI SVILUPPO STESSO, MA IN QUELLA "ACCESSORIA" ED ORMAI "ANTIECONOMICAMENTE IPERTROFICA AREA" RAPPRESENTATA ... DAL GENERE UMANO!

TUTTO CIO' NON PUO' E NON DEVE PASSARE!!!

 

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SEATTLE, NAPOLI, GENOVA …

Verso la ricomposizione del nuovo soggetto collettivo rivoluzionario

Come evitare che il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti si trasformi nell'intermezzo spettacolare che conferma il presente stato delle cose? I trecentomila manifestanti di Genova, il milione di dimostranti che si sono riversati nelle piazze di tutta Italia due giorni dopo la conclusione del G8 sono tornati a casa, ma nulla sarà più come prima. Tutto è infatti tornato in movimento. Il movimento stesso non ha ancora concretamente attraversato le contraddizioni materiali della nostra società, ma le ha dato voce, le ha offerto un immaginario alternativo. Ha di nuovo affermato che ribellarsi non è soltanto giusto, ma anche possibile!

Affinché la ribellione da possibile diventi necessaria, il movimento deve però investire e permeare di sé i soggetti sociali che quotidianamente vivono sulla loro pelle la guerra (di bassa o alta intensità) che il capitale non ha mai cessato e continuamente rilancia: la lotta di classe. Deve divenire chiaro che la cosiddetta globalizzazione non è soltanto un fenomeno lontano, che riguarda lo sfruttamento "dei paesi poveri" e che induce una sorta di "rivolta etica" nei paesi occidentali, ma è un processo che attraversa la vita concreta di tutti quanti, per mezzo dello sfruttamento universale operato dal capitale totale. Nell’"autunno caldo" prossimo venturo, chiunque combatta per il rinnovo del suo merdosissimo contratto, per la difesa e la riqualificazione della scuola e della sanità pubbliche, per la salvaguardia della propria misera pensione, deve trovare nel "movimento di Genova" una sponda di massa capace di amplificare la propria voce e di radicalizzare i contenuti della propria lotta, superando il rischio di cortocircuitare in una sorta di spettacolarizzazione ritualizzata dell'esemplarità del comportamento di piazza, la cui pur conseguente radicalità non può ergersi a sostituto dell'indispensabile concretezza del quotidiano scontro sul terreno dei bisogni di classe.

Questo passaggio è tutt’altro che scontato e richiede uno sforzo diverso da quello fin qui profuso dal ceto politico del Genova Social Forum. Lo abbiamo già chiarito più volte, ma siamo costretti a ripeterci per non esser fraintesi su questo punto essenziale: il termine "ceto politico" non ha per noi un’accezione necessariamente negativa. Nei periodi in cui il sociale tace, sono proprio i protagonisti (pur oggettivamente "residuali") dei passati cicli di lotte, ed i loro eredi più o meno diretti, che hanno il compito di preservarne la memoria e di mantenere accesa la fiamma del conflitto e della critica radicale. Nonostante tutti i dissensi pur assai aspri che si possono e si devono rimarcare nei confronti dell’operato del Genova Social Forum, non si può però nascondere il versante anche positivo del ruolo che esso ha comunque svolto (sia pur sotto la "pressione" delle svariate componenti della cosiddetta "area antagonista", raccolte nel NetworkcontroG8, e con esso dialetticamente coordinatesi), nel contribuire oggettivamente a rilanciare ed espandere il grido di rivolta proveniente da Seattle, Davos, Praga, Nizza, Napoli, in certo senso "rappresentando" questa rabbia ancora senza volto, perché ancora dispersa nei mille rivoli delle proteste settoriali che si erano incontrate e unite momentaneamente in quelle occasioni.

Quello che si è voluto edulcoratamente etichettare come "popolo di Seattle", sinora, nelle sue diverse, successive manifestazioni, aveva espresso una valenza qualitativamente assai significativa per la sua capacità di evocare un conflitto all’altezza dei tempi, ma dal punto di vista "quantitativo", dell'effettivo radicamento di massa, la nascente lotta contro il capitale totale che con esso aveva iniziato ad affiorare, era ancora fortemente limitata.

Sì, è vero, a Napoli, come abbiamo scritto a caldo, "per la prima volta dall'"evento-Seattle", il territorio metropolitano, ormai pervasivamente sussunto nel ciclo della valorizzazione capitalistica e inquinato dai devastanti processi di una sorta di "mutazione antropologica" indotta dal pensiero unico borghese (dopo il primo segnale positivo, di Ravenna ... che stia rimanifestandosi la ben nota "anomalia italiana"?!), ha saputo aprirsi ad un vento nuovo, ha saputo "accogliere" chi lo attraversava, testimoniando il proprio rifiuto e la propria rabbia nei confronti dei padroni del mondo e delle loro devastazioni, e riconoscerne l'internità rispetto a se stesso. Questo è un segnale che non va sottovalutato e che sancisce una svolta, rispetto all'esperienza di Seattle, in cui la metropoli rimase assolutamente impermeabile, di fronte alla "carovana aliena" che la attraversava".

Ma con l’ultimo G8 s'è realizzato un deflagrante "salto quantitativo" che ha definitivamente inverato la condizione necessaria affinché si producesse un reale scarto anche dal punto di vista "qualitativo": il cosiddetto "popolo di Seattle" è diventato il "movimento di Genova", la capacità di evocare un conflitto radicale è diventata la capacità di praticare a livello di massa quello stesso conflitto.

Genova per due giorni ha costituito l’alveo ricompositivo delle mille soggettività che lì si erano date appuntamento per combattere il nemico comune. Lo spazio simbolico, solitamente appannaggio dei recuperatori politici e mediatici, è stato espugnato, invaso ed egemonizzato dalla concretezza di migliaia e migliaia di uomini e donne, dalla materialità del conflitto di classe. L'evanescente inconsistenza del flusso della comunicazione virtuale, mediata dalla "rete", s'è coagulata nella fiumana variopinta di una massa umana che s'è riappropriata di una città che si pretendeva palcoscenico blindato per l'ennesima kermesse di lor Signori

La metropoli capitalistica, quintessenza dell’atomismo e della scomposizione sociale ingenerati dalle dinamiche del capitale totale, si è trasformata nel crogiolo di un nuovo gruppo in fusione. Il soggetto collettivo rivoluzionario che potrà nascere soltanto dalle autonome dinamiche ricompositive dell’intero proletariato universale, a Genova ha cominciato a compiere realmente i suoi primi passi, a manifestarsi concretamente in una pratica di massa infine dispiegata e non più soltanto allusa, sia pur limpidamente.

La traversata del deserto sociale che dura da almeno vent’anni, dunque, sta per terminare definitivamente. E con essa la funzione di quel ceto politico il cui ruolo si giustificava solo in quel contesto. Ciò per cui esso ha lavorato in questo lungo e difficile periodo si è finalmente manifestato e, come spesso accade in questi casi, le dinamiche di movimento hanno tracimato ben oltre gli alvei per esse presupposti e predisposti. Di fronte a questa situazione, il ceto politico rischia di trasformarsi in casta politicante se non sa trovare in sé la lucidità di fare un doveroso passo indietro.

Il compito che ora ci aspetta non è infatti quello di "rappresentare politicamente" il movimento nei confronti delle istituzioni e del loro gergo politicistico, come dalle più disparate parti si auspica con più o meno sciacallesco "pompieraggio". Si rappresenta soltanto chi non vuole e/o non è in grado manifestare direttamente la propria volontà. A Genova, invece, il movimento ha ripreso la parola, autodeterminandosi senza mediazione alcuna, ed affermando con i comportamenti di piazza un incontrovertibile elemento di assoluta razionalità, ancorché, all’apparenza, di assai scarsa ragionevolezza: il rifiuto, la negazione radicale dello stato di cose presenti. E questo livello di affermazione di sé è oramai dato per acquisito, ob torto collo, dagli stessi apparati istituzionali del potere, prova ne sia il serrato scontro che si è scatenato al loro interno, fra chi progetta di spostare il vertice della Fao di Novembre, da Roma in un’imprecisata località africana, preventivando di relegare anche il prossimo G8 in una sperduta zona delle montagne canadesi, e chi mira invece a rinsaldare il "monopolio della violenza" dello stato, "rilanciando" addirittura un vertice Nato proprio a Napoli, per settembre (e, vedi caso, i "falchi", ansiosi di una rivincita spietata, sono quegli stessi che prontamente si son ammantati di "garantismo", denunciando lo scandalo di un'esecrabile "sospensione dello stato di diritto", di fronte alla mattanza del sabato notte genovese … con buona pace dei nostalgici del "governo amico"!).

Dal canto nostro, sappiamo benissimo che molti dei manifestanti di Genova non erano portatori di una consapevolezza radicale, né di una coerente progettualità. Ma l’esistenza stessa di questo movimento e la condotta di piazza di migliaia di persone, a fronte di una risposta ferocemente repressiva, dettata dalla mancanza di spazi di mediazione che connota la situazione economico-politica determinatasi a livello planetario, sono portatrici di un’alterità radicale che prima o poi non potrà che divenire profonda e diffusa consapevolezza.

Il compito che ora abbiamo di fronte è dunque quello di contribuire affinché il movimento giunga a radicarsi nella contraddizione che sussume tutte le antinomie del capitalismo: la contraddizione capitale/lavoro. Il conflitto deve giungere ad attraversare il rapporto di salario, senza farsene fagocitare, ma utilizzandolo quale indispensabile fulcro di una critica pratica che lo neghi radicalmente quale immutato fondamento costitutivo dei rapporti sociali di produzione capitalistici.

In questo senso ci pare utile la costituzione, a livello territoriale, di spazi comuni di comunicazione e coordinamento tra tutte le realtà che hanno partecipato alle giornate di Genova. Che si chiamino Social Forum o meno, la cosa ci appassiona assai poco. L’importante é che in essi si fluidifichino le ossificate divisioni tra le strutture preesistenti e che si utilizzino la visibilità e la credibilità acquisita durante il G8, per aprirsi all’esterno ed entrare in contatto con tutte le realtà che esprimono conflitto, nella condivisa finalità di giungere, senza indebite forzature e pretese di egemonia, ad una reale interazione/fusione con esse.

Siamo purtroppo convinti che questa opera di "mediazione politica" in senso lato, sia ancora necessaria. Ma essa deve essere concepita e praticata con il fine di rendere la mediazione stessa superflua, proprio tramite la fusione con i soggetti sociali che ancora non si esprimono o che, al di là di pratiche di piazza tanto rabbiose quanto effimere, restano sostanzialmente afasici sul piano progettuale.

L’unificazione di un movimento sul piano dell’immaginario collettivo, infatti, non garantisce di per sé il radicamento nella contraddizione capitale/lavoro, l’unica in grado, per la sua centralità nel processo di produzione/valorizzazione del capitale, di essere utilizzata per dare permanenza, incisività e radicalità strategica al conflitto. La forza della massa, riunita in piazza nelle scadenze centrali, rischia di divenire inefficace quando, al di là di queste, quella stessa massa si scioglie e ogni singolo torna atomo impotente nel suo territorio. Ed è qui che un capillare lavoro di inchiesta deve andare a costituire l'imprescindibile passaggio per innescare il necessario processo di autoidentificazione politica da parte delle infinite soggettività metropolitane. Quella stessa forza di massa, quindi, tramite tale sforzo di indagine su se stessa, può e deve diventare stimolo perché la contraddizione oggettivamente innervata nel processo di produzione capitalistico giunga a trasformarsi in antagonismo soggettivamente consapevole e radicalmente praticato: in autonomia di classe.

In senso direttamente opposto, invece, ci sembra andare la costituzione del neocostituito "Consiglio dei portavoce" del Genova Social Forum (fatta salva, evidentemente, l’esigenza di coordinare le azioni legali). Non basterà certo la parola "portavoce" per evitare che tale struttura si trasformi in una vera e propria organizzazione di (pretesa) rappresentanza politica. Non si capisce, d’altronde, chi abbia nominato questi portavoce e di chi sia la "voce portata". L’unica investitura che questi "consiglieri" possono esibire è, invero, quella dei rispettivi gruppi di appartenenza, preesistenti alle giornate di Genova. Gruppi che hanno senz'altro la piena legittimità di agire nel movimento, ma che non sono di certo IL movimento tout court. Come è facile capire, una simile pratica non può che portare ad una deriva in senso autoreferenziale di un sedicente gruppo dirigente, con tanto di "seminario interno", da tenersi in qualche segreto chiostro, degno delle più note parrocchie politiche, con la spudorata pretesa di decidere sul "futuro di questa struttura", vale a dire sul suo "diritto" di rappresentare tutti quelli che al seminario stesso non partecipano. Alla faccia di quella "discussione collettiva e trasparente come è nello stile di lavoro ormai consolidato" che pur si pretende rivendicare!

Volendo dare per scontata la buona fede di chi ha optato per questa strada, dobbiamo chiarire con molta franchezza quali sono, a nostro avviso, gli irrefutabili presupposti impliciti di essa: dare corpo ad una rappresentanza significa scegliere il terreno della mediazione, della "democrazia delegata", dell'istituzionalizzazione/omologazione dentro gli apparti del potere costituito. Significa rimanere nel gioco perverso della democrazia borghese, magari proponendosi illusoriamente (o supponentemente?!) come "sponda sociale" nei confronti dell’"opposizione di centro-sinistra", nel suicida presupposto che la svolta autoritaria mostrata dallo stato a Genova sia solo il frutto malato della destra fascistoide al governo e non il portato ineluttabile dei rapporti sociali di produzione a livello globale, in questa fase storica, di cui è complice, in tutto il mondo, anche la "sinistra" governativa o aspirante tale, compresa ovviamente quella italiana.

Da qui nasce la necessità di accreditarsi come interlocutori credibili e ragionevoli, dimostrando una "maturità politica" capace di resistere alle "numerose provocazioni" tese a "spostare sul terreno della violenza" la "partecipazione di massa", prediligendo le "pratiche di non-violenza e di disobbedienza civile" (di passaggio: a coloro che, nel Social Forum, hanno rivendicato la difesa di piazza nei confronti dell’aggressione poliziesca, si ricorda sommessamente che la pratica della non violenza esclude la resistenza violenta all’oppressione, mazzate comprese).

Ma c'è di più: scavando fino in fondo, emerge infatti l’assunto che sia possibile una globalizzazione "democratica e più umana", fermo restando l’orizzonte, ormai ritenuto definitivamente invalicabile, dei rapporti sociali di produzione capitalistici. L’unica via percorribile sarebbe dunque quella di riformare questa società, assunta come dato naturale imprescindibile.

Ora, che tale pulsione riformatrice si esprima in modo più o meno radicale è in realtà una questione secondaria. Il punto essenziale è un altro: in modo totalmente subalterno al pensiero unico di Monsieur le Capital (pensiero assolutamente "forte", in barba ai tanti grilli parlanti, di una "sinistra" autoflagellantesi per aver osato "pensare in grande", in un tempo ormai remoto), si profila una concezione della storia intesa come susseguirsi di piccoli eventi, in un continuum lineare e qualitativamente omogeneo, privo di grandi fratture e punti di svolta. In altri termini, si attua la rimozione forzata di ogni prospettiva storica che comprenda in sé l'"evento", la "crisi", il "punto di catastrofe", il concetto stesso di rivoluzione! La nefasta favoletta del'"esodo", se non altro, pretendeva mantenere una prospettiva di alterità possibile, sia pur ingabbiandola in una disarmante utopia di ipotetiche, pulviscolari microsocialità, transumanti fuori dal regno della mercificazione, verso un vaneggiato mondo del "valor d'uso".

Del tutto all'opposto, come abbiamo scritto riguardo a "Le quattro giornate di Napoli": ""Lor Signori" l'hanno perfettamente capito: il Re è Nudo, di nuovo, ed il loro sporco gioco sta venendo smascherato. E' il "gioco" di un conflitto di classe che essi non hanno mai cessato di praticare con feroce costanza, un gioco la cui posta va, per loro, ri/facendosi pesante e diverrà ben presto estrema, come estremo già è il degrado dell'"umano" e del "naturale" che oggi impongono al mondo, con sempre più efferato cinismo. [… A Napoli, come a Goteborg e da ultimo a Genova] l'operato delle forze di polizia […] non è certo una "semplice malaugurata" variabile impazzita (così come, peraltro, non lo sono stati tutti gli omicidi di stato di cui si è da sempre macchiato il cosiddetto "mantenimento dell'ordine pubblico" in tutti i paesi a "democrazia avanzata"): esso costituisce la "risposta preventiva" che il capitale scaglia in forma violentemente repressiva contro i primi segnali di una ripresa della conflittualità, sul piano concreto dello scontro di classe, e non più mediabile sul terreno "inciucistico"-spettacolare"

Di fronte a tale scenario che caratterizza questo inizio di millennio, qualsiasi "autonomia della politica", sia in salsa riformista che giacobina, risulta assolutamente velleitaria e oggettivamente contraddittoria, rispetto ai percorsi di ricomposizione diretta ed autonoma del nuovo soggetto collettivo rivoluzionario, di cui Genova ha espresso la prima esemplare manifestazione concreta e di massa. D'altro canto, qualsivoglia eventuale nostalgica velleità di "recupero" della delirante "opzione lottarmatista" esprime il medesimo livello di oggettiva conflittualità, rispetto a tale percorso di autodeterminazione del proletariato universale: l'autonomia del militare, come abbiamo più volte denunciato, si inscrive nella sfera alienante ed omologante della mediazione identicamente all'autonomia della politica. Entrambe mirano comunque a surdeterminare il conflitto sociale, espropriandolo della sua autonoma capacità di espressione diretta e "recuperandolo" oggettivamente ad una pratica e ad un lessico assolutamente omologhi a quelli di Monsieur le Capital, in quanto totalmente inscritti nel ciclo dell'astratto … laddove, per inciso, lor Signori sono da sempre, ed inevitabilmente, maestri insuperabili (do you remember la "geometrica potenza" dello stragismo di stato, con gli annessi reticoli perversi che hanno attraversato/lacerato tragicamente il corpo dello stesso soggetto collettivo del passato ciclo di lotte, dei sessanta/settanta?!).

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"La volontà del capitalista consiste solamente nel prendere quanto più è possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non è di parlare della sua volontà, ma di indagare la sua forza, i limiti di questa forza e il carattere di questi limitiKarl Marx

 

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Dedicato a Carlo con rabbia

 

Sotto le luci accecanti della ribalta mediatica qualcosa non ha funzionato!  Lo spettacolo ha spezzato il suo ritmo, s'è infranto il suo flusso fascinoso:  gli attori hanno strappato il copione laboriosamente allestito da folte e variegate schiere di aspiranti burattinai ed hanno preso a recitare a soggetto.  L'indistinta moltitudine che affollava la scena s'è dissolta nella riemersione di una coralità di protagonisti refrattari a qualsiasi regia preconfezionata.  La farsa di un conflitto simulato s'è dissolta di fronte alla tragedia di una morte autentica e di un autentico e non patteggiabile terrore di stato.  E il conflitto s'è fatto realtà.

    C'è ora il rischio che la lunga disabitudine alla concretezza del reale e, soprattutto, ad una interrelazione con esso non coniugata nel lessico di una asfittica, dolorosa autoreferenzialità, ci interdica la possibilità di un effettivo riconoscimento di questo decisivo scarto dimensionale.  Dopo vent'anni e più di traversata nel deserto dell'atomismo sociale, dobbiamo essere in grado, finalmente, di riconoscere oggi il farsi realtà di ciò che sinora eravamo stati sempre costretti a disvelare faticosamente, di volta in volta, come un ennesimo evanescente miraggio.

    Se Seattle, come scrivemmo a caldo, è stata <<il materializzarsi ancora una volta del fantasma rosso che definitivamente evoca scenari di alterità radicale, ormai inscritti nell'orizzonte del possibile>>, Genova sancisce il primo manifestarsi di un nuovo movimento di massa che, pur ancora aggregatosi prevalentemente sul solo piano dell'immaginario e delle coscienze, già prelude ad un ormai prossimo radicamento materiale dentro quelle ben concrete ed inamovibili contraddizioni che Monsieur le Capital non riesce più a gestire in alcun modo.

    Come a Napoli, più che a Napoli, la metropoli, spazio archetipicale dell'astrattizzazione reale del capitale totale, si è fatta luogo di concreta ricomposizione sociale.

    E' questo segnale che han saputo leggere lor Signori con Cavaliere a seguito, sia pur come semplice scudiero.

    A Genova la grande assente è riapparsa, la lotta di classe ha riattivato l'orologio della storia che si pretendeva bloccato nell'eternizzazione di questo presente di merda.

    Come ha suo malgrado compreso anche l'omuncolo di Arcore, questo movimento nega il modello stesso della "società occidentale", la sua "filosofia".  Non chiede nulla ad alcuno, dunque, e non cerca legittimazioni di sorta:  semplicemente impone la propria presenza, riprende la parola, pratica il proprio rifiuto.

    Per ora tale autodeterminazione si articola soprattutto sul piano simbolico/comportamentale, ma l'autoriconoscimento determinatosi già in questo primo passaggio restituisce visibilità piena a tutti coloro che, a livello mondiale, costituiscono quel "fastidioso inconveniente" che il G8 pretenderebbe semplicemente rimuovere, sia pur magari con una manciata di spiccioli:  l'immenso proteiforme corpo del proletariato universale, il vero convitato di pietra delle giornate genovesi!

    Ora la posta in gioco non può più attestarsi sul livello di un rivendicazionismo comunque di necessità ascrivibile ad un ambito di compatibilità di sistema, ma deve saper essere rilanciata su un piano di alterità qualitativa globale.  Non siamo noi a dirlo, ma lo impone il comportamento del nostro avversario, nel momento in cui ha infine deciso di infrangere ogni pur residua regola di quel perverso gioco in cui è riuscito ad ingabbiare sino ad oggi il proprio antagonista:  il circuito della rappresentanza democratica e della mediazione politica.  

    E' inutile e stolto gridare "vergogna" a chi ti sta fracassando le ossa a manganellate e pistolettate!  E poi, vergogna in nome di quale supposta etica?  La loro è da sempre solo quella del profitto.  Ed a Genova è iniziata la definitiva demolizione delle cosiddette "garanzie democratiche", concesse solo in forza delle lotte e del sangue proletario, riconoscimento "giuridico" dell'esistenza del proletariato stesso, ma anche autentica "foglia di fico", dietro cui ogni volta tentare la compatibilizzazione per via istituzionale del conflitto di classe.  Per mano del fido scudiero di Arcore, l'Italia sta diventando il laboratorio sperimentale della nuova forma-stato, funzionale ai rapporti di forza che vanno materialmente modificandosi su scala planetaria, a tutto svantaggio della "tranquilla" dinamica di un mercato che si voleva "supremo regolatore armonico" di un mondo finalmente omologato in suo nome, e che invece sta scatenando reattività impreviste ed irrefrenabili.  Si tratta di una fase di transizione/destabilizzazione assolutamente esiziale per il dominio capitalistico e sarebbe altrettanto esiziale per noi non saperne cogliere le intrinseche aporie, rilanciando in avanti una critica coerentemente radicale, all'altezza dell'effettivo e definitivo deterioramento di qualsivoglia "dialettica democratica" conseguente a tale "salto di qualità" del regime di disciplinamento sociale, che sta venendo sperimentato sulla nostra pelle.

    Come sempre non sta a noi assolutamente farci carico della ricerca di un ennesimo, mistificatorio "nuovo compromesso sociale":  questo è semmai un problema di lor Signori, come ben comincia ad intuire qualche illuminato "consigliori" di regime.  A noi compete lo sforzo di saper riconoscere il nuovo soggetto che avanza sulla scena della storia e di rilanciare in avanti con forza , dentro la concretezza della sua azione diretta di massa, l'opzione comunista libertaria.  Ciò, nella salda consapevolezza che il nostro stesso ruolo di rivoluzionari deve essere ogni volta riverificato nella ricerca operante di un'internità reale rispetto al terreno del conflitto sociale!

    Come abbiamo scritto appena alla vigilia delle giornate genovesi <<la virtualità non è altro che la virtù di chi oggi si accontenta di compromessi al ribasso, perché non sa guardare avanti.  Non abbiamo bisogno di mettere in scena alcuno spettacolo, fosse anche quello della rivoluzione.  Ciò di cui abbiamo necessità è molto più simile ad un lungo carnevale, nel senso originario del termine:  un agire collettivo, gioioso e drammatico al tempo stesso, in cui non c’è distinzione tra attori e spettatori, in cui è la vita stessa che mette in scena una propria forma altra più libera, in cui tutti sono coinvolti e sono obbligati ad autopercepirsi in modo rovesciato>>.

    Ebbene, in tale agire collettivo non vi sono spazi di manovra per i "professionisti" della mediazione politica.  La pratica di massa sul terreno dell'azione diretta già di per sè autodetermina i primi passaggi di un processo di riagglutinazione, che prelude alla fusione di un nuovo movimento di massa a struttura soggettiva.  I cantori di un gradualismo prudentemente programmato/concordato, come sempre in momenti siffatti, son destinati a venir spazzati via dal flusso ricompositivo dirompente del  nuovo soggetto collettivo rivoluzionario.  Questa è la tendenza reale che a Genova si è concretamente e definitivamente espressa fuori e contro gli infiniti, patetici tentativi di un suo reincanalamento/disciplinamento nelle forme di una protesta intesa ancora e sempre come mera testimonianza, tanto "ragionevole" quanto impotente.  La "ragionevolezza", in ultima istanza, tende sempre ad inchinarsi ed uniformarsi all'unica razionalità egemonica del presente, quella del potere costituito che tende a garantire la sua propria sopravvivenza.

    Da sempre l'irrompere della ribellione ha suscitato scandalo ed orrore fra tutti coloro che di tale potere erano comunque in qualche modo partecipi e complici. Guai a noi tutti se ci lasceremo trascinare nella perversa spirale di una ragionieristica smania di ricercare fantomatiche distinzioni fra i mille modi di espressione della pratica di massa di questa nuova, nascente ondata di conflittualità sociale.  Nel grande magma di essa, che sta cominciando ad erompere, dovranno sapere dialetticamente coesistere le mille e mille anime di quella volontà di lotta e cambiamento che va ricercando le proprie specifiche modalità di espressione, dopo lunghi anni di ammutolimento sotto il peso dell'epocale sconfitta dei mefitici "ottanta".

    Tutti noi dobbiamo riacquistare la capacità di interagire in una dialettica interna al movimento.  Tutti, nessuno escluso.  La pratica del black bloc - tanto per non glissare sul problema che sembra assillare i più dopo le tre giornate di Genova - è nata nel deserto dell’atomismo sociale degli anni passati e in particolare dentro quegli spazi metropolitani che di esso costituivano la più estrema materializzazione.  Questo tipo di azione diretta estremamente mobile ed incisiva, esercitata da piccoli gruppi, era funzionale a quel contesto: massimizzazione del risultato, a fronte di una condizione di ghettizzazione estrema e di forte preponderanza numerica delle forze dell’apparato repressivo.  Chi l’ha praticata non ha finora avuto il problema di interrelarsi con un movimento di massa, per il semplice fatto che non esisteva.  Ma ora non è più rinviabile la ricostruzione di un pervasivo senso di solidarietà comunitaria, dentro le fibre più profonde del nuovo soggetto collettivo che va autodeterminandosi.  A Genova, per esempio, in nome di una consolidata abitudine a selezionare attentamente gli obiettivi da colpire (banche, multinazionali ecc.), alcuni gruppi del black bloc non hanno approvato i danneggiamenti indiscriminati operati da altri spezzoni di cosiddette tute nere.  Essi hanno perciò semplicemente fatto i bagagli e se ne sono andati, in una sorta di rassegnata defezione.  Questo atteggiamento, perfettamente coerente nella logica del piccolo gruppo, non è più adeguato nel contesto di un movimento di massa in cui tutti sono responsabili del comportamento collettivo e in cui tutti devono rendere conto dei loro comportamenti alla collettività del movimento.

    Come abbiamo già sottolineato, a questa logica di solidarietà unitaria non può sottrarsi nessuno, neanche il pacifismo non violento.  Le sue pratiche non sono per noi condivisibili, ma sicuramente rispettabili e, di più, in un periodo in cui il sociale latita, possono anche avere una giustificazione operativa:  acquisire visibilità e consenso senza spingere il livello dello scontro ad un’intensità che non si può reggere.  Oggi, però, la situazione è diversa da come si è presentata negli ultimi venti anni: si sta manifestando infatti un nuovo movimento ed esso impone ai comunisti di attestarsi sul livello più alto del conflitto in corso.  Chi vuole però continuare su quella via deve poterlo fare e tutto il movimento si deve fare carico di questo diritto, cosa che a Genova sicuramente non è avvenuta, in particolare durante le azioni di alcuni (e sottolineiamo alcuni) gruppi del black bloc.  Non ci si può comunque nascondere dietro un dito, nè dietro le insulse demonizzazioni della serie "psicopatici bastardi":  le "garanzie" che su questo terreno si possono offrire a chi opta per una radicale pratica non violenta hanno dei limiti. E questi limiti sono ineluttabilmente imposti dalla violenza dello stato che, come Genova ci ha brutalmente ricordato, colpisce tutti indiscriminatamente perché tutti, in un soggetto collettivo di massa, rappresentano degli "inconvenienti" potenzialmente non riassorbibili nelle compatibilità di sistema:  a Genova, il diritto di manifestare pacificamente è stato calpestato solo dalla violenza assassina dello Stato!

    Un discorso a parte merita poi (anzi, demerita) il simil-gandhismo dell’ultima ora, condito da azioni spettacolari con tanto di scontri di piazza simulati e concordati.  Questo copione, infatti, contiene in sé un livello tale di mistificazione da non poter essere accettato in alcun modo.  Pur dando fondo a tutta la nostra tolleranza non riusciamo ad ammettere il comportamento di chi ha strombazzato ai quattro venti che si sarebbe cercato, con tutta la determinazione possibile, di violare la zona rossa, quando si sapeva perfettamente che questo obiettivo sarebbe stato praticabile soltanto con la graziosa accondiscendenza degli sbirri.

    A meno di non credere alla favole sulla neutralità dello stato, la tolleranza dell’apparato poliziesco si può ottenere solo quando non si costituisce una minaccia per l’"ordine costituito".  Se il pericolo viene percepito invece come concreto, ogni accordo preventivo è una pura illusione, nel migliore dei casi, una trappola per i gonzi, nel peggiore.  Non si tratta di irresponsabile massimalismo, ma di lucido pragmatismo:  anche chi si volesse limitare alle mere riforme, unico orizzonte politico che la miopia dei "grandi leader" di movimento riesce a concepire, dovrebbe tenere a mente l’ammonimento di Marx secondo cui esse si possono ottenere <<non con la debolezza dei forti, ma con la forza dei deboli>>.

    E questo non è tutto.  Perché non possiamo neanche accettare il fatto che gli stessi gandhiani dell’ultima ora, autonominandosi paladini e protettori dei manifestanti pacifici e non violenti, si sono arrogati il diritto di imporre, dall’alto, la loro prassi come livello massimo dello scontro.  L’unico modo per prescrivere questo limite (e si è già visto in occasione della street parade romana di un anno fa) è quello di utilizzare la forza fisica:  singolare contraddizione, invero,  per chi predica la necessità di agire pacificamente nei confronti dell’avversario!

    D’altro canto, non ci si può meravigliare più di tanto, visto che, negli anni Settanta, non pochi fra gli attuali "leader pacifici" sono andati ben al di là del livello di autodifesa autonomamente approntato dal movimento (comunque assai più "pesante" dell’equipaggiamento esibito del tanto vituperato black bloc), cercando di imporre terreni e modalità di scontro affatto estranei al soggetto collettivo di allora.  Ieri da "sinistra" oggi da "destra", gli eterni lupi della politica professionale, sebbene adesso travestiti da agnelli, sembrano proprio aver perso molto pelo, ma non il vizio di voler surdeterminare le logiche del movimento.

    E in queste logiche rientra, da sempre, l’utilizzo di strumenti di difesa presi dall’armamentario degli oggetti della vita quotidiana, del lavoro e dell’arredo urbano all’uopo divelto.  Chi parla di militarizzazione a proposito delle frange più agguerrite dei cortei di Genova, si faccia un piccolo ripasso sulla storia dei movimenti. Il vero salto mortale, l’autentico punto di non ritorno si verifica quando dalle "armi improprie" (gli oggetti e gli arredi di cui sopra) si passa alle "armi proprie", quelle che sparano. Questo passaggio fu scelleratamente tentato negli anni Settanta, quando le brigate rosse e alcuni loro emuli più movimentisti cercarono di adeguarsi alla "geometrica potenza di fuoco" degli apparati repressivi dello stato.  Oggi, tutti siamo chiamati a vigilare attentamente, affinché la stupidità del passato non ritorni con il suo perverso intreccio di convergenze/connivenze oggettive (quando non peggio!), rispetto al fetido scontro intercapitalistico, allora articolato in quella guerra fredda che per lunghi decenni ha travagliato le province di frontiera, strette fra i due blocchi imperiali:  il dominio è oramai unificato, ma non per questo al suo interno è cessato il cupo clangore di spade che da sempre soprassiede, come extrema ratio, alle dinamiche del potere.  Ma in questo compito nessuno è autorizzato a calunniare come "infiltrato" chiunque persegua comportamenti di piazza differenti dai suoi:  anche i pacifisti, in questa logica paranoica, potrebbero venir sospettati di essere infiltrati del Papa, ora che pure lui si è convertito al gandhismo, dopo duemila anni di violenza persecutoria e guerrafondaia.  

    E comunque suggeriamo sommessamente di non riservare eccessiva attenzione a oggetti simili a quelli che sono stati rinvenuti nel terribile arsenale scoperto durante le irruzioni della polizia, anche se un po' di cautela ci sentiamo di raccomandarla pure noi:  cazzo compa’, i coltellini svizzeri da campeggio se vanno negli occhi possono far male!

 

    I "dannati della terra", gli invisibili si riaffacciano sul proscenio di una storia che si pretendeva finita nell'eternizzazione di un presente da cui essi erano stati drasticamente rimossi.  I  trecentomila di Genova si sono ripresi la scena, sono tornati protagonisti reali, anche nella consapevolezza di questa immensa forza umana che ne supporta e fonda la ritrovata capacità di rifiuto radicale dell'esistente.  E le centinaia di migliaia che subito dopo hanno invaso le piazze di mezza Italia con la propria rabbia, contro un dispotismo di classe definitivamente disvelatosi in tutta la sua proterva ferocia sin dentro il cuore stesso del "privilegiato mondo del benessere", hanno di fatto rilanciato la posta, "sparigliando" finalmente la partita:  ora il "gioco" è di nuovo in mano nostra, non permettiamo all'avversario di riprenderselo.  Non concediamogli respiro, non concediamogli la chance dell'ennesima "ripulitura di facciata".  Rispediamo al mittente qualsiasi tentativo di nuovo "ragionevole patteggiamento". 

   

    La posta sul tavolo ora la dobbiamo saper imporre noi, e non può che essere estrema:  l'utopia concreta del comunismo!

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Genova 2001: dallo Spettacolo della Moltitudine al Carnevale del Proletariato Universale

Il G8 di Genova segna la fine definitiva della congiura del silenzio sulla protesta contro il capitale totale. I potenti della terra erano rimasti sorpresi a Seattle dall’inaspettato comparire di un movimento, si erano preoccupati a Napoli per il radicamento mostrato dalla contestazione. Ora incominciano ad avere paura. Si sono accorti che fuori dai loro palazzi splendenti e blindati esiste un’umanità che non si limita più a brontolare impotente sulle sue disgraziate condizioni di vita. Vecchi e nuovi padroni incominciano a temere che torni a levarsi alto un grido contro di loro: "giù la testa coglioni".

Anche i mass media, dopo aver glorificato per lunghi anni il trionfo del libero mercato mondiale, sono stati presi in contropiede a Seattle. Convinti di dover riprendere il trionfo del capitale totale, hanno invece registrato il suo primo passo falso. Ora le luci dei riflettori puntano diritti e con insistenza sulla galassia della contestazione globale. Ma le luci, si sa, possono accecare.

Lo spettacolo vuole infatti imporre le sue regole. La telecamera non è neutrale, ha una sua grammatica da rispettare. Lo schermo televisivo, lo sanno bene gli esperti del settore, appiattisce le immagini. Ma quello che non sanno, o fanno finta di non sapere questi "tecnici" dello spettacolo, è che lo schermo appiattisce anche le idee: una dichiarazione per la stampa, qualche secondo a disposizione per spiegare come e perché si vuole cambiare il mondo! Solo il tempo per un po’ di slogan, più sono banali meglio è. Così la gente capisce. Un primo piano sui "colonnelli" della protesta e un campo lungo sulle loro "truppe". E questo presunto esercito diviene sfocato e indistinto. Non può che apparire come un mero conglomerato di sigle, di associazioni e di individui: la moltitudine ha fatto il suo ingresso sulla scena. E qualcuno, più spettacolare dello spettacolo, pensa di far uscire dalla schermo questa soggetto fantasmatico, proprio così come viene rappresentato, o forse vuole soltanto farlo vivere sullo schermo per fini rivoltosi (o rivoltanti?) attraverso simulazioni di grado superiore.

Ma i potenti della terra hanno davvero paura della moltitudine? Perché si sono messi in testa di dialogare con i contestatori? Perché dicono che, in fondo, gli obiettivi del popolo di Seattle sono anche i loro? Perché insistono con pervicacia nel distinguere i buoni dai cattivi? Hanno forse paura di qualche vetrina rotta? di sprecare troppi soldi in lacrimogeni e pallottole?

Suvvia, cerchiamo di essere seri! Le vetrine rotte per il piacere dei giornalisti fanno paura soltanto ai piccoli bottegai che poi le devono riparare. Per i governi si tratta tutt’al più di un problema d’immagine perché essi sanno come governare questi fenomeni, lo fanno per mestiere: alle volte chiudono un occhio, altre volte li chiudono tutti e due, ma ai manifestanti a forza di manganellate. Se si trattasse solo di questo non ci sarebbe da essere troppo ottimisti.

I potenti della terra, in realtà, hanno paura di tutto quello che c’è dietro il palcoscenico, temono quello che la telecamera non vede. Il capitale incomincia a scorgere la ricomposizione delle membra sparse che compongono il suo altro da sé, inizia a intravedere la riaggregazione del suo nemico interno. Quel nemico che il capitale stesso non può fare a meno di riprodurre per sottometterlo realmente nella sua incessante necessità di riprodurre e accrescere se stesso, di rinnovare il processo di valorizzazione.

Le trasformazioni dell’ultimo trentennio hanno certamente introdotto divisioni e differenziazioni nel corpo del proletariato, non solo sul versante dell’immaginario e della proiezione identitaria ma anche su quello della strutturazione materiale: nelle mansioni, nel grado di "sapere" richiesto, nelle tipologie salariali, nelle garanzie giuridiche, nelle forme contrattuali. Divisioni, poi, che si sono spesso tradotte in una frantumazione spaziale e, quindi, sociale e politica. Il "luogo-fabbrica", condensazione fisica dei corpi cooperanti agglomerati dentro di esso, è stato destrutturato e depotenziato.

Ciò nonostante, l’asse portante su cui si articola il nostro mondo è sempre costituita dalla contraddizione materiale capitale/lavoro. E su questa contraddizione si fonda il conflitto che è e resta anticapitalistico. Perché, sebbene non ci sia alcuna necessità naturale che fonda la nostra "civiltà", essa, così come è oggi configurata, è il frutto della natura necessaria del capitale.

Occorre, però, saper scorgere la contraddizione nelle sue attuali articolazioni essenziali:

1) La marginalizzazione ovvero la colonizzazione/sussunzione delle esistenze/economie "altre". Su scala mondiale, l’anacronistica definizione, per intere aree del pianeta spesso trasversali ai confini statuali, di "paesi in via di sviluppo" ha perso ormai ogni senso, a fronte di una dinamica duplice e contraddittoria: da una parte il definitivo scardinamento delle economie di sussistenza precapitalistiche e il loro inserimento nella circolazione planetaria della merce, dall’altro la loro sostanziale esclusione dal circuito dell’accumulazione del capitale.

2) La precarizzazione ovvero la compatibilizzazione/flessibilizzazione dell'intera vita umana ormai ridotta a merce ... sempre più invendibile. La precarizzazione ha stravolto status e rigidità acquisite nei precedenti cicli di lotta, la flessibilizzazione ha abbattuto le tradizionali linee divisorie tra garantiti e marginali. Quello che fu "l’esercito salariale di riserva", sempre potenzialmente riassorbibile dal mercato del lavoro, è divenuto in larga parte marginalità strutturale, consolidata emarginazione dal ciclo produttivo di enormi masse proletarizzate che sospingono strutturalmente al ribasso il prezzo di mercato della forza-lavoro. Al tempo stesso, il salario sempre più spesso è ai limiti della soglia di sopravvivenza, nel senso che non copre affatto la riproduzione, fisica e sociale, del "lavoratore" (working poors), il quale deve dunque aumentare il tempo di vita da alienare da sé e vendere (aumento dell’orario di lavoro, straordinari, secondo lavoro).

3) La mercificazione ovvero l’astrattizzazione del qualitativo reale nel meramente quantitativo astratto della merce, parametrata sulla razionalità calcolante del capitale. Anche quei bisogni precedentemente sottratti (almeno parzialmente) alla logica della merce divengono variabili dipendenti del potere di acquisto dei soggetti che li esprimono. Le attività che fino a poco tempo fa rientravano ancora nella sfera della riproduzione familiare o dell’intervento pubblico vengono privatizzate. Tutte le relazioni umane si plasmano sul paradigma del rapporto di denaro: tutti gli esseri umani diventano prioritariamente venditori e compratori di merci, atomi che nella loro strutturale separatezza più che incontrarsi si scontrano tra di loro. E, in modo sommamente contraddittorio, mentre la logica puramente quantitativa della merce corrode il significato stesso della qualità, ogni singola merce (attraverso la pubblicità e la comunicazione) è costretta a cercare di divenire veicolo di senso e di valori per distinguersi da tutte le altre perché, proprio nel trionfo dell’astratto, esse diventano tra di loro tendenzialmente indifferenziate.

Vista in questi termini la contraddizione capitale/lavoro sempre più va esplicitandosi come il comune terreno di omogeneità concreta, su scala planetaria, del proletariato universale che incomincia a costituirsi come soggetto collettivo rivoluzionario. Il proletariato universale è la categoria che ci permette di scorgere le fondamenta materiali di ciò che altrimenti non può che apparire come mero aggregato di individui separati e di atomi irrelati, unificabili soltanto nella virtualità della rappresentazione spettacolare, sotto l’attenta regia dei mass media e dei professionisti della politica (una regia che, tra l’alto, rivela un singolare esempio di "divergenze parallele"). L’esistenza reale del proletariato universale, frutto delle dinamiche materiali del capitale totale su scala globale, consente di proiettarci oltre quella moltitudine che viene spacciata come espressione ultima della soggettività rivoluzionaria. E questa stessa esistenza reale rende possibile un processo di ricomposizione risultato esclusivo di quella prassi autonoma del proletariato che non ha bisogno alcuno di registi, scenografi e costumisti professionisti perché è fondata su una reale omogeneità materiale e non sugli esercizi di strategia applicati dall’esterno ad una moltitudine informe.

Tutto ciò non significa, però, ridurre meccanicamente la complessità delle forme dell’agire sociale alla sola sfera lavorativa, e le forme di rifiuto del presente a parole d’ordine di natura esclusivamente "sindacale". Significa, invece, individuare nessi e relazioni tra le contraddizioni, comprendere la pervasività delle macchina del capitale e superare le aporie che essa genera. Quelle aporie che, recentemente, proprio a Genova si sono nuovamente manifestate, vedendo contrapporsi chi reclama il diritto a vivere in un ambiente non malsano, non reso invivibile dagli scarichi delle acciaierie, e chi difende quel posto dentro l’acciaieria che, necessario alla propria sussistenza, giorno dopo giorno, consuma i polmoni.

La posta in gioco è oggi molto alta. La strada da percorrere ancora lunga prima che le membra sparse del proletariato universale si ricompongano in un soggetto collettivo rivoluzionario. Un nuovo ciclo di lotte è appena iniziato. Oggi, perciò, si tratta di scoprire, riscoprire, e sperimentare modalità concrete di interrelazione fra gli individui. Questo progetto, tuttavia, non può prescindere dal privilegiare sempre e comunque il terreno del "collettivo", dell’"autorganizzazione", del "conflitto" e del "materiale". Non bisogna cedere a facili fughe verso una "virtualizzazione" dell’agire collettivo e delle lotte che, assumendo come proprie le dinamiche e l’intima natura del "nemico", destituirebbe in origine ogni tentativo di progettazione e costruzione di un futuro diverso.

La virtualità non è altro che la virtù di chi oggi si accontenta di compromessi al ribasso perché non sa guardare avanti. Non abbiamo bisogno di mettere in scena alcuno spettacolo, fosse anche quello della rivoluzione. Ciò di cui abbiamo necessità è molto più simile ad un lungo carnevale, nel senso originario del termine: un agire collettivo, gioioso e drammatico al tempo stesso, in cui non c’è distinzione tra attori e spettatori, in cui è la vita stessa che mette in scena una propria forma altra più libera, in cui tutti sono coinvolti e sono obbligati ad autopercepirsi in modo rovesciato.

Roma 15 luglio 2001

Vis-à-Vis

Quaderni per l'autonomia di classe  

 

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Oreste Scalzone e Rifondazione comunista

----- Original Message -----
From: karletto <
karlettom@libero.it>
To: <
movimento@ecn.org>
Sent: Sunday, May 13, 2001 9:30 PM
Subject: R: [movimento] Scalzone: meglio votare Prc


Il lungo, turpe ed insopportabile esilio cui da lustri e lustri Oreste è costretto dal "nostro" stato dimmerda, evidentemente, ha appannato la sua lucidità ma, soprattutto, ha limitato enormemente la sua capacità di aggiornarsi sulle reiterate ed ormai innumerevoli malandrinate che  il Prc va compiendo, nella sua costitutiva vocazione all'intrallazzo consociativistico con l'intera cricca ulivista, a livello di municipalità, province e regioni, così come anche a  livello "centrale".  Su questo secondo proscenio istituzionale, certo, i rifondaroli cercano più attentamente di salvare la faccia, preservando ... la forma. Ciò  malgrado, però, vorrei far notare al buon Oreste le due ultimissime "chicche" elargiteci dal subcomandante Faustigno:  il raddoppio della carcerazione preventiva per reati di terrorismo (di fatto comprendenti "emergenzialmente" tutti i reati politici), come mossa preventiva a fronte del graduale rianimarsi della dialettica sociale sul patrio suolo italico (e non solo!), e l'abolizione del  libero patrocinio gratuito nei processi di lavoro (ormai garantito solo tramite i famigerati patronati dei "sindacati più rappresentativi"), come contentino alla "triplice", ma in primis alla Cgil,  onde ottenerne l'appoggio elettorale in cambio di tale boicottaggio ai danni del sindacalismo di base che, a questo punto, viene messo nell'oggettiva impossibilità di tutelare alcuno in sede processuale.  Nel primo caso il Prc ha rivendicato la giustezza della propria scelta astensionistica, in sede di approvazione della legge, tramite arzigogoli giuridico-formali tanto farraginosi quanto penosi; nel secondo la pena si fa ancora maggiore (così come l'incazzatura), davanti alla candida ammissione di tale partito (che pretenderebbe di garantirci le spalle in parlamento), di essere incorso in una "disattenzione" (SIC!) ... Come in questa lista più volte è stato affermato, già "solo" tali due cosucce dovrebbero essere bastevoli ad invalidare il senso stesso di questa mail di Oreste. In realtà il Prc non riesce a mascherare la propria arlecchinesca natura da grottesca Armata Brancaleone, sostanzialmente non dissimile dal maleodorante orticello ulivista e penosamente a rimorchio di esso!  Quell'<<obsolescenza del ruolo e del senso delle funzioni politiche>>, quella disgustosa immagine de <<"la Politica", chiusa nel suo circuito sigillato e ridotta a guerra per bande, mafiosità e avan-Spettacolo>>, contro cui inveisce qui Scalzone, sono attributi da cui il Prc non è affatto immune:  non basta andare ogni tanto in pellegrinaggio davanti alle fabbriche, nelle periferie degradate delle metropoli, nelle zone liberate degli zapatisti, per riuscire a ridare credibilità ad un partito che, dopo lunghi anni, non ha "rifondato" un bel nulla di quell'opzione comunista che pretendeva rilanciare.  Opzione che ha invece  ridotto (nella più classica delle tradizioni picciste) ad una pratica sostanzialmente istituzionalistica e mirata più alle alchimie del sottogoverno autoreferenziale ed inciucistico, che ad un reale impegno di lotta, dentro la materialità delle immani contraddizioni sociali che stanno sempre più emergendo dalle nebbie ideologiche del "pensiero-unico", della "fine della storia", dei "fasti progressivi" della libertà del mercato globale. Detto ciò (ed andava detto, anche se ormai fuori tempo massimo rispetto alla scadenza elettorale), resta poi il fatto che, quando Oreste si infervora, denunciando che <<capi e capetti, scrittori e popolo, strateghi ed al di là della Sinistra hanno cavalcato alla cieca la "rivoluzione italiana", i novismi, la stolta religione del bipolarismo, la sinistra ubriacatura di Mani pulite>>, non riesco a rimuovere uno sgradevole senso di disagio ... Ma non fu anche lui, il buon Oreste, ora scopertosi pasdaran di Faustigno, che dalle pagine dell'alternativo/patinato "Frigidaire", nell'irrompere della furia celtico/padana del "druido-sempre-dritto" Bossi, all'inizio dei novanta, cantò la gloriosa vigoria rigeneratrice di tale nuova linfa barbarica che sopraggiungeva dal più profondo Nord, a far
giustizia della fetida carcassa della corrotta Italietta centralistico-burocratica?!?! E ancora:  non fu in qualche modo coinvolto anche Oreste, fra i tanti altri ex-sessantottini che "abboccarono", a suo tempo, al rampante nuovismo "movimentistico-autonomistico" di quel Benito Craxi "malanima", che fu il vero padrino del nano di Arcore ed il primo autentico iniziatore di quella <<genesi dell'effetto-Berlusconi>> che l'appello pro-voto-rifondarolo in oggetto sembra invece attribuire solo ad una non meglio definita "telecrazia"?! Infine, last but not the least, quasi a significare una sorta di atavico vezzo/vizio mai realmente dismesso, non fu sempre Oreste, l'improvvido escogitatore del nefasto abbaglio di quell'appello alla "scheda rossa" in sede elettorale, concordato direttamente con le più alte gerarchie del vecchio Pci del "grande" Longo, che costituì il primo effettivo momento di recupero alla colonizzazione istituzional-politicistica, del '68  (e che non fu probabilmente estraneo al fatto che quel movimento di massa, nato fuori e contro le istituzioni storiche del "Movimento Operaio", dinnanzi alla tragedia di Praga, non seppe portare che una sparuta pattuglia di qualche centinaio di compagn@ a manifestare il proprio sdegno davanti all'ambasciata cecoslovacca e ancora meno davanti a quella "sovietica")?!?! Quasi sembrerebbe, quindi, che la vera radice della sgradevole "svista" riscontrabile nel senso ultimo del messaggio di Oreste (voto al  comandante Faustigno!), non sia tanto nelle infami condizioni in cui si ostina a  costringerlo uno stato ebbro di ferocia vendicativa, ma proprio nel più profondo humus cultural-politico ch'egli ha condiviso (sia pur attraverso il filtro benefico della sua propria personale specificità) con i tanti compagni che da sempre hanno ritenuto di coniugare la loro rabbia antagonista nel lessico di una politica che si voleva comunque "grande".  Cioè capace (per dirla con le parole rilasciate in un'intervista del  24 marzo 2001 al Casale Garibaldi, dal Prof. Totonno Negri, notoriamente il più insigne e coerente rappresentante di tale "cultura": cfr. <
http://www.altremappe.org/toninegri.htm>) di <<una pratica
che può comportare [... anche] riconoscimenti parziali dell'autorità dell'avversario, della forza dell'avversario>>, e del ricorso <<a quella che è la scienza del potere, la scienza della politica così come da Machiavelli in poi è stata inventata>>, nonchè <<dei necessari compromessi quando occorre>>.  Detto in soldoni:  una politica compiaciuta della propria ineffabile "malleabilità" ad opera di astuti "grandi esperti" del ramo, magari abilmente pronti a carpire l'occasione, per inebriarsi in avventurosi "attraversamenti istituzionali", verso fantomatiche "riappropriazioni dei nessi amministrativi" (?!?) (Cfr. <
http://www.tiscalinet.it/visavis>, n.8 "Dossier Karletto contra Totonno").
Comunque sia, debbo dire che ... no, non ci siamo proprio!  Al di là dell'indubitabile dato che, come più volte ammesso da svariate mail su questa lista, dentro Rifondazione si trovano non pochi compagn@  validi con i quali poter interloquire proficuamente, su un piano sia teorico che pratico, resta il fatto che tale partito partecipa a pieno titolo di quella istituzionalizzazione in apparato, separato ed autoreferenziale, che tende inerzialmente  a connotare di sè chiunque approcci il livello della "mediazione politica"  (di per sè ascritto, dalla critica marxiana, al ciclo dell'astratto), senza peritarsi di munirsi preventivamente dell'opportuna strumentazione pratico-teorica, con cui almeno tentare, con qualche pur "minima" attendibilità, di evitare il riprodursi al proprio interno delle più perverse dinamiche alienate/anti  della rappresentanza (borghese!). Non so come andrà a finire questo ennesimo, patetico "toto-elezioni", nè mi aspetto comunque grandi "cataclismi" (con buona pace del buon Talebano) ... so bene che anche  le farse possono trasformarsi in tragedia ma, almeno in questo specifico caso dello "scontro" (?!?)  nano/cicciobello, tale esito non si pone certo all'ordine del giorno; semmai la tragedia ce la sta cucinando il solito noto mostro yankee, decidendo fra l'altro di riprendere la corsa alle guerre stellari, e allestendo una remunerativa (per lui) prospettiva da "nuova guerra fredda".  Resta il fatto che se mai potrà capitare che il Prc riprenda un percorso coerente, rispetto agli intenti dichiarati nel suo stesso nome, ciò sarà dovuto non certo a quei voti che Oreste ci incita ad offrirgli ed ai paludati scranni che essi gli dovrebbero garantire, ma alla spinta che presto o tardi riesploderà dal basso, dalle viscere di un sociale che oggi tale partito contribuisce di fatto a mantenere nella passività e nell'afasia.

Salut
Marco M.

> > ----- Original Message -----
> > From: Cristal <
cristalquisonge@tin.it>
> > To: <
movimento@ecn.org>
> > Sent: Saturday, May 12, 2001 9:47 PM
> > Subject: [movimento] Scalzone: meglio votare Prc
> >
> >
www.liberazione.it
> >

> > Rifugiato a Parigi, l'ex leader del movimento studentesco non gode dei
> > diritti politici ma, se potesse, non sceglierebbe certo lo schieramento
di
> > «papisti e libertini»
> > Scalzone: «Appello per un voto, il solo possibile: a Rifondazione
> > comunista»
> >
> > Incriminato per «tentativo d'insurrezione armata» e relativi reati di
> > contorno e condannato per «delitti contro la personalità dello Stato»,
il
> > sottoscritto non ha il diritto di voto: buon argomento per sottrarsi al
> > dovere di rispondere ad interrogazioni che sempre più spesso stanno tra
l'
> > esame e l'interrogatorio dell'Inquisitore, cioè ammettono un'unica
> > riposta.
> > Domande apparenti che trasudano coazione morale e preludono a un
> > concatenamento paralogico e sofistico. Ultimo è arrivato l'appello al
voto
> > di Umberto Eco (la Repubblica, 8 maggio 2001): nessuno può sottrarsi,
> > "pena
> > esser tacciato di ignavia civile dal tribunale della storia". Toni da
> > Baskerville e Vishinskij per ingiungere di votare. Rutelli? Dunque, c'è
un
> > unico voto possibile, fuori non c'è salvezza, nevvero Professore? Chi si
> > chiama fuori, si pone fuori dei confini dell'umano? Fuori non può
esserci
> > che "barbarie", abiezione, crimine contro l'umanità? Chi non si schiera
> > esattamente come voi, esattamente con le stesse motivazioni, è dunque
> > criminale? Fuori del vostro aeropago ulivista, non ci sono che
> > sotto-uomini
> > e sotto-donne? In effetti, la sequenza di declaratorie che il Tribunale
> > Morale dell'Alta Intellighentzsja ingiunge di condividere, è la
seguente:
> > votare? Sì! Come? Utile! Perché? Al netto di tutto, contro Berlusconi &
> > Company! Per chi? Per l'Ulivo, va da sé! Non va da sé per niente che non
> > si
> > possa che votare, salvo abominio. Va ancor meno da sé, che non si possa
> > che
> > votare in un solo modo. Men che meno, va da sé che non si possa che
votare
> > per il Governo. Per una maggioranza d'Arlecchino che tiene assieme
papisti
> > e
> > libertini, tecno-scientisti e New-age, liberisti e proibizionisti,
> > sostenitori di bombardamenti umanitari soprannazionali e real-sovranisti
> > che
> > sottobanco fornicano, lucrando, con Milosevic. Il tutto allineati e
> > coperti
> > dentro le coordinate "fatali" del capitalismo reale. Si potrebbe, si
> > dovrebbe, continuare a lungo. E i loro intellettuali organici, facitori
> > dell
> > 'Opinione, pretendenti Governatori delle coscienze e Comandanti del
> >  "mentale", della regola e delle eccezioni, dell'arroganza sprezzante e
> > del
> > vittimismo che colpevolizza, in generale sono, se possibile, ancor
peggio
> > di
> > loro. Per di più non eletti, dunque non revocabili a mezzo trombatura.
> > Signori a vita, come i monarchi. Per questo le loro parole suonano
ancora
> > più stucchevoli e odiose... "Di mio" Ð o per meglio dire, "di nostro" Ð
> > tutto mi collocherebbe nel campo dell'astensione. Già che in quello del
> > non
> > voto il sottoscritto è comunque incluso, come abbiamo visto, in forza di
> > legge. Tutto concorre a definire un punto di vista, un modo di vivere
> > agire
> > pensare, radicalmente critico verso le istituzioni e la sussunzione
nelle
> > istituzioni. Perché comunista, nel senso marxiano di comunismo critico,
di
> > comunismo come movimento, della confutazione dei rapporti sociali
vigenti,
> > dell'estrazione del plusvalore cioè della vampirizzazione crescente di
> > tempo, del "tempo di nostra vita mortale". Le ragioni della massiccia
> > astensione che l'Ulivo tanto paventa sono molteplici e interrelate. E
> > purtroppo c'è del buono in queste ragioni che Umberto Eco vorrebbe
> > criminalizzare e seppellire. Non c'è chi non veda che i luoghi della
> > decisione sono altrove. Dislocati a livelli più globali (e, negli
> > interstizi, più locali); la cupidigia di potere sembra crescere in modo
> > proporzionale all'obsolescenza del ruolo e del senso delle funzioni
> > politiche; la percezione dell'inesistenza di alternative apprezzabili, e
> > il
> > disgusto per l'immagine che di sé dà "la Politica", chiusa nel suo
> > circuito
> > sigillato e ridotta a guerra per bande, mafiosità e avan-Spettacolo; il
> > gingillarsi in comparatismi tra l'uno e l'altro polo del tanto decantato
> > bipolarismo, appare futile e degradante. Molti, più di quanti noi
osassimo
> > sperare, devono aver capito che l'intercambiabilità dei contenuti degli
> > uni
> > e degli altri rispetto a quel che resta di margini di decisione sulle
> > politiche "pesanti" e la quasi indistinguibilità fra i contendenti, e la
> > corrispondente crescita della criminalizzazione e demonizzazione
personale
> > del concorrente, sono due facce della stessa medaglia, due lame dello
> > stesso
> > doppio taglio. Se non sono più previsti scontri di classe, di modelli
> > sociali, di prospettive; e nemmeno più alternative fra diverse politiche
Ð
> > politiche economiche, politiche pubbliche Ð nella gestione della
> > regolazione, neanche nel senso di "modellare diversamente la stessa
> > plastilina"; se, alla fine, nemmeno più si differenzia la carta delle
> > confezioni, perché si compete spasmodicamente sul terreno dello zelo e
> > della
> > maggiore affidabilità rispetto all'esecuzione dei programmi
> > sovradeterminati
> > dal globale... la competizione a morte deve spostarsi sulla
dimostrazione
> > dell'illegittimità, della pericolosità, dell'elevato tasso di
criminalità
> > personale del boss e dell'equipe concorrente. Evidentemente, molti
> > cominciano a non "marciare" più, a non subire più "chiamate alle armi" e
> > ricatti. Evidentemente, c'è qualcuno che comincia a pensare che il fatto
> > che
> > capi e capetti, scrittori e popolo, strateghi ed al di là della Sinistra
> > hanno cavalcato alla cieca la "rivoluzione italiana", i novismi, la
stolta
> > religione del bipolarismo, la sinistra ubriacatura di Mani pulite. E che
> > questo ha significato, anche sul piano del loro interesse, la correzione
> > di
> > un errore imperdonabile con un altro errore imperdonabile. La genesi
dell'
> > effetto-Berlusconi, insomma, sta qui, non nella "telecrazia"! Ora, con
> > quale
> > faccia gente che Ð anche sul suo terreno Ð può esibire un bilancio così,
> > si
> > presenta ad avanzar ricatti? Qualcuno voterebbe per me Rifondazione? Per
> > concludere: ribellarci dunque al ricatto in stilemi da Inquisitore del
> > Professore del Nome della rosa, è il minimo che ci pare di dover fare.
Per
> > farlo, astenersi sarebbe prendersi uno sfizio solitario e sofisticato:
> > significherebbe parlare da soli, neanche al vento. E noi non abbiamo
> > un'idea
> > anoressica dell'irriducibile indipendenza. Soprattutto se dovessero
> > perdere,
> > questi specialisti della signoria su ragioni e passioni a mezzo di
Colpa,
> > di
> > ricatto morale e vittimismo colpevolizzante che hanno animato la
compagnia
> > di giro della pièce "Ulivo o barbarie! " potrebbero sviluppare una
potenza
> > mortifera, mortificante, da produrre uno sfacelo mentale spinto verso
> > punti
> > di non-ritorno, per una durata capace di devastare più di una
generazione.
> > Specie se dovessero perdere, tenteranno il linciaggio Ð peggio, l'
> > appestamento Ð a cominciare da Bertinotti e Rossanda, Pintor e Ingrao.
> > Vorranno rovesciare l'accusa di effetto-Nader, per ridurre al silenzio,
> > alla
> > morte civile. Senza annacquare nessun vino, conviene convergere,
confluire
> > su questa battaglia, non lasciar che possano riuscire a far scendere nel
> > gorgo, muti. Per chi suona la campana, Umberto? Per antico affetto non
> > voglio pensare a "lapsus". Voglio solo metterti in guardia dal fatto che
> > dalle aberrazioni, quando si arriva a queste soglie, è facile scivolare
> > nell'abiezione. Uno che ha studiato tutta la vita l'Inquisizione non può
> > mandare
> > a dire che se votiamo Rifondazione ci manderà davanti ai tribunali della
> > storia.

 

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CRITICA DELLA RAGION SPURIA
Nel capitalismo il lavoro è sfruttato. Questa è la base dell'analisi
marxiana e negarla è negare Marx. Una polemica con i critici della teoria del valore


di RICCARDO BELLOFIORE

 

Nota introduttiva di Marco Melotti per la redazione di Vis-à-Vis:

Il primo di maggio, è comparso su "il manifesto" un articolo di Riccardo Bellofiore, assiduo collaboratore di Vis-à-Vis, che affronta di petto alcune questioni assolutamente centrali, in merito alla vexata quaestio dell'attualità della cosiddetta "critica del valore" marxiana e dell'impianto categoriale che la supporta.  Considerando l'attuale contingenza di fase, che vede all'ordine del giorno un impegnativo sforzo collettivo mirato agli sviluppi ed alla preparazione della mobilitazione di luglio a Genova contro il G8, riteniamo possa essere di qualche utilità riproporre anche in rete tale breve scritto, di lettura abbastanza agevole.  In esso ci pare vengano messi nel giusto risalto alcuni nessi fondamentali della critica del Moro di Treviri al processo di capitale.  Nessi che da troppo tempo sono stati gettati alle ortiche in un'orgia dissennata di nconfessato "pentitismo", nel nome di un presunto "salto di  paradigma" che avrebbe segnato l'avvento di una fantomatica "epoca postfordista" ... la classica "parolina magica" con cui tentar di rimuovere come d'incanto l'ostica decrittabilità di una realtà
senz'altro estremamente complessificatasi e pervicacemente riottosa a lasciar scorgere le proprie invarianti dinamiche fondative, se indagata  con una scarsa strumentazione ed una frettolosa propensione ad "innovative" scorciatoie, tanto ipocritamente consolatorie quanto magari ammantate di toni ad alto tasso lirico/spettacolare (vedasi il gran florilegio di "moltitudini", "immanenze", "comunismi in atto", "esodi", "autovalorizzazioni", ecc.ecc. che da tempo decora gli avventurosi
arzigogoli di tanto insulso sociologismo, velleitariamente ammantato di risibili aspirazioni prometeiche, dietro cui spesso traspaiono invece malcelate propensioni opportunistiche, se non addirittura "inciucistiche" ).
Si tratta di un articolo con ovvi limiti di organicità, imposti dalla necessità di rientrare nei ristretti ambiti di spazio concessi dal giornale; ed è per questo, evidentemente, che Bellofiore, privilegiando l'intento di riprendere ed evidenziare il percorso analitico di Marx, riguardante miratamente la questione del rapporto di salario, come elemento imprescindibilmente fondativo dell'intero ciclo della valorizzazione di capitale, sceglie di concludere la sua argomentazione sul limite estremo di tale nevralgica relazione, intimamente conflittuale, fra lavoro e capitale, spronando a <<riprendere, nella teoria come nella pratica, il filo di una lotta per la liberazione del lavoro e di un intervento sulla sua qualità>>.  Ad evitare indebiti e fuorvianti equivoci, teniamo a precisare, ben conoscendo da lunghi anni Riccardo e le sue radicate posizioni nel merito, che tale suo esplicito
invito conclusivo non sta assolutamente ad implicitare una qualche benché minima accondiscendenza  verso alcuna propensione "lavoristica":  forse, similmente a chi scrive, non sarà un grande estimatore della Arendt, ma l'opera di Marx l'ha certo indagata in tutta la sua organica complessità e, quando parla di "lavoro", ha ben presente la profondità semantica di tale termine, che in italiano comprende in sè le distinte, oppositive valenze di libera attività creatrice e di cogente fatica surdeterminata (Tätigkeit e Arbeit).  Il fatto è che il suo prioritario intento, in questo specifico scritto, è quello di contestare
precipuamente quella <<tesi della "fine del lavoro" e [quella] fuga da Marx>>  che, pur se da qualche tempo pudicamente stemperatesi nelle loro più laide e sbraitate enunciazioni, continuano da lunghi anni ad imperversare nel dibattito "a sinistra" (?!?).  Dinnanzi a tali spudorate, perduranti mistificazioni, l'urgenza, per Riccardo (e noi ci sentoiamo di condividere appieno tale attuale suo ordine di priorità), è quella di "tornare a Marx" ed alla sua più pregnante analisi dell'invariante dinamica di
omologazione/astrattizzazione e subordinazione/sfruttamento che sorregge e determina l'intero ciclo della produzione/riproduzione capitalistica. Questo, evidentemente (come più e più volte siamo andati ostinatamente argomentando su Vis-à-Vis), nulla toglie alla costante attenzione critica che è necessario esercitare nei confronti di qualsivoglia rischio di rinnovato "cortocircuito" in quella nefasta e metastorica ontologia del lavoro, in cui certo "marxismo" ha pascolato per lunghissimi anni.  E ciò, per mantenere saldamente orientata la "bussola" dell'opzione comunista sull'utopia
marxiana della liberazione DAL lavoro (resa concreta dalla necessità storica del capitalismo), intesa come definitivo ingresso
nella vera storia dell'umanità, al di là del preistorico regno della necessità.

Buona lettura
Marco Melotti per la redazione di Vis-à-Vis


CRITICA DELLA RAGION SPURIA
Nel capitalismo il lavoro è sfruttato. Questa è la base dell'analisi
marxiana e negarla è negare Marx. Una polemica con i critici della teoria del valore


di RICCARDO BELLOFIORE

La tesi che nell'economia capitalistica il lavoro salariato sia "sfruttato" costituisce il nodo centrale della teoria marxiana:
talmente essenziale che abbandonarlo implica approdare alla costruzione di un marxismo senza Marx. Chi propone
un'affermazione del genere ha però l'obbligo di affrontare la sfida degli attacchi a quella teoria. Attacchi sempre più efficaci, tanto che difficilmente qualcuno osa richiamarvisi al giorno d'oggi. Le ragioni delle critiche più diffuse sono presto dette. Sul terreno dei principi, non terrebbe il fondamento su cui Marx costruisce la teoria del valore, ovvero la riconduzione di quest'ultimo a nient'altro che lavoro. Sul terreno dei fatti, si sarebbero esaurite le basi materiali del discorso marxiano. Per un verso, assisteremmo ad una tendenziale "fine del lavoro", e non ad una sua sempre più pervasiva centralità. Per l'altro, sarebbe ormai scomparsa quella figura del lavoratore omogeneo perché dequalificato in cui si tradurrebbe empiricamente la nozione marxiana di "lavoro astratto". Vale la pena di partire da una rilettura delle basi categoriali della critica dell'economia politica. Il ragionamento di Marx è il seguente. Nel processo capitalistico i lavoratori salariati riproducono il valore dei mezzi di produzione impiegati (trasferendo in avanti il lavoro morto storicamente ereditato dal passato) e aggiungono un neovalore. Quest'ultimo rappresenta sul mercato in forma monetaria il lavoro "vivo" speso nel periodo corrente e oggettivato nel reddito nazionale. Il valore di tutta la forza-lavoro occupata è dato dal lavoro contenuto nella "sussistenza" merceologicamente
definita, il "lavoro necessario". Il plusvalore trova la sua origine in un pluslavoro, cioè nella differenza positiva tra l'intera giornata lavorativa sociale e la quota del lavoro vivo dedicata a produrre i beni resi disponibili ai salariati. Lo sfruttamento del lavoro in Marx è legato alle due dimensioni dell'economia capitalistica per cui essa è economia di mercato ed economia monetaria: "circuito" attivato dal capitale denaro sul mercato del lavoro, che ingloba come sua fase intermedia la produzione immediata, e che sfocia nella realizzazione del prodotto contro denaro sul mercato dei beni. Ma quello sfruttamento ha la propria genesi, il "centro", nell'intreccio tra vendita della forza-lavoro e suo impiego nella produzione, in forza della determinazione sociale che assumono il comando sul lavoro e il sistema tecnologico. Basta porre attenzione a come emerge il pluslavoro. La forza-lavoro ha un "valore di scambio" (il lavoro contenuto nei beni salario ottenuti in cambio della cessione della propria "potenza" di lavoro) e un "valore d'uso" (l'effettiva "messa al lavoro" del lavoratore). La classe dei capitalisti otterrà profitti soltanto qualora sia in grado di imporre un prolungamento del lavoro vivo oltre il lavoro necessario.
Incontriamo qui l'unicità della merce forza-lavoro, che ne fa la sola sorgente del (plus)valore. Mentre per gli altri input il loro
utilizzo e la loro interrelazione sono predeterminati dalla tecnica, nel caso degli esseri umani l'acquisto di una unità di
forza-lavoro lascia del tutto indeterminate sia la quantità di altri input da acquistare sia la quantità di prodotto da ottenere, che si accresceranno in dipendenza del "successo" dei capitalisti nell'estorcere lavoro vivo. La peculiarità della forza-lavoro sta inoltre nel fatto che la classe dei lavoratori può resistere alla "manipolazione" da parte del capitale. Per questo il capitale dà vita ad una struttura materiale e scientifica che configura un modo specificamente capitalistico di produzione dove la figura qualitativa del lavoro viene a dipendere da decisioni estranee ai soggetti: sicché le stesse caratteristiche concrete dell'attività finiscono col discendere dalla forma presa dalla valorizzazione. La visione dello sfruttamento che ne segue è chiara. Lo sfruttamento del lavoro è in realtà il suo utilizzo per fare profitti. Esso non va inteso tanto come l'appropriazione di un plusprodotto o come esaurentesi nel solo pluslavoro, cioè con una questione meramente distributiva, quanto come l'imposizione e il controllo che gravano sull'intero lavoro estorto, qualcosa che investe la natura del lavoro in quanto tale. A ciò non si accompagna affatto l'idea che il lavoro capitalistico debba tendere linearmente ad una progressiva dequalificazione, quanto che la qualità del lavoro è subordinata al comando capitalistico, il che è compatibile con ondate di dequalificazione e con momenti di riqualificazione. Il lavoro è astratto in quanto nello scambio finale la "cosa" prodotta domina i produttori: ma anche perché sul mercato del lavoro il lavoratore in carne ed ossa conta soltanto come portatore della merce forza-lavoro, e perché più fondamentalmente nel processo di valorizzazione gli stessi lavoratori divengono appendici della struttura tecnica del capitale. Il capitale, vera e propria astrazione in movimento, produce un Lavoro che fagocita i lavoratori: ma non può mai fare a meno della loro attività. Il lavoro "sfruttato" è perciò, sempre, lavoro forzato ed eterodiretto: e il nocciolo dell'antagonismo nella produzione è il controllo sul lavoro, qualificato o meno che esso sia. E' ora possibile replicare alle due critiche cui si accennava all'inizio. La prima obiezione si fonda sulla considerazione che lo scambio capitalistico, al suo livello microeconomico, si effettua a prezzi (di produzione) diversi dai valori (di scambio). Ma a parte la circostanza che il rapporto di classe è adeguatamente "fotografato" in termini di valori quale che sia la deviazione da i prezzi, il punto chiave è un altro. Se si riconosce che nella fase della subordinazione reale del lavoro al capitale il lavoro non soltanto "conta" ma "è" compiutamente lavoro "senza qualità" già quando produce, perché le qualità gli sopravvengono dall'esterno, si deve anche ammettere che tutta la ricchezza capitalistica discende da una attività che è stata resa omogenea non da una determinismo tecnologico ma da un comune processo sociale di espropriazione. Per questo il neovalore è lavoro, e lo sfruttamento è scientificamente e politicamente un "buon" argomento. E per questo il passaggio dai valori ai prezzi non può che redistribuire il neovalore oggettivato tra i capitalisti, come i contributi recenti alla "trasformazione" hanno mostrato. La seconda obiezione si richiama ad una presunta riduzione quantitativa del lavoro; ad una sua rinnovata dispersione qualitativa; all'esaurirsi di una sua vigenza come criterio normativo. Ma in Marx non soltanto lo sfruttamento non dipende da un accrescimento quantitativo del lavoro dipendente dal capitale (che peraltro è di nuovo in atto, dopo essere stato interrotto proprio nell'epoca fordista): esso non si identifica neppure con una progressiva spoliazione dei contenuti professionali (che è una sua possibile tendenza, peraltro nient'affatto superata). Che poi il dominio ideologico del lavoro sia in via di estinzione suona un po' strano quando il tempo di lavoro "esplode" e l'intera articolazione di produzione e circolazione viene "tesa" all'esigenza della valorizzazione. Piuttosto, Marx è illuminante tanto più oggi quando la dimensione lavorativa diventa perversamente totalizzante, il comando sul lavoro è delegato alle forze impersonali del mercato e della tecnologia, e il capitalismo pretende di ridurre i soggetti a mera rotella "animata" del meccanismo. In parte la tesi della "fine del lavoro" e la fuga da Marx nascono dalla sacrosanta critica al produttivismo e dall'esigenza di rompere con questa dinamica infernale. Il problema è che la centralità della roduzione è un fatto, e non bastano gli scongiuri a disperderla. Per combatterla efficacemente occorrerebbe semmai riprendere, nella teoria come nella pratica, il filo di una lotta per la liberazione del lavoro e di un intervento sulla sua qualità.
Proprio per questo, si deve dire, sembra discutibile mettere in soffitta l'unico teorico che da due secoli ci interroga su questa
questione.

Riccardo Bellofiore

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La libertà ed i soggetti: alcune e-mail inviate alla maling-list "movimento" di ECN

 

edmundo viola, "le libertà" ed "i soggetti",18 Oct 2000 15:34

Pkrainer, R: [movimento] "le libertà" ed "i soggetti", 18 Oct 2000 19:44

karletto, Qualche osservazione su svariate risposte..., 19 Oct 2000 04:34

karletto, militanza, militantismo, militontismo, militare, militarismo ....., 28 Oct 2000 3:17 PM

karletto, R: [movimento] militanza, militantismo, militontismo, militare, militarismo ....., 30 Oct, 2000 5:34 PM

karletto, 1 R : [movimento] gentile Marco e voi karletti tutti PRIMA PARTE, 31, Oct 2000 6:47 PM

karletto, 2 R: [movimento] gentile Marco e Karletti tutti SECONDA PARTE, 31, Oct 2000 6:47 PM

karletto, R: [movimento] Video Palestina, 09, Nove 2000 5:37 AM

karletto, R: Karletto un po' giu' di forma 1^ PARTE, 11, Nov 2000 6:06 AM

karletto, R: Karletto un po' giu' di forma 2^ PARTE 11, Nov 2000 6:08 AM

karletto, R: Karletto un po' giu' di forma 2^ PARTE, 14, Nov 2000 3:39 AM

karletto, R: [movimento] anarchia realizzata, 20, Nov 2000 2:53 AM

karletto, R: [movimento] Dal diritto di morire alla morte del diritto, 20, Nov 2000 5:35 AM

karletto, R: [movimento] anarchia realizzata, 20, Nov2000 4:22 PM

karletto, R: [movimento] tagliatevi i capelli e andate ad okkupare, 18, Nov 2000 4:19 AM

karletto, Re: [movimento] La verità ti fa male, lo so..., 07,Dec 2000 3:28 AM

karletto, A proposito di antielettoralismo e antifascismo, 16 Jan, 2001 3:35 AM

karletto, Ancora a proposito di antielettoralismo, antifascismo ... e anticapitalismo, 18, Jan 2001 8:00 PM

karletto, A proposito di Casse di resistenza e Ravenna e dintorni ..., 22, Jan 2001 3:49 PM

karletto, Risposta ad "una proposta che non si può rifiutare" , 28,Gen 2001 5:11 AM

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"Dossier Karletto contra Totonno"

 

Marco Melotti PER UNA RESA DEI CONTI A PIÙ VOCI

Franco Barchiesi Redazione di “Vis-à-Vis” CORRISPONDENZA

Centro di Documentazione per la Critica della Politica e il Soggetto Collettivo Collettivo Politico Antagonista Universitario CONSIDERAZIONI FRA IL SERIO E IL FACETO, SULLA STREET-PARADE E DINTORNI

Assemblea cittadina per l’autonomia di classe (Genova), Centro di Comunicazione Antagonista (Cremona), Centro di Documentazione Antagonista Francesco Lorusso (Bologna), Centro di Documentazione per la Critica della Politica e il Soggetto Collettivo (Roma), Collettivo Autonomo Malcolm X (Roma), Collettivo Autonomo Studentesco (Roma), Collettivo Politico Antagonista Universitario (Roma), Comitato Antagonista (Viterbo), Comitato di Lotta del Quadraro (Roma), Comitato Senza Frontiere (Bologna), C.S.A. Dordoni (Cremona), C.S.A. Murazzi (Torino), C.S.O.A. Askatasuna (Torino), Infoshop “Senza pazienza” (Torino), Redazione di “Deragliamenti”, Redazione di “Per l’autonomia di classe”, Redazione nazionale di “Vis-à-Vis”, Assemblea nazionale per l’autonomia di classe DISEGNIAMO IL NOSTRO FUTURO CON I COLORI DELLA NOSTRA MEMORIA. RISPOSTA AL CORTO CIRCUITO

Anton Monti/(Toni Negri?) UN QUARTO E IL CONTO. (LA RISPOSTA AL CORTO)

Karletto@ AVVISO AI “NAVIGANTI” A MO’ DI PREMESSA

Centro di Documentazione per la Critica della Politica e il Soggetto Collettivo Redazione di “Vis-à-Vis” N’ARTRO LITROZZO, SENZA PRESCIA: CHÉ LA GATTA PRESCIOLOSA FÀ LI MICI CIECHI! A PROPOSITO DI MESSER TOTONNO NEGROMANTE DELLA CORTE DEI CORTOCIRCUITATI

Raffaele Sbardella LA NEP DI “CLASSE OPERAIA”

 

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Due interventi di Riccardo Bellofiore

Proponiamo qui due interventi del nostro collaboratore ed amico Riccardo Bellofiore. Il primo, una breve ma densa risposta a Pierluigi Sullo, è già presente in rete sul sito http://www.urla.com/consapevolezza/archivio/cantierepescara1.html, ove compare insieme ad altri contributi inerenti al dibattito preparatorio del Convegno di Pescara, "Cantiere New-Economy / Nuovi diritti", su salario sociale e/o reddito di cittadinanza. Il secondo, invece, è una lettera a Paolo Andruccioli, pubblicata sul "Manifesto" del 16 febbraio 2001

 

Cari compagni,

ho letto con un certo interesse, misto a stupore, l'articolo di Pierluigi Sullo, "Una Davos anche in Italia" (il manifesto, 21/1/2001). L’interesse è dovuto alla stima per Sullo e all’obiettiva rilevanza della questione che quell’articolo richiama, quella di aprire un confronto tra le diverse sinistre antiliberiste su come combattere la nuova forma del capitalismo nell’era della ‘globalizzazione’. Lo stupore discende invece da alcune affermazioni contenute nell’articolo che a me paiono affrettate o infondate, e che però danno sostanza a un filo di ragionamento che a me sembra tutto meno che convincente, e che forse conduce da tutt’altra parte rispetto a dove si dice di voler andare. Per ragioni di spazio, oltre che di chiarezza, mi limito a commentare tre snodi del discorso di Sullo.

 

1 Primo snodo: crescita e occupazione. Sullo scrive: "in epoca di finanziarizzazione dell’economia, la crescita economica non produce lavoro. O, al più, ne produce di ‘flessibile’". Dovrebbe essere evidente a tutti che tra le due frasi c’è opposizione, e a prima vista contraddizione. Prendiamole allora separatamente. La prima affermazione è destituita di fondamento. Se si paragona la capacità di assorbire lavoratori della crescita ‘fordista’ (diciamo, gli anni sessanta e primi settanta) e quella della fase successiva che è ormai invalso definire ‘postfordista’ (diciamo, dalla prima crisi petrolifera in poi) è noto che il saggio di crescita del reddito nazionale al quale, nelle economie avanzate, si inizia a creare lavoro si è fortemente ridotto. Ciò ovviamente non contrasta affatto con la circostanza che in una sezione rilevante di queste economie - e in particolare nel settore manifatturiero aperto alla competizione internazionale, ma non solo - si siano realizzati innalzamenti consistenti nella forza produttiva del lavoro; e neanche con la tesi che le nuove innovazioni sono in più di un caso portatrici in potenza, una volta diffuse, di una generalizzazione dei guadagni di produttività. Ma chiarisce che, allo stato, la dinamica della produttività nel ‘postfordismo’ è rallentata, e in alcuni casi si è addirittura invertita (Sullo non ha da credermi sulla parola: si legga alcuni articoli recenti pubblicati sul manifesto da Marco d’Eramo sulla new economy). E suggerisce pure una sana dose di scetticismo rispetto all’idea che l’andamento naturale del cosiddetto neoliberismo sia in grado di costituire un nuovo modo di regolazione senza innovazioni istituzionali e senza nuove forme di interventismo, di cui si stanno facendo le prove. Quel che è sicuro è che la disoccupazione di massa - dove è ricomparsa, e in questa forma dell’accumulazione - non è dovuta affatto ad una mitica dissociazione tra crescita e ‘produzione’ di lavoro, semmai, spesso e volentieri, proprio alla riduzione della crescita effettiva.

La seconda frase citata, quella dove si dice che la crescita attuale produce sì lavoro, ma che quest’ultimo ha natura ‘flessibile’, è invece senz’altro corretta, anche se, si deve dire, sfonda una porta aperta. Dopo la sconfitta degli anni ottanta, in presenza di una crescita bassa e instabile, con politiche economiche attivamente contro il mondo del lavoro, l’occupazione si è fatta precaria, quale che sia il livello di qualificazione, e il potere di comando del capitale nei luoghi di lavoro è tornato indiscusso, dando luogo ad una flessibilità significativa della prestazione lavorativa. C’è chi lo trova strano? O vi vede un nuovo, inedito, enigma della storia? E perché mai? E’ chiaro, peraltro, che l’ordine delle due frasi che ho citato non è per nulla casuale, sul piano dell’interpretazione del cosiddetto neoliberismo e sul come rispondergli. Se ne può infatti dedurre che, limitatamente alla sfera capitalistica della realtà sociale - che in Sullo, si faccia caso, diviene sbrigativamente l’ ‘economia’ tout court - il problema non è tanto quello della qualità dello sviluppo e quindi dell’occupazione, ma quello della quantità del lavoro che manca, in un sistema dove lo sviluppo non fa problema. Le cose, per mio conto, stanno all’opposto: non c’è soluzione alla crisi del lavoro che non passi da una rimessa in discussione del quadro strutturale della crescita nella sfera capitalistica in quanto tale.

 

2 Qui viene a fagiolo il secondo snodo: sinistra liberale e keynesismo. Sullo scrive: "le sinistre ‘liberali’, e le confederazioni sindacali, almeno in Italia, continuano a (fingere di) credere nell’antica regola keynesiana per cui a ‘investimenti produttivi’ debba corrispondere un aumento dell’occupazione, per di più stabile"; mentre "tutti sappiamo" che così non è (più). Sullo deve essere più informato di quanto non sia io, in quanto a me risulta che in qualsiasi (sottolineo: qualsiasi) sinistra nostrana, di governo o di opposizione, nella sua dirigenza viga ciecamente la medesima convinzione espressa in queste righe. E che però mi risulta letteralmente incomprensibile. Forse ho letto male Keynes. In gioventù, m’era parso di capire che la tesi keynesiana fosse che contare su un aumento degli investimenti privati per risolvere il problema della disoccupazione di massa fosse un’illusione: per un verso, difficilmente le convenienze di mercato avrebbero dato vita a investimenti ‘autonomi’ adeguati a produrre il pieno impiego; per l’altro verso, l’efficacia di una politica monetaria espansiva, e quindi di bassi tassi d’interesse che fungessero da stimolo alla domanda di nuovi beni capitali, era molto incerta, e quindi il rimedio andava cercato altrove. Questo altrove non poteva essere l’aumento delle esportazioni nette, alla cui caccia si sono volti nel capitalismo ‘postfordista’ i capitalismi europeo e giapponese, perché già l’obsoleto Keynes negli anni trenta sapeva che in un mondo globale questo è un gioco a somma zero. Doveva trattarsi, allora, di quella sorta di esportazioni ‘interne’ che è costituita dalla spesa pubblica, eventualmente (ma non necessariamente) in disavanzo. Benché nel breve termine qualsiasi spesa andasse bene (rispetto al problema oggetto dell’attenzione di Keynes, cioè l’elevata disoccupazione per l’insufficienza della domanda effettiva), nel lungo termine il problema della debolezza degli investimenti privati era talmente grave che la soluzione non poteva non consistere in una significativa e crescente ‘socializzazione dell’investimento’.

Su questa base teorica, che devo evidentemente aggiornare dopo l’articolo di Sullo, di aumento degli investimenti privati per aumentare l’occupazione non se ne parlava proprio, se non come investimenti trainati da una crescita che nasceva altrove e in grazia di un mutato, favorevole clima delle aspettative. Tra parentesi: l’esperienza recente, negli Stati Uniti - con un crescente disavanzo di parte corrente (e quindi con un crescente debito verso l’estero), che ha sostenuto l’economia mondiale evitandole di sprofondare nella stagnazione; e con un’espansione record dei consumi delle famiglie americane (fortemente indebitate verso l’interno), che è stata favorita dai caratteri nuovi dell’economia della borsa e della politica della Federal Reserve - invece di buttare nel cestino sembra aggiornare e confermare questo schema, e fare da sfondo alla ristrutturazione dell’economia reale di quel paese e al conflitto tra capitalismi degli anni novanta. Quanto detto chiarisce anche come sia troppo facile e sbrigativa la critica consueta che si fa a Keynes secondo cui la politica della spesa da lui favorita sarebbe consistita in un aumento della domanda ‘generica’, perché il Keynes autentico è assolutamente compatibile con il governo politico di una domanda qualificata sul terreno dei valori d’uso, e che quindi potrebbe non tradursi necessariamente in una accelerata produzione esclusivamente mercantile, o necessariamente in un allargamento della capacità produttiva (il che, sia chiaro, non vuol dire che la produzione industriale o assimilabile sia di per sé un ‘male’). A chi si scandalizzasse di questo richiamo al ‘borghese’ Keynes, mi permetterei di segnalare che una lettura attenta della marxista Rosa Luxemburg rivela che, a parte il discutibile crollismo della rivoluzionaria polacca, il nocciolo analitico sul rapporto domanda-accumulazione è molto simile. E che il più radicale ciclo di contestazione ‘dal basso’ dell’ordine capitalistico che si è storicamente registrato nasce, appunto, dalle politiche keynesiane, per quanto ‘bastarde’ esse siano state.

Se passiamo alla seconda parte della tesi di Sullo, la critica del nesso investimenti-occupazione, siamo di nuovo ad una affermazione (almeno parzialmente) vera, e però ovvia. Keynes sarebbe il primo ad ammettere che, in un capitalismo dove vige elasticità e instabilità sempre più marcata di salario e produttività, non soltanto la tendenza alla stagnazione da domanda è intrinseca e ineliminabile (se siamo in un autentico capitalismo di laisser faire, il che oggi non è, se mai lo è stato), ma anche gli eventuali incrementi di domanda autonoma che eventualmente e miracolosamente si producessero (e nel capitalismo degli anni novanta si sono prodotti per l’azione di mani non tanto invisibili) si trasmetterebbero in modo sempre più variabile e attutito alla produzione, e quindi all’occupazione, almeno dove la forza produttiva e l’intensità del lavoro crescono insieme. Questo evidentemente non significa che l’ ‘epoca keynesiana’, per come l’abbiamo sperimentata negli anni sessanta, non sia finita, e per sempre: una crisi che è anche, se non soprattutto, stata determinata ‘da sinistra’, dalla messa in questione del comando capitalistico nei luoghi di lavoro e dalla inadeguatezza della struttura della produzione che governi e imprese avevano finito con il determinare. Anzi, lo conferma. Significa però che rimane vero il punto di Keynes, che l’economia capitalistica di mercato necessita di un governo politico per non scivolare nella crisi da domanda; come rimane vero il punto di Marx, che soltanto una contestazione che finisca con l’investire il processo di valorizzazione del capitale è in grado di vincolare e spingere quel governo politico verso esiti non immediatamente ‘compatibili’, e magari di aprire la strada al trascendimento della realtà sociale presente, e per tutti.

E’ chiaro che il primo punto equivale ad ammettere che nel mercato capitalistico si origina un ‘fallimento’ che il mercato stesso, di per sé, non è in grado di sanare (che è quanto la sinistra ‘liberale’ perde); come è chiaro che il secondo punto afferma che il rapporto sociale di produzione nella sfera capitalistica è ‘centrale’ per ogni politica di trasformazione, riformista (se ve ne sono i margini) prima ancora che rivoluzionaria, e quindi rivoluzionaria anche solo per essere riformista (che è quanto la sinistra ‘socialdemocratica’ non sa). L’una e l’altra lezione svaniscono nella prospettiva adottata da Sullo. Inoltre, vale la pena di aggiungere che la verità parziale del ragionamento di Sullo sulla questione investimenti-occupazione non comporta di per sé, dal punto di vista teorico, una inefficacia della manovra della domanda sull’occupazione. Se vigono le condizioni permissive dal lato dell’offerta, basta che la domanda aggregata aumenti a sufficienza e/o che si intervenga adeguatamente sulla composizione strutturale della medesima, al fine di massimizzare insieme, da un lato, gli aumenti (come si è detto) spesso oggi soltanto potenziali nella forza produttiva del lavoro (il che qualcosa con la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario o salario crescente dovrà pur avere a che vedere) e, dall’altro lato, la difesa e l’incremento dell’occupazione (all’interno, evidentemente, di un suo miglioramento qualitativo e di un suo governo, appunto, politico).

Mi sbaglierò, ma a me sembra che Sullo ci stia in realtà dicendo: la sfera capitalistica è ormai esente da crisi interne, che queste siano ‘oggettive’ o ‘sociali’ poco importa; il capitalismo, pardon l’ ‘economia’, è un mondo autoreferenziale perfettamente funzionante, il cui unico (ma drammatico) problema è la devastazione sociale che induce, e a questa occorre porre argine. Anche in questo caso, opporrei l’argomento che la speranza di uscire da questa totalità capitalistica disperante semplicemente aggirandola, senza investire i terreni ‘classici’ della politica economica e del conflitto di classe, non porta da nessuna parte. A meno di pensare che questo sistema capitalistico, per la sua intrinseca dinamicità, sia in grado di tollerare massicce redistribuzioni del reddito e della ricchezza senza che qualcuno glielo imponga ‘da dentro’, e senza che ciò determini reazioni distruttive in assenza di alternative. Oppure, scivolando ancora di più nel mondo dei sogni, siamo convinti che esso non aspetti altro che di morire di eutanasia? Chi vi ha creduto, come Claudio Napoleoni nei primi anni ottanta, già qualche anno dopo, con più consequenzialità dei suoi tardi epigoni, ha dovuto ricredersi amaramente. In ogni caso, per favore, lascerei perdere la definizione di sinistra ‘antiliberista’ per una posizione del genere: se il capitalismo liberale di cui ci parla Sullo esiste, davvero non si vede perché uscirne. Basta riappropriarsi di un po’ della ricchezza che essa spontaneamente produce, e dargli dall’esterno quel di più di ‘anima’ che gli manca.

 

3 E siamo così al terzo snodo: le ricette per rispondere alla disoccupazione strutturale, alla precarietà e alla diseguaglianza. Ha ragione Sullo: le proposte di salario sociale, di reddito di cittadinanza e di lavoro solidale nel terzo settore (non a caso definito, si badi, una ‘anti-economia’) sono ‘discutibili’, nel senso che vanno discusse. E fa bene Sullo a metterle insieme, perché discendono tutte dal fondamento concettuale e interpretativo che sto contestando – da questo punto di vista, si deve dire, è la prima proposta, quella di Rifondazione comunista a essere la meno rigorosa, mostrando residui di una cultura del lavoro e di un marxismo che gli altri due filoni più coraggiosamente lasciano alle spalle (più coraggiosamente, è chiaro, se si reputa valido quel fondamento, il che non è). Come pure, perché no, potrebbe non avere torto Sullo a scrivere che si tratta di ricette che "non sono del tutto alternative le une alle altre". Se il capitalismo è un mostro orrendo ma potentissimo sul piano della efficienza e della produzione di benessere, sia pure maledettamente mal distribuito, sarà in grado di metabolizzare tutto, anche queste proposte nella loro versione ‘massimalista’, se solo produciamo socialità dal basso (e d’altronde molti ex-operaisti non ci ripetono instancabilmente, anche se non soprattutto dalle colonne del manifesto, che è la ‘nostra’ produttività quella che il capitale ‘ruba’, buttando così a mare tutto il senso della riflessione marxiana sulla sussunzione reale del lavoro al capitale?).

Ma il punto singolare, a cui nessuno mi sembra abbia dato sinora risposta convincente, è questo: come mai l’apparato interpretativo e le proposte positive di questa sinistra antiliberista cui si rifà Sullo sono esattamente gli stessi della sinistra ‘liberale’ europea? Non ci credete? Beh, per andare alla svelta (ma i rimandi potrebbero essere numerosi) basta leggersi il libriccino appena sfornato da Bollati Boringhieri, Sul capitalismo contemporaneo, in particolare la prima parte redatta da Michel Aglietta, autore oramai del tutto assimilabile alla prospettiva della cosiddetta ‘terza via’ – una telefonata ai compagni della gauche plurielle d’oltralpe confermerà. Con più rigore intellettuale e (di conseguenza) più moderatismo politico, l’economista francese ripropone la classica scissione tra ‘economia’ capitalistica, internamente dinamica e ormai praticamente aconflittuale, e ‘società’ che quel capitalismo marchia invece con il segno dell’ineguaglianza; e assegna quindi alla ‘politica’ (riformista) il compito di liberare, a un tempo, i lacci alla prima e di sanare la disgregazione della seconda. Nelle pagine di questo saggio, come è naturale dentro questa prospettiva, si troverà in bella evidenza il reddito di cittadinanza, e non è difficile scorgere qualcosa che ricorda il terzo settore e i lavori ‘concreti’ alla Lunghini. Una piattaforma culturale che – ma di nuovo sarò io a non capire – a me sembra, questa sì, del tutto omogenea a larga parte della sinistra appunto liberale (in Francia la chiamerebbero social-liberal, ma il senso è proprio quello di Sullo) di casa nostra, che non a caso ha partorito il ‘dividendo sociale’ di Visco o applaude a un Welfare State, apparentemente difeso sì, ma perché ridotto a carità. L'uno e l'altro non sono altro, in fondo, che una versione ‘minimalista’ della nuova vulgata redistributiva.

Ricette ‘discutibili’, dice Sullo. Ma come sia possibile discutere fino in fondo al cantiere di Pescara, o altrove, se si parte – come Sullo parte – da un ragionamento che programmaticamente elude l’interrogazione che viene da chi, nella sinistra non omologata, continua a insistere sui nodi gemelli del conflitto di classe e della critica della politica economica, a me risulta misterioso. Tanto più che soltanto dentro un diverso quadro macroeconomico e dentro una diversa realtà del lavoro capitalistico le proposte redistributive e l’economia solidale acquistano un segno non subalterno al ‘capitalismo’ (che ora sta diventando ‘conservatorismo’) ‘compassionevole’. E’ possibile, persino probabile, se non certo, che una politica economica alternativa sia oggidì fuori portata: ma allora si tratta di ricostruirne le condizioni, e di partire da un conflitto sociale che ricompatti il mondo dei (diversi) lavori, riconoscendo l’unitarietà del lavoro sfruttato dal capitale.

A meno che quella sinistra ‘antiliberista’ di cui parla Sullo non si pensi ormai definitivamente separata dalla sinistra ‘anticapitalistica’.

 

Riccardo Bellofiore

 



Cari compagni,

ll resoconto del dibattito al cantiere di Pescara di Paolo Andruccioli mi spinge a due commenti. Il primo è questo. "Ognuno di noi - scrive Andruccioli, sintetizzando il pensiero di Andrea Fumagalli - è un produttore di 'valore'. Siamo utili al capitale quando usiamo la carta di credito (forniamo dati sui consumi), quando produciamo audience davanti alla tv, quando usiamo il telefonino e persino quando compiamo le scelte sessuali. Dunque ogni persona che vive nel mondo sviluppato avrebbe diritto a un reddito minimo di esistenza." Lasciamo perdere il modello di consumo che traspare dalla citazione, che una volta si sarebbe detto opulento. E chissà perché un reddito di esistenza deve essere anche 'minimo' (chissà cosa sarà un reddito 'massimo' di esistenza? quando negli anni ottanta feci tradurre, nella disattenzione della nostra sinistra, un testo di van Parijs su queste questioni, l'aggettivazione era 'universale' e stop). L'idea, così rielaborata, è effettivamente 'semplice, quanto dirompente'. Avremmo diritto al reddito di esistenza perché - nel mondo sviluppato, beninteso - >siamo 'produttivi di valore' e 'utili al capitale'. Non so cosa abbia questo a che vedere col 'bisogno di comunismo', ma ha una sua logica. Oltre a spiegare materialisticamente perché non hanno 'diritto' a vivere nel mondo meno sviluppato (almeno secondo la visione del diritto veicolata dal discorso riportato), smentisce quegli ingenui come me che credevano che il valore di principio del reddito di esistenza stesse nell'idea (storicamente determinata quant'altre mai) che chiunque ha diritto al reddito per il solo fatto di essere un essere umano. E che si possa semmai dibattere di come, direttamente o mediatamente, realizzare questo diritto. Il secondo commento
è questo. Vedo, sempre dal resoconto di Andruccioli, che Alfonso Gianni vorrebbe invece un reddito sociale minimo per (ri)avviare al lavoro. Chissà perché queste discussioni mi fanno pensare con nostalgia alla vituperata socialdemocrazia, che molto semplicemente prevedeva un sostanzioso sussidio di disoccupazione. Ma poi: quale lavoro? Immagino che nell'idea di Gianni ci sia una speranza di orientare la struttura della produzione e dell'occupazione in qualche modo (è così? e in quale modo?). Ma la via socialdemocratica di Keynes non faceva proprio questo, dare un reddito a
tutti e orientare la produzione (e a un tempo minimizzare i disoccupati di lunga durata), mettendo insieme piena occupazione e controllo della domanda? E il problema non è semmai nel tipo di domanda e di struttura della produzione che il keynesismo realizzato ha prodotto, e che è stato
spesso orrendo? Chissà perché, ma il mio, di bisogno di comunismo, si trova proprio insoddisfatto.

riccardo bellofiore


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