Sakaguchi Ango

"Per la prima volta si guardo' tutto intorno. Al di sopra di lui i fiori, al di sotto si estendeva ovunque silenziosamente un vuoto infinito. Piovevano fiori in un mormorio impercettibile. E niente altro. Nessun mistero oltre a ciò. Dopo un po' percepì solo un tenue tepore. E si rese conto che era la tristezza del suo cuore. Avvolto dal gelo cristallino dei fiori e del vuoto iniziò a distinguere a poco a poco un tiepido gonfiore. Tentò di scostare i petali dal volto della donna. Quando la sua mano  cercò di toccarlo gli parve che qualcosa fosse mutato. Sotto le sue mani solo i petali accumulatisi cadendo; il corpo della donna era svanito e rimanevano solo dei petali. Quando si protese per scostarli via, sia la sua mano, sia il suo corpo, erano ormai svaniti. Poi ovunque solo petali e il gelido vuoto."  <N1>

Così Sakaguchi Ango ( 1906 - 1955 ), una delle voci più terse e coscienti del Giappone del Dopoguerra, conclude il Sakura no mori no mankai no shita ( Sotto la selva di ciliegi in fiore - 1947 ).

Per capirne meglio la forza espressiva e il messaggio, bisogna tener presente che in quegli anni il Giappone uscì non solo sconfitto, ma addirittura distrutto dalla Seconda Guerra Mondiale. I bombardamenti furono spietati e dove non poterono arrivare le normali bombe arrivò invece la   bomba atomica, su Hiroshima e Nagasaki. Le città si trasformarono in deserti bruciati e la popolazione, stremata da una lunga resistenza passiva, vide in pochi secondi spazzati via ogni costruzione, ogni ricordo.

I sopravvissuti vagavano per le vie di quelle che erano le città, senza meta, senza capire cosa fosse successo, cosa sarebbe successo.

I primi anni furono terribili: se da un lato si cercava di ricostruire le case, dall’altro era difficile, se non addirittura impossibile, “ricostruire” lo spirito dei giapponesi: per migliaia di anni avevano creduto nell’origine divina dell’imperatore, nella sua invincibilità.

Da sempre il Giappone era il paese che non si era mai piegato, che non aveva mai subito invasioni, poiché protetto dall’imperatore e dalle divinità. Il Sol Levante ne era il simbolo, che doveva estendere i suoi benefici raggi su tutta l’Asia e ora questo Sole era improvvisamente calato, sotto i colpi delle bombe.

L’imperatore dichiarò via radio la sconfitta e che pertanto il Giappone si arrendeva. Per i giapponesi, che secondo la tradizione e la leggenda discendono tutti dalla stessa stirpe “divina” e sono quindi “figli” dell’imperatore e delle divinità (tennosei), fu come la perdita di quella certezza che da millenni fungeva da collante sociale. Da motivo di orgoglio e presunta superiorità rispetto alle altre popolazioni. Tutti figli dell’imperatore, tutti di origine divina: quindi “superiori”. Nessun traguardo era precluso al popolo “figlio degli dei”. Almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando i figli dell’imperatore si scoprirono un popolo qualunque. Fu come svegliarsi da un lungo sogno, scoprendo che la realtà era un incubo.

In questo contesto si colloca un gruppo di scrittori, definito dalla critica posteriore come shingesaku-ha (Gruppo della Nuova Narrativa) o burai-ha (Gruppo degli Sbandati <N2>) tra cui Dazai Osamu, Ishikawa Jun, Oda Sakunosuke e Sakaguchi Ango.

Cosa accomuna questi scrittori giapponesi? Sicuramente la conduzione di una vita sregolata e al limite della sopravvivenza: alcool, droghe, medicinali. Tutto era esagerato. Sembra che queste persone non si fossero mai incontrate tra di loro, se non in una occasione, quando però, su loro stessa ammissione, erano talmente ubriachi o sotto l’effetto di droghe, che non riuscirono nemmeno a parlare o a comunicare.

La droga era infatti l’unico modo per cercare di dimenticare l’incubo che giornalmente vivevano i giapponesi, l’unico modo per ritornare in quel sogno in cui avevano sempre vissuto.

La notte era il principale nemico, dove sogni e incubi si mischiavano pericolosamente alla realtà. Ci fu quindi un grande utilizzo di sonniferi, ma sempre accompagnati da un bicchiere di tradizionale sake. Inutile dire che il corpo, se sopravviveva a quella dose devastante di alcolici e medicinali, ben presto si assuefaceva  e i ricoveri ospedalieri diventavano normale routine. Sembra che una persona rischi la vita ingerendo 20 sonniferi con dell’alcool, ma Sakaguchi Ango riuscì nel giro di pochi anni, a “sopportare” 50 dosi di sonnifero, mischiate al sake ovviamente, per continuare a ottenere gli stessi effetti della sempre più costosa droga.

Nei pochi momenti di lucidità, Sakaguchi, come gli altri tre del resto, si dedicava al suo vero mestiere: la scrittura.

Pubblicato poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il sakura no mori no mankai no shita può essere considerato la trasposizione in chiave narrativa delle riflessioni dell' autore precedentemente espresse in saggi quali il Bungaku no furusato ( Il paese natio della letteratura - 1941 ) e Darakuron ( Sulla corruzione - 1946 <N3>), dove si condanna il presente e il passato recente del paese, che ha “ingannato” il suo popolo.

Ci si trova di fronte a una fase dominata dal male, dalla disperazione, dalla mancanza di ideali.

"Il Giappone ha perso ma l'umanità è rinata dalla corruzione, il grembo  della verità. Vivi ! Diventa corrotto, gli esseri umani non sono cambiati, sono tornati ad essere nuovamente umani; la gente diventa corrotta. Gli eroi e le eroine si corrompono. Non lo si può evitare........

L' uomo vive, l'uomo diventa corrotto. E' la nostra scorciatoia per la salvezza. Non diventiamo corrotti perché abbiamo perso la guerra, ma perché siamo umani, siamo vivi." <N4>

Ma è in questo che Sakaguchi Ango sa essere speciale: è pessimista sul presente, ma crede in un futuro non molto lontano: l’uomo, guardandosi interiormente, scopre di essere umano, corrotto e quindi vivo. Da questo punto, che è il punto più basso dell’esistenza, si può ricominciare, si può ricostruire.

Sakaguchi Ango inneggia alla corruzione intesa come antitesi dei valori artificiali imposti al popolo giapponese, come amoralità e mancanza di grandi ideali. Da qui si deve partire per riscoprire la vera natura del popolo giapponese soffocata da sovrastrutture culturali che non le appartengono e usate per controllare le masse (come ad esempio il  tennosei).

Ciò che Sakaguchi chiama "corruzione" (daraku) è dunque un processo naturale, nonché necessario. Solo con la sconfitta, l' ammissione della natura umana dell' imperatore e la conseguente perdita d' identità (quell’identità “divina” di cui si era sempre vantato), il popolo giapponese ha potuto prendere coscienza di sè e seguire una propria via, libero da costrizioni. Ma, venute meno le certezze che da sempre regolavano la vita sociale,  l' uomo si scopre abbandonato in un profondo senso di vuoto interiore e ciò gli consente di comprendere che la solitudine è l' unica ed esclusiva condizione della vita umana.

Solo riscoprendo in questo stato di corruzione, di degradazione umana, l’antico stato di purezza dell’uomo, dominato dalla solitudine, era possibile “rinascere”.

In quanto condizione della vita umana,la solitudine è fonte di ogni ispirazione letteraria come già enucleato nel "Bungaku no furusato", dove egli porta a sostegno delle sue tesi opere appartenenti a epoche, generi e culture diversi.

"Questi racconti [due della letteratura giapponese e uno di quella occidentale, ndr] ci trasmettono qualcosa che ha in sé il gelo di una  pietra preziosa, potrei chiamarlo, l'assoluta solitudine - l' assoluta  solitudine di cui è pregna l' esistenza umana. [...] Questa assoluta solitudine non permette una via di scampo [...] non credo possa esistere una letteratura qualora non vi sia coscienza, comprensione di questo paese d' origine" <N5>

Tali sono le premesse che porteranno alla stesura del Sakura no mori no mankai no shita, dove la solitudine è il filo conduttore, il motivo e la conclusione di tutti gli avvenimenti e del racconto stesso.

Affrontando la figura del demone, figura che aleggia misteriosamente nella “selva dei ciliegi in fiore”, il protagonista affronta le proprie paure, ma allo stesso tempo prova un senso di perdita, di solitudine: solo successivamente capisce e la accetta come condizione esistenziale dell' uomo. Egli stesso è divenuto solitudine:

"Il mistero della selva dei ciliegi in fiore [ ... ] forse era ciò che si chiama solitudine. Non era più necessario che l' uomo la temesse, perché lui stesso era la solitudine" <N6>

L' autore ribadisce come la solitudine abbia una sua dimensione fisica ben precisa. Nella parte sopracitata Sakaguchi parla del mistero che avvolge i ciliegi in fiore, ovvero ciò che da il via all' intera narrazione. Il significante hana (fiore) ha nella lingua giapponese un campo semantico molto vasto, da "fiore" a "essenza", "spirito" e quindi già da sé racchiude il tema dell' opera. Esso è l' emblema del popolo nipponico, dello yamato kokoro, termine associato alla caducità, all' effimero, alla purezza e alla evanescenza. Negli anni della Guerra del Pacifico esso esprimeva l' orgoglio nazionale, nobiltà di una morte eroica sul campo di battaglia. Per Sakaguchi queste sono sovrastrutture culturali che vanno rimosse per tornare alla vera essenza dell' uomo, da cui ricominciare: la solitudine.

<N7>



NOTE

<N1>

Sakaguchi Ango, Sakura no mori no mankai no shita, 1947, in Gendai Nihon bungaku taikei, p.317.

<N2>

Importante la definizione di “gruppo”: questi scrittori non appartenevano ad alcuna scuola o corrente, tantomeno si conoscevano. Furono “raggruppati” sotto i nomi di shingesaku-ha e burai-ha dalla critica letteraria posteriore.

<N3>

“Corruzione” intesa come rovina, distruzione e decadimento.

<N4>

Sakaguchi Ango, Darakuron, 1946, in Gendai Nihon bungaku taikei, p.243.

<N5>

Sakaguchi Ango, Bungaku no furusato, 1941, in Gendai Nihon bungaku taikei, p.222.

<N6>

Sakaguchi Ango, op. cit., p.316.

<N7>

Sakaguchi Ango in uno dei suoi momenti “creativi”.



BIBLIOGRAFIA

Sakaguchi Ango, Sakura no mori no mankai no shita, 1947, in Gendai Nihon bungaku taikei, vol.77, Tokyo.

Sakaguchi Ango, Darakuron, 1946, in Gendai Nihon bungaku taikei, vol.77, Tokyo.

Sakaguchi Ango, Bungaku no furusato, 1941, in Gendai Nihon bungaku taikei, vol.77, Tokyo.





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