"BUSTI DI ARCHITETTURA"
 Andrea Branzi 


Nello sterminato spazio che si apre tra le merceologie della fashion e le strutture immobili dell’architettura, esiste la più interessante area progettuale della contemporaneità.

Nessuno sembra ancora autorizzato ad approfondire ricerche e innovazione al di fuori dei campi disciplinari che ancora strutturano, dal suo interno, l’universo artificiale: da una parte il mondo delle merci, dei prodotti di serie, delle tecnologie operative, legate al mercato e al flusso dei consumi, che rotolano nelle strade; e dall’altra l’immobile catena delle vette architettoniche, nate e costruite per durare nel tempo e nello spazio, indifferenti alla cronaca del gusto.

Tra questi due poli progettuali sembra non esistere possibilità di scambi ormonali; ognuno risponde di uno statuto autonomo e di una logica mentale separata.

Un secolo di modernità forte ci ha insegnato a distinguere tra la parte strutturale del mondo, e l’indotto delle sovrastrutture effimere e emotive del mercato; moda, design, informazione, tendenze, sono state collocate in questa parte bassa, accessoria e retorica, dei fenomeni stagionali. La salvezza sarebbe arrivata soltanto con un progresso basato su questa distinzione di limiti e di ruoli.

Un pensiero diverso, più eretico e dissacrante, ha caratterizzato invece una parte della modernità italiana, collocata in quell’area che si poneva in maniera originale tra Futuristi e Metafisica, e che ha supposto una diversa sortita del progresso. Un progresso incapace di costruire nuove cattedrali e nuovi sistemi stabili del sapere e della morale, ma costruttore piuttosto di una sorta di frattale perennemente in moto su se stesso: una "città che sale" in un vortice (come titolavano Boccioni e Balla), per una società creativa dove il progresso non è sinonimo di valori, ma di movimento e di pura energia ascensionale.
Un progresso dinamico, che non si può fermare e da cui non si può scendere in corsa, che non costruirà niente di definitivo, ma soltanto traguardi mobili e provvisori. Una libertà assoluta, da cui non si può uscire.

Questa visione assoluta e realistica, in forme e pensieri diversi, ha caratterizzato negli anni ’60 e ’70 il movimento radical italiano, oggetto oggi di un grande ritorno di interesse critico e espositivo al Beaubourg di Parigi, al Frac di Orlean, al Kunst Museum di Francoforte, alla Fondazione per l’Architettura di Bruxelles; un movimento teorico e sperimentale che puntava a azzerare ogni metafora compositiva, per intercettare direttamente le logiche di trasformazione complessiva del mondo costruito, inteso come plancton genetico in continua crescita dentro a una metropoli globale.
Un vortice liberatorio, in continuo cambiamento, movimento, dispersione, dentro uno spazio reso fluido dal grande calore prodotto dall’attrito interno del flusso delle informazioni e delle energie di relazione.
E’ forse da queste specifiche tradizioni di pensiero che si muove gran parte della nuova generazione di architetti che in Europa stanno riaprendo il dibattito, e attivano laboratori autonomi di ricerca.
Lapo Lani, giovane talento, espone nella galleria Marsilio Margiacchi di Arezzo, busti d’architettura indossabili dentro un ambiente mediatico: l'allestimento sonoro, creato in collaborazione con Paolo Traversari, dà vita ad una istallazione intesa come sperimentazione di una semiosfera urbana, in cui i linguaggi dell’architettura, della musica, dell’informazione, si spingono a vicenda, e diventano più credibili e accettabili, proprio perché perdendo i loro riferimenti interni, si pongono in uno spazio dinamico senza direzione, come appartenenti a una galassia in espansione nel vuoto.

Vedendo questi tipi di ricerche, non si ha l’impressione di assistere all’esibizione di una pura ricerca estetica o disciplinare, ma si avverte lo sforzo di raggiungere un assoluto realismo, cioè a dire un tentativo di capire e di comunicare come le cose realmente sono, e non come dovrebbero essere.
Intendo dire che il lavoro di Lapo Lani è solo in parte di rivolto a produrre un futuro progettato, quanto piuttosto a descrivere positivamente il presente non progettato.
Questa importante presa di coscienza di una ingovernabilità del mondo delle cose, non è assolutamente proposta come tragedia estrema, ma come premessa indispensabile per chi voglia operarvi senza vecchi pregiudizi e inutili prevenzioni, accettando con gioia questo limite come straordinaria occasione, per immaginare un mondo del tutto diverso.

Questo tipo di atteggiamento  non nasce dalla constatazione di una sconfitta per chi ha sperato in un mondo di ordine da raggiungere attraverso progetti forti e concentrati; ma piuttosto dall’urgenza di chi crede (come noi) che sia giunto il momento di affinare nuove logiche di progetto, più adeguate a una modernità debole e diffusa, caratterizzata dall’avvento sulla scena urbana di un numero infinito di attori, mossi dalla capacità di massa di produrre innovazione, ricerca, ricchezza, e progetto.

I busti di architettura di Lapo Lani sono dunque dei veicoli di fluidificazione tra scale e discipline diverse, ma sono anche una sorta di concentrazione strategica sull’energia biologica, genetica, e mentale dell’uomo che vive nella società della new economy, e intorno alla quale cresce una metropoli relazionale, priva di una forma globale, inespressiva sul piano architettonico, ma iper dotata nei micro-sistemi delle cose e dei segni che la abitano.

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