Le Interviste del Boss

Nato per rinascere
BRUCE
di Riccardo Bertoncelli
da Musica! 15-04-1999

Nato per Rinascere - BRUCE


La prima volta che Springsteen venne in Italia, nel giugno del 1985, era l'estate del suo successo. Una stagione caldissima e già matura. L'acclamato e venerato "re del rock" continuava a far strage di cuori ma nello stesso tempo cominciava a essere contestato e messo in discussione. Pochi mesi prima di lui si erano esibiti in Italia gli U2, e qualcuno aveva profeticamente visto in quei quattro sbarbati irlandesi i sudditi infedeli destinati a mozzargli la testa. Ma, più degli indovini, la vincevano in quei giorni i fan inquieti e scontenti, quelli che nell'ultimo album del Boss, Born in the USA, avevano colto pericolose concessioni al pop e un tradimento di fondo degli ideali di purezza sbandierati nei dischi più famosi e "incontaminati", da Born to run a The river. Sembrava, a quei Bruce-atollah, che un'epoca si fosse chiusa e che quella nuova che s'intuiva, fra batterie elettroniche e ritornelli radiofonici, non fosse destinata a essere altrettanto magica.
Sono passati un milione di anni, non guardate il calendario: un milione di anni. Se i Bruce-atollah sbagliavano, era solo per difetto: perché in effetti quel tour segnò lo zenith della dominazione springsteeniana, il punto massimo di potere di quel Re Sole del rock. Dopo un diluvio fatto di album incerti o mediocri (Tunnel of love, Lucky town), di pochi concerti non così epici, di rapporti sempre più sfilacciati con una E Street Band che a un certo punto, scandalo e sollievo, venne messa da parte. Quel giorno del 1985 a San Siro, davanti a 50.000 fans in delirio, il Boss non lo sapeva ma aveva un grande futuro già alle sue spalle. Sarebbe sciocco e ingeneroso accollare a Springsteen tutto il peso di questa crisi. In effetti a cambiare radicalmente, a naufragare in questi ultimi quindici anni è stato tutto il sistema rock: in una società sonora intertribale come quella in cui viviamo non ha più senso una "monarchia assoluta" e la stessa parola "rock" ha smesso di suonare forte e chiara come per trent'anni era stato.
Gli stessi dubbi con cui gli scettici accolsero il Boss all'epoca (alzo la manina) hanno perso molto significato: sì, è vero, Springsteen era un curioso fossile, un ritardatario, l'"ufficio stampa degli anni '50 e '60" presso le nuove generazioni, ma oggi quel gap in qualche modo si è colmato. La E Street Band che ritorna è sinonimo di "rock classico" e, anche se Springsteen non ha ancora cinquant'anni, appartiene idealmente alla leva dei Beatles e degli Stones ma anche, più indietro, dei Chuck Berry e James Brown. Per molti, specie fra i giovanissimi, questo significa preistoria e mondo giurassico; per altri, la fedeltà a una tradizione, l'idea di vibranti scosse di energia e di una "grande palla di fuoco" che da un palco rotola verso una platea, con la catapulta di tre chitarre in fiamme, un sax, batteria e tastiere.
Non so se è tanto o poco, non credo che sia solo nostalgia: e ad ogni buon conto è quello che Springsteen sa fare, ed è molto logico e giusto, piuttosto che "furbo", che sia tornato a farlo. Nessuno sa cosa avesse in mente quando chiuse il capitolo E Street Band, dieci anni fa, e personalmente non ho mai capito se questo lungo interregno fatto di dischi sporadici, lunghe assenze, sorprendenti "mordi e fuggi" sia nato da una precisa strategia o da distratte casualità. Ad ogni buon conto, missione fallita: se ogni tanto ha suonato ancora buona musica (penso soprattutto a certe parti di The ghost of Tom Joad) è vero che lo Springsteen solistico non è riuscito a trovare nuove strade, ad accendere la fantasia, anche solo ad azzittire rimpianti e chiacchiere. Meglio lo scarmigliato e logorroico shouter dei primi dischi, molto meglio il trentenne che sul palco ritornava ragazzino, piegandosi nel "passo dell'anatra" e snocciolando da un juke box della mente tutti i pezzi preferiti della sua giovinezza.
"The song remains the same", cantavano i Led Zeppelin, e la cosa non dispiacerà certo agli springsteeniani delle varie fazioni; in questo tour e nell'album che inevitabilmente verrà (o nei molti che seguiranno, se questa è una "fase 2" della carriera), i fan troveranno quello che amavano e che avevano perduto, brandelli di nostalgia ma anche un'idea di rock solido e con le radici com'è ormai sempre più raro. D'altronde, che altro potrebbe essere? Non me lo vedo uno Springsteen navigatore di reti sonore interconnesse e la sua imbarcazione musicale, un romantico Sloop John B uscito dai cantieri navali dell'Atlantico negli anni 60, si perderebbe nei flutti dell'"oceano sonoro" del nostro tempo.
La sua non è mai stata né mai potrebbe essere una musica virtuale: troppo sangue, troppi nervi, troppo sudore, e vita vera, faticata, paesaggi da capitalismo fordiano e non da multinazionali on line. Ecco, se c'è una cosa di Springsteen che il tempo ha rivalutato è questa semplice umanità delle sue canzoni, quest'epopea dell'umile e del quotidiano che magari non è uscita dal bozzettismo ma che oggi acquista valore in contrasto con tanti scenari di musica finti e inanimati.
Vengono in mente le parole di un ottimo giornalista di "Rolling Stone", Anthony De Curtis, scritte quando Bruce era ancora la Grande Meraviglia Bianca della musica rock. "Springsteen non ha cambiato il mondo come Elvis o i Beatles e non ha penetrato l'anima più passionale del rock come hanno fatto i migliori Stones; difficilmente riuscirà a produrre una sequenza di capolavori rivoluzionari e fondamentali simile a quella del Dylan di metà anni 60; non ha la stessa meravigliosa voce di Marvin Gaye o Otis Redding né sa danzare con la geniale fisicità di Michael Jackson. Ma se si vuole un artista che, tanto sul palco quanto su disco, dimostri attenzione e comprensione per la vita della gente comune, il nome a cui fare riferimento nel mondo del rock è il suo".


da Musica! 15-04-1999 (Supplemento de la Repubblica)

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