L'ictus ischemico è caratterizzato dalla brutale comparsa di
segni neurologici che conseguono al danno parenchimale prodotto dall'improvvisa
caduta della perfusione tessutale, generalmente in seguito alla occlusione
di una arteria.
Dal momento dell'arresto del circolo il tessuto cerebrale alimentato
dal vaso occluso subisce una serie di modificazioni emodinamiche e metaboliche
che conducono inevitabilmente alla morte cellulare.
In alcuni casi l'esordio clinico è caratterizzato dalla comparsa
di episodi di ischemia transitoria che si ripetono però ad intervalli
sempre più frequenti, con la comparsa ad ogni nuovo episodio di
sintomi aggiuntivi, fino alla definitiva compromissione della funzione,
dipendente dal danno definitivo del tessuto cerebrale. I "crescendo TIA"
sono quasi sempre secondari a emboli multipli che si distaccano dalla superficie
di una placca ateromasica complicata che può alla fine provocare
l'occlusione della carotide interna.
Altre volte invece si assiste alla comparsa di sintomi neurologici
piuttosto modesti che tendono ad aggravarsi progressivamente nel giro di
poche ore. Il quadro dello stroke in evolution è talvolta veramente
drammatico perché si assiste al graduale deterioramento funzionale
del paziente che frequentemente è destinato all'exitus. Le cause
di questa forma clinica sono anche in questo caso da ricercarsi molto spesso
nella patologia ateromatosa carotidea responsabile di embolie ricorrenti
che finiscono con il provocare l'occlusione di uno o più vasi principali
intracranici.
Un'altra forma spesso brutale di ischemia cerebrale, nella quale rientra
talvolta anche lo stroke in evolution, è quella che gli autori americani
definiscono "watershed infarction", cioè l'infarto delle zone di
confine tra un territorio vascolare ed un altro in cui l'irrorazione dipende
non da una sola arteria, ma da due o tre vasi principali. Questo tipo di
infarto, che risente moltissimo dell'integrità dei circoli di compenso,1
rappresenta circa il 10% di tutti gli infarti cerebrali2 ed
almeno il 40% di questi infarti si verifica in pazienti affetti da stenosi
o occlusione carotidea.3
La zona di confine tra l'arteria cerebrale anteriore e l'arteria cerebrale
media corrisponde alla regione fronto-parietale in corrispondenza delle
aree deputate alla funzione dell'arto superiore, mentre la zona di confine
tra l'arteria cerebrale anteriore, l'arteria cerebrale media e l'arteria
cerebrale posteriore è localizzata più posteriormente in
corrispondenza della regione parieto-occipitale.
Un infarto cerebrale può interessare proprio una zona di confine
in seguito alla occlusione contemporanea di due vasi principali all'interno
del cranio (come per esempio in caso di embolie massive),4 durante
l'occlusione bilaterale delle carotidi interne nel segmento extracranico
o per una stenosi serrata di queste due arterie con conseguente caduta
della pressione di perfusione cerebrale per un brusco abbassamento della
pressione sanguigna. (Tab. 1A) (Tab
1B).
In condizioni normali l'encefalo necessita per il proprio fabbisogno
energetico di circa 50 ml di sangue al minuto per 100 grammi di tessuto.
Quando il flusso scende al di sotto di 33 ml/min. si manifesta già
un iniziale rallentamento dei processi metabolici del cervello che però
risponde alla caduta della perfusione con una reazione di adattamento dinamico
e metabolico alla nuova situazione (fase dell'oligoemia sec.Baron)5
(Fig. 1).
L'adattamento dinamico è garantito dalla immediata entrata in
funzione dei compensi vascolari attraverso la fitta rete anastomotica perilesionale,
e dai meccanismi di autoregolazione5-6 grazie ai quali si assiste
ad una riduzione delle resistenze periferiche nelle aree ipovascolarizzate
per l'effetto vasodilatatore che deriva dall'accumulo di CO2
e che contribuisce a mantenere la perfusione parenchimale.
Quando la vasodilatazione non è più in grado di garantire
la perfusione parenchimale, subentra l'adattamento metabolico che determina
un aumento dell'estrazione di ossigeno dal sangue circolante passando da
un tasso normale di estrazione di O2 del 30-40% ad un tasso
dell'80 e anche del 90%5.
Questi meccanismi di compenso consentono alla zona ischemica di salvaguardare
l'omeostasi dei neuroni conservando l' elevato gradiente di potassio intracellulare
e quello extracellulare di sodio, calcio e ioni cloro, mantenendo la propria
vitalità prima di subire dei danni che possono comprometterne definitivamente
la funzionalità.
Quando la perfusione regionale scende al di sotto di 18-20 ml/min.
compaiono i deficit neurologici. Tuttavia, benché in questo stadio
il parenchima cerebrale sia già gravemente compromesso, (come dimostrato
dalle gravi anomalie elettriche cerebrali tipiche ed indicative di un incipiente
danno cellulare irreversibile), esso non viene ancora considerato irrecuperabile,
in quanto l'aumento del flusso cerebrale a valori fisiologici o quasi può
far regredire abbastanza prontamente i sintomi (fase della paralisi sec.
Baron).
Solo quando il flusso scende al di sotto di 10 ml/min si realizzano
danni parenchimali irreversibili che conducono inevitabilmente alla morte
cellulare (fase dell'infarto).
A questi livelli si realizza una grave alterazione della omeostasi
della membrana cellulare a causa della deplezione di importanti metaboliti
ad alta energia, come l'ATP, responsabili del funzionamento della pompa
ionica. Mentre aumenta il potassio extracellulare, il sodio ed il cloro
si accumulano all'interno delle cellule e, richiamando acqua, provocano
il rigonfiamento dei neuroni e della glia (edema citotossico). L'aumento
del calcio intracellulare, in parte rilasciato dai mitocondri e dal reticolo
endoplasmatico dopo l'ischemia ed in parte proveniente dagli spazi extracellulari
(grazie all'azione di alcuni neurotrasmettitori, come il glutamato e l'aspartato,
che attivano i canali del calcio favorendone il passaggio attraverso la
membrana), determina un significativo incremento del Ca++ libero
che attiva le fosfolipasi che attaccano e distruggono le membrane cellulari,
preludendo alla morte cellulare. Dalla distruzione delle membrane cellulari
viene liberato l'acido arachidonico, un acido grasso che, attraverso gli
eicosanoidi e i leucotrieni, radicali liberi tossici prodotti dal suo metabolismo,
promuove l'aggregazione piastrinica e la vasocostrizione, amplificando
ed aggravando il danno neuronale7.
In seguito alla occlusione di un'arteria principale Il parenchima cerebrale
perfuso da questo vaso subisce un immediato danno anossico. Il tessuto
massimamente colpito dall'anossia è quello corrispondente alla zona
centrale del territorio vascolare dipendente dal vaso occluso. La zona
periferica, definita di penombra, seppure sofferente per le conseguenze
dell'ipossia, rimane discretamente vascolarizzata ed è potenzialmente
in grado di riprendere la sua normale funzione una volta che i fenomeni
compressivi e le alterazioni vasomotorie regrediscono (Fig.
2). Pertanto, dopo un esordio improvviso ed invalidante, i pazienti
che sopravvivono possono presentare un graduale, seppure incompleto recupero
delle funzioni.
Il flusso cerebrale nell'area ischemica quindi è variabile nel
senso che al centro della lesione esso scende abbastanza rapidamente al
di sotto dei 10 ml/100gr/min, mentre in periferia, e cioè nella
zona di penombra ischemica,5,8 esso si mantiene al di sopra di questi valori,
ma sempre entro livelli critici. Ne consegue che la parte centrale è
destinata alla degenerazione cellulare entro pochi minuti dall'evento ischemico,
mentre la zona di penombra mantiene ancora una certa vitalità che
può essere però compromessa dai fenomeni che subentrano alla
degenerazione cellulare.
Il grado di vitalità del parenchima della zona in penombra è
in funzione del livello del flusso cerebrale regionale e dipende perciò
dalla validità dei circoli di compenso e dalle alterazioni locali
conseguenti all'ischemia.
Indubbiamente fin quando i collegamenti tra i vari territori vascolari
sono efficaci, le possibilità di sopravvivenza della zona di penombra
ischemica sono più alte perché più elevato è
il flusso alla periferia dell'area malacica.
Tuttavia il grave rallentamento di flusso che si realizza al centro
del territorio malacico ed i meccanismi emocoagulativi che si instaurano
in corrispondenza delle aree vascolari danneggiate possono favorire dei
fenomeni di trombosi che impediscono materialmente qualsiasi possibilità
di riperfusione anche delle zone circostanti alla zona centrale, con conseguente
progressivo allargamento in periferia dell'area di necrosi cellulare. La
necrosi determina l'alterazione della barriera emato-encefalica che favorisce
il passagio di fluidi e proteine fuori del comparto vascolare (anche a
causa dell'ipertensione che consegue alla contestuale perdita dell' autoregolazione
cerebrale), provocando l'insorgenza dell'edema vasogenico che compromette
ulteriormente la perfusione parenchimale e favorisce la degenerazione anche
della zona di penombra.
Se l'arteria è stata ostruita da un embolo può accadere
che la spinta esercitata dalla corrente sanguigna a monte dell'occlusione
riesca a spingere l'embolo stesso più distalmente, riabitando l'arteria
prima occlusa. In questi casi, se le strutture vascolari hanno già
subito un danno e sono già in via di degenerazione, la riperfusione
può causare la rottura di arteriole e capillari, con conseguente
fuoriuscita di sangue e trasformazione dell'area ischemica in un'area emorragica.
L'infarto emorragico, che si realizza in circa il 60% degli infarti cerebrali,
è una tipica lesione embolica e solo eccezionalmente si manifesta
in seguito alla occlusione progressiva di un'arteria intracranica da parte
di una placca ateromatosa.
I primi lavori sulla chirurgia dell'ictus cerebrale in fase acuta furono
particolarmente ottimistici tanto che Denman9 nel 1955 e poi
Rob e Wheeler nel 195710 riportarono alcuni casi di pazienti
affetti da gravi deficit neurologici subentrati ad un ictus cerebrale ischemico
nei quali l'intervento di disostruzione della biforcazione carotidea fu
seguito da un completo recupero neurologico. Successivamente invece Breutman11
nel 1963 e Wylie12 nel 1964 segnalarono il rischio di emorragia
cerebrale e di decesso in seguito a TEA dopo un infarto recente. Lo stesso
Rob13 nel 1969 segnalò una consistente mortalità
dopo TEA d'urgenza (circa il 30%), mentre solo 21 pazienti su 125 si beneficiarono
dell'intervento.
Nel Joint Study for Extracranial Arterial Occlusive Disease14
fu sottolineato che ritardando l'intervento chirurgico ad almeno due o
tre settimane dopo l'episodio ictale si riscontrava una importante riduzione
della mortalità che passava dal 42% per interventi effettuati fino
a 10 giorni dopo l'ictus all'1,7% per gli interventi effettuati dopo almeno
due settimane dall'evento ischemico. Anche le recenti osservazioni di Giordano15
confermano la netta e clamorosa riduzione di mortalità nei pazienti
operati dopo 5 settimane. Tuttavia Dosick16 e Whittemore17
hanno sottolineato l'importanza di intervenire precocemente almeno sui
pazienti affetti da sintomi neurologici la cui TC del cranio non mostri
significative alterazioni parenchimali, al fine di prevenire la comparsa
di nuovi episodi embolici nell'attesa della stabilizzazione clinica del
focolaio ischemico.
L'ictus cerebrale ischemico provocato da emboli carotidei è
accompagnato da una elevata incidenza di recidive anche mortali (10%/anno
sec. Sacco18 - 7%/anno sec. McCullough19) poiché
le placche ateromasiche degenerate ed ulcerate della biforcazione carotidea
rappresentano una fonte potenzialmente continua di emboli e possono inoltre
favorire l'improvvisa trombosi acuta della carotide interna.
Il trattamento medico conservativo del crescendo TIA e dello stroke
in evolution non è accompagnato da risultati particolarmente incoraggianti
come dimostrato dal fatto che i pazienti affetti da questi sintomi e trattati
solo medicamente presentano un'incidenza di morbilità del 75% con
una mortalità del 14% entro due settimane dall'esordio dei sintomi.20
Un intervento chirurgico di endarteriectomia eseguito in fase acuta
in pazienti affetti da sintomi neurologici ricorrenti, in leggera evoluzione
oppure definitivi può sicuramente rappresentare un rimedio utile
a ridurre l'incidenza di morbilità e mortalità almeno in
gruppi selezionati di ammalati.21-22 I pazienti svegli o comunque
senza gravi alterazioni dello stato di coscienza, senza significative alterazioni
densitometriche o segni di un grave effetto massa sulle strutture della
linea mediana alla TC del cranio ed in condizioni generali discrete sono
validi candidati all'intervento che è invece assolutamente controindicato
in caso di una importante malattia cardio respiratoria, specie uno scompenso
congestizio, o di una grave insufficienza renale, nel qual caso si esclude
categoricamente ogni indicazione operatoria.
Goldstone e Moore21 trattarono con successo 13 pazienti
affetti da stroke in evolution e 8 da crescendo TIA mentre Mentzer22
ottenne un recupero completo in sette pazienti affetti da crescendo TIA
e un recupero neurologico significativo in 12 dei 17 pazienti affetti da
stroke in evolution ed operati di urgenza. Di questi soltanto uno morì,
mentre gli altri 4 presentarono un quadro neurologico sostanzialmente stabile
rispetto a quello preoperatorio.
Tuttavia, poiché anche le complicanze postoperatorie sono particolarmente
frequenti ed insidiose, conviene, quando possibile, attendere la stabilizzazione
del focolaio malacico prima di procedere ad un intervento chirurgico in
fase acuta. Se la lesione ateromatosa appare stabile e se il quadro neurologico
non presenta oscillazioni peggiorative di rilievo, il paziente può
essere monitorizzato e controllato per un periodo di tre - sei settimane,
tempo necessario alla stabilizzazione definitiva di un focolaio malacico
cerebrale.19,23 Se ci si trova invece di fronte ad una stenosi
serrata responsabile di gravi alterazioni dinamiche con un evidente rallentamento
del circolo o ad una placca disomogenea con una voluminosa ulcerazione
e le variazioni neurologiche lasciano temere un possibile peggioramento
secondario o all'occlusione della carotide interna o al distacco di un
trombo dalla superficie della placca, il paziente potrà anzi dovrà
essere operato.
Nel caso di stenosi, il paziente candidato all'intervento va operato
per ripristinare la normale dinamica intracranica ed impedire che l'ipossia
cerebrale possa ulteriormente aggravare il danno parenchimale con conseguente
aggravamento del deficit neurologico.
Nel caso di placche ulcerate evidentemente lo scopo dell'intervento
è quello di prevenire l'ulteriore distacco di emboli e, se possibile,
di favorire la fuoriuscita di quei coaguli ancora localizzati nella carotide
interna che non abbiano ancora raggiunto i vasi intracranici, sia mediante
il deflusso arterioso, sia mediante l'uso del catetere di Fogarty.
La trombosi acuta della carotide interna può essere la conseguenza di:
1. graduale riduzione del lume arterioso per progressivo ispessimento
di una placca ateromasica della biforcazione con conclusiva formazione
di un trombo che ostruisce definitivamente e completamente il lume arterioso.
2. brusca degenerazione di una placca ateromasica secondaria ad una
emorragia intramuraria con successiva ulcerazione e rapida formazione di
un coagulo che ostruisce brutalmente il lume arterioso.
3. rapida formazione di un coagulo su un'area endarteriectomizzata.
4. distacco di un coagulo dalle pareti o dai lembi valvolari del cuore
di sinistra che si arresta in corrispondenza dell'ostio della carotide
interna occludendolo.
Nel primo caso la lenta trasformazione della placca che conduce all'occlusione
è accompagnata da una graduale variazione dei gradienti pressori
degli altri tronchi arteriosi che assicurano in genere una sufficiente
perfusione al territorio interessato attraverso i circoli anastomotici
extra ed intracranici. In queste circostanze l'occlusione è quasi
sempre ben tollerata, spesso asintomatica proprio perché il progressivo
adattamento alle nuove condizioni dinamiche impedisce la comparsa di un
deficit di perfusione e quindi dell'ischemia, spesso anche in presenza
di anomalie morfologiche e funzionali del poligono di Willis.
Negli altri casi, invece, l'occlusione della carotide interna avviene
in maniera brusca, ed è caratterizzata dall'improvviso, anche se
transitorio, arresto del flusso nel territorio dipendente, seguito da una
pronta ripresa della perfusione ad opera degli altri tronchi arteriosi
attraverso le comunicanti e le anastomosi extra-intracraniche. Naturalmente,
poiché nell'occlusione acuta l'adattamento dinamico deve essere
necessariamente rapido, se il poligono di Willis è integro, il paziente
può rimanere asintomatico o lamentare solo vaghi disturbi transitori,
mentre presenterà una sindrome neurologica focale se le arterie
comunicanti non sono in grado di assicurare un adeguato compenso alle aree
ischemiche.
Talvolta, prima dell'occlusione definitiva della carotide interna,
alcuni emboli possono raggiungere i vasi intracranici, occludendoli. In
questi casi il quadro clinico di esordio è brutale e l'evoluzione
quasi sempre molto grave, anche in presenza di un valido apporto anastomotico
da parte delle comunicanti (Tab. 2).
Purtroppo però è spesso difficile dimostrare e documentare
in fase acuta l'occlusione embolica di una o più arterie cerebrali
in concomitanza dell'occlusione della carotide interna al collo, dal momento
che la stessa angiografia selettiva della carotide occlusa evidenzia solo
l'arresto del contrasto al limite inferiore dell'occlusione. Certamente
le moderne metodiche flussimetriche e di angiorisonanza potrebbero documentare
una simile situazione, ma spesso sono lunghe e non rapidamente eseguibili
e quindi poco utili per la valutazione estemporanea delle condizioni del
circolo cerebrale.
Lo studio della storia naturale delle occlusioni carotidee non consente
di trarre delle conclusioni significative sulla evoluzione clinica di questa
patologia, poiché le casistiche più ampie sul decorso di
pazienti affetti da lesioni ischemiche24,25 mancano del fondamentale
supporto diagnostico dell'angiografia o almeno del riscontro autoptico.
La prima casistica significativa è quella di McDowell del 196126
in cui sono analizzati i dati relativi a 40 pazienti affetti da occlusione
carotidea accertata angiograficamente o all'autopsia. In questo gruppo
l'occlusione carotidea si manifestò con un grave deficit neurologico
solo in 22 pazienti, mentre negli altri 18 la sintomatologia di esordio
era modesta o assente. Dei pazienti sintomatici il 55% (12 paz.) morì
in seguito all'evento ischemico, il 41% (9 paz.) presentò dei gravi
esiti neurologici invalidanti e solo il 4% (1 paz.) recuperò completamente
ogni deficit.
Grillo e Patterson nel 197527 verificarono che su 44 pazienti
con occlusione carotidea dimostrata angiograficamente, l'esordio clinico
era stato brutale in 26 soggetti mentre gli altri 18 avevano presentato
solo segni di ischemia transitoria nel territorio carotideo interessato.
La mortalità fu del 16% nelle prime due settimane dopo l'evento
ictale.
Una analoga mortalità (9 paz.) è stata riportata da Norrving
e Nilsson nel 198128 su 59 casi di occlusione acuta della carotide
interna accertata angiograficamente o all'esame autoptico.
L'analisi di questi risultati dimostra che l'occlusione della carotide
interna può essere asintomatica o può esordire con una sintomatologia
clinica modesta, caratterizzata solo da attacchi ischemici transitori nel
40-45% dei casi. Peraltro l'uso routinario delle indagini non invasive,
specie l'Ecodoppler, ha dimostrato che l'incidenza delle occlusioni carotidee
asintomatiche o paucisintomatiche è sicuramente più elevata
di quella appena indicata.
Il 55- 60% dei pazienti presenta invece un esordio clinico brutale
caratterizzato da un ictus definitivo o da uno stroke in evoluzione. In
questo gruppo la mortalità oscilla tra il 30 e il 55%, a seconda
delle casistiche, la morbilità invalidante intorno al 50%, mentre
solo una piccola percentuale di ammalati (dal 2 al 12%) ha un recupero
neurologico soddisfacente.
La terapia chirurgica dell'occlusione acuta della carotide interna rappresenta
ancora oggi un capitolo estremamente controverso.29-34 La scarsa
univocità di atteggiamento dipende dalla sostanziale difformità
con cui i medici hanno affrontato questo argomento e certamente la mancanza
di risultati positivi su larga scala ha contribuito a ridurre gradualmente
l'interesse per questo segmento della chirurgia carotidea.
Molto frequentemente infatti la riabitazione di una carotide occlusa
è seguita da un peggioramento dei sintomi per la comparsa di una
emorragia cerebrale o meglio di un infarto emorragico secondario alla rottura
di piccoli vasi nell'area ischemica. Nel 1964 Wilie35 verificò
che questa complicanza si era manifestata in 5 dei 9 pazienti sottoposti
a TEA per occlusione acuta della carotide interna operati dai tre ai nove
giorni dopo l'esordio clinico.
Certamente, alla luce delle recenti esperienze e valutazioni sia cliniche
che sperimentali, il trattamento chirurgico eseguito a distanza di molte
ore o addirittura di qualche giorno dalla comparsa dei segni neurologici
sembra essere molto condizionante, in senso negativo, sul risultato operatorio.
Nel Joint Extracranial Arterial Occlusive Disease Study, Blaisdell36,
in una serie di 50 TEA effettuate per occlusione acuta della carotide interna
e trattate fino a 13 giorni dopo l'esordio clinico, riscontrò una
mortalità oscillante intorno al 40%.
Tuttavia nella decisione terapeutica un ruolo importante è rivestito
dalla valutazione del quadro clinico di partenza, poiché è
chiaro che pazienti affetti da deficit gravi e da alterazioni dello stato
di coscienza presentano una mortalità molto elevata, indipendentemente
dal tipo di trattamento.
Thompson37 riscontrò una elevata mortalità
tra i pazienti affetti da deficit gravi e ne sconsigliava il trattamento
chirurgico perché considerava improbabile che l'intervento potesse
favorire un significativo recupero neurologico. Analogo fu l'orientamento
di Ojemann38 e DeWeese39 contrari all'intervento
per deficit gravi ed improvvisi, specie se accompagnati da compromissione
dello stato di coscienza, mentre consideravano chirurgici quei pazienti
affetti da occlusione acuta della carotide interna che presentassero deficit
neurologici di modesta entità.
La possibilità di intervenire molto precocemente dopo l'occlusione
e dopo la comparsa dei sintomi offre però un significativo vantaggio
nei risultati. In effetti quei pazienti operati rapidamente perché
subito trasportati presso strutture organizzate per una diagnosi precoce
e con un'equipe chirurgica all'altezza, o perché già ricoverati
per una stenosi preocclusiva carotidea trasformatasi in occlusione durante
la degenza, o perché l'occlusione carotidea si sviluppa in seguito
ad un esame angiografico, presentano una mortalità operatoria molto
bassa e soprattutto un indice di miglioramento particolarmente elevato.
Hafner e Tew40 sostennero l'opportunità di operare
entro due ore dall'esordio clinico anche pazienti affetti da gravi deficit
neurologici sulla scorta di tre casi di occlusione risoltisi favorevolmete
dopo un intervento molto precoce.
Najafi41 su 15 TEA eseguite dopo un'occlusione subentrata
ad un esame angiografico e responsabile di deficit neurologici significativi,
ha riscontrato un miglioramento clinico nel 53% (8 paz.) dei pazienti contro
il 33% di risultati negativi tra i quali la mortalità rappresentava
solo il 6% (1 paz.). In cinque pazienti operati d'urgenza per la scomparsa
di un soffio carotideo ottenne un risultato favorevole in tutti i casi.
Meyer e Sundt42 su 34 pazienti già ricoverati di
cui 33 affetti da deficit neurologici rilevanti ottennero risultati chirurgici
incoraggianti, lamentando però una mortalità del 20,6%.
La rapida riabitazione della carotide dopo la trombosi acuta trova
una sua precisa indicazione anche nelle occlusioni postoperatorie, nelle
quali molto importante ai fini del recupero appare il tempo che intercorre
tra la comparsa dei segni clinici, la diagnosi ed il reintervento. Certamente
gli interventi eseguiti immediatamente dopo la manifestazione dei sintomi,
quando il paziente è ancora in sala operatoria, garantiscono dei
risultati brillanti. Qualora tra il riscontro di un deficit neurologico
al risveglio e l'esecuzione di una angiografia ritenuta necessaria trascorra
qualche ora, il recupero clinico appare molto più problematico.
Kwaan43 riscontrò che su 9 pazienti affetti da occlusione
postendarteriectomia, i tre che furono rioperati massimo entro 45 minuti
ebbero un decorso brillante con completo recupero neurologico, mentre degli
altri 6 che subirono un intervento più tardivo, dopo circa tre ore,
a causa dell'esecuzione di una angiografia, 4 rimasero emiplegici e 2 morirono.
Nei casi in cui appare necessaria l'esecuzione di una angiografia,
il reintervento può essere eseguito con possibilità di successo
se, oltre alla rapidità delle procedure radiologiche e chirurgiche,
appare evidente all'angiografia una buona riabitazione del sifone carotideo
da parte dell'arteria oftalmica o delle comunicanti e una opacizzazione
retrograda del sifone verso il canale carotico.44
Sundt,45 partendo dall'analisi della sua serie di 34 pazienti
sottoposti ad intervento d'urgenza, nella quale vanta risultati favorevoli
nel 38,3% dei casi (13 p.), con una mortalità del 20,6%, ha sottolineato
che per affrontare con buone possibilità di successo un intervento
di disostruzione carotidea in fase acuta sono necessari, anzi fondamentali,
due elementi:
1) escludere con uno studio angiografico l'occlusione embolica dell'arteria
cerebrale media
2) assicurarsi della presenza di un buon circolo di compenso che alimenti
l'area ischemica.
Come detto in precedenza, purtroppo il problema della coesistenza di
lesioni emboliche intracraniche è stato trascurato o sottovalutato
quasi sempre dalla maggior parte degli Autori, per cui non è escluso
che molti degli insuccessi chirurgici riportati in letteratura si siano
avuti in pazienti affetti non solo da trombosi della carotide interna,
ma soprattutto da una contemporanea occlusione dell'arteria cerebrale media
o, più raramente, della cerebrale anteriore. La coesistenza di una
occlusione embolica della cerebrale media rende praticamente vana la disostruzione
della carotide interna poiché il tessuto cerebrale dipendente dall'arteria
silviana, seppure perfuso in periferia dai vasi anastomotici piali, presenta
inevitabilmente una zona centrale di grave sofferenza ipossica destinata
in breve tempo alla necrosi che nemmeno l'aumento della perfusione da parte
dei circoli di compenso è in grado di prevenire.
La presenza di un valido circolo di compenso attraverso le comunicanti
rappresenterebbe, sempre secondo Sundt, il secondo fattore determinante
per porre l'indicazione chirurgica. Infatti un buon transito di sangue
verso la zona ischemica attraverso la comunicante anteriore e la comunicante
posteriore omolaterale, garantirebbe una valida perfusione della zona di
penombra ischemica, preservando molte cellule dai danni irreversibili che
conseguono alle alterazioni della membrana quando il flusso regionale scende
al di sotto di 10 ml/100gr/minuto.
In definitiva Sundt consiglia l'intervento nei pazienti in cui l'esame
angiografico eseguito d'urgenza evidenzi un soddisfacente circolo di compenso
ed escluda ostruzioni emboliche dei vasi intracranici, e sottolinea la
necessità di intervenire in questi casi in tempi molto brevi, al
fine di limitare al massimo lo sviluppo dei fenomeni degenerativi che portano
alla morte il tessuto cerebrale.
Tuttavia, alcune osservazioni vanno fatte alle considerazioni di Sundt.
Innanzitutto va tenuto presente che moltissime trombosi acute rimangono
asintomatiche proprio grazie alla presenza dei circoli di compenso e non
è chiaro perché, in situazioni analoghe, vi sarebbe invece
la comparsa di una sintomatologia neurologica deficitaria grave. In questi
casi non andrebbe esclusa l'ipotesi che la comparsa dei sintomi possa essere
secondaria ad una embolia dell'arteria di Heubner o delle arterie lenticolo-striate
o comunque a una microembolia diffusa delle arterie perforanti, difficilmente
identificabile angiograficamente in situazioni di emergenza. L'efficacia
dell'intervento chirurgico dipenderebbe in questo caso da un miglioramento
dei flussi collaterali nelle aree di confine della zona ischemica.
In secondo luogo non va dimenticato che in presenza di alcune anomalie
morfologiche del poligono di Willis46, la carotide intracranica
può essere quasi completamente isolata dal resto dei vasi cerebrali,
comportandosi in definitiva come un vaso terminale e la sua occlusione
è paragonabile, dal punto di vista clinico, alla occlusione acuta
della cerebrale media (Fig. 3 A-C). Le sole anastomosi
corticali e i collegamenti extra-intracranici non sono sufficienti in questi
casi a garantire un apporto ematico sufficiente al fabbisogno energetico
dell'area ischemica e pertanto l'esordio clinico è naturalmente
brutale e le manifestazioni dell'ischemia coinvolgono praticamente tutto
l'emisfero cerebrale dipendente dalla carotide occlusa.
Tuttavia è però possibile che le anastomosi piali e il
circolo extra-intracranico dell'oftalmica riescano a mantenere per qualche
ora la pressione di perfusione al di sopra dei limiti critici di sopravvivenza
del tessuto cerebrale che è ipoperfuso nella sua globalità,
ma non presenta, come nelle occlusioni della cerebrale media, delle zone
centrali di rapida caduta della pressione di perfusione in cui la necrosi
cellulare si realizza dopo soli pochi minuti. Tutto l'emisfero cerebrale
può comportarsi come una grande zona di penombra ischemica, funzionalmente
inattiva, ma virtualmente recuperabile. La disostruzione della carotide
interna, se effettuata in tempi brevi, potrebbe determinare la riabitazione
di tutto l'albero arterioso con possibilità di recupero funzionale
del parenchima cerebrale (Fig. 4).
In definitiva la terapia chirurgica potrebbe rivelarsi efficace nei
casi di trombosi acuta sintomatica in presenza di anomalie delle comunicanti
che impediscano la perfusione dell'emisfero colpito dall'ischemia da parte
degli altri vasi cerebrali.
La diagnosi dell'occlusione della carotide interna è semplice.
Basta infatti un doppler continuo mono o bidirezionale per definire la
lesione. Ma, ciò che interessa ai fini dell'eventuale trattamento
chirurgico, è conoscere lo stato delle comunicanti e la pervietà
o meno delle arterie cerebrali (Tab. 3).
Indubbiamente il Doppler trans-cranico è un eccellente metodo
non invasivo adatto a definire questo problema. Purtroppo però non
sempre è affidabile in quanto richiede la collaborazione del paziente
che spesso è agitato ed insofferente, non consente sempre di seguire
tutto il percorso della cerebrale anteriore e della cerebrale media, ma
soprattutto, in caso di mancata detezione dei vasi suddetti, non consente
di stabilire se questi siano occlusi da emboli oppure se le comunicanti
siano inefficienti o se la finestra ossea temporale sia inadeguata al passaggio
degli ultrasuoni. Infine la metodica può talvolta divenire lunga
e laboriosa, con una sostanziale perdita di tempo che rende inutile il
vantaggio della non invasività.
Il metodo non invasivo in grado di offrire delle risposte attendibili
è senz'altro la Risonanza magnetica nuclere, che, intanto, consente
una valutazione molto più precoce rispetto alla TAC dello stato
del parenchima cerebrale, ma soprattutto, con le sequenze angiografiche,
offre un'eccellente visione d'insieme dei vasi al collo e di quelli intracranici.
Purtroppo, spesso nelle strutture dove potrebbe essere possibile trattare
d'urgenza i pazienti acuti, l'apparecchiatura non è disponibile.
Poiché in situazioni di urgenza è necessario che le indagini
strumentali siano in grado di garantire una diagnosi rapida e sicura onde
permettere, laddove le condizioni lo consentano, di effettuare l'intervento
chirurgico nel più breve tempo possibile, nella maggior parte dei
centri di neurochirurgia e di chirurgia vascolare si effettua l'angiografia.
Ovviamente lo scopo di quest'esame deve essere rivolto alla documentazione
dello stato dei vasi intracranici e delle comunicanti e pertanto dovrà
essere effettuato studiando selettivamente la carotide controlaterale ntegra
e una vertebrale. In caso di pervietà della comunicante anteriore
si ottiene infatti una buona visualizzazione spontanea dei vasi controlaterali
con conseguente possibilità di individuare uno stop embolico, mentre
in caso di sua inefficienza i vasi dell'emisfero dipendente dalla carotide
occlusa non sono affatto iniettati o lo sono solo modestamente. Stesso
discorso per la comunicante posteriore che alimenta spontaneamente il sifone
carotideo in caso di occlusione della carotide interna, consentendo di
verificare lo stato della cerebrale anteriore e della cerebrale media.
In conclusione, in rapporto a queste considerazioni e alla nostra esperienza,
l'intervento chirurgico di disostruzione della carotide interna in caso
di trombosi acuta può essere eseguito con possibilità di
successo solo in caso di trombosi della carotide interna all'ostio associata
ad inefficienza delle comunicanti e ad assenza di emboli occlusivi delle
arterie cerebrali media e anteriore.
La difficoltà principale che si incontra nella disostruzione
della carotide interna in caso di occlusione acuta dipende dal fatto che
la stasi ematica favorisce frequentemente l'estensione del trombo nella
carotide intracranica fino all'emergenza dell'arteria oftalmica. Il discreto
flusso retrogrado di quest'arteria che viene alimentata dalla carotide
esterna impedisce in genere l'ulteriore progressione del coagulo (Fig.
5).
Particolare attenzione va posta nel garantire una pressione arteriosa
stabile. L'esposizione della biforcazione carotidea viene effettuata con
gli stessi criteri tecnici della TEA di elezione, evitando qualsiasi manipolazione
impropria dell'arteria durante la dissezione per evitare la frantumazione
del trombo. Poiché nella fase acuta dell'occlusione occorre fare
ogni sforzo per garantire un flusso valido a valle dell'occlusione, alcuni
Autori, una volta esposta la biforcazione carotidea, non chiudono la carotide
esterna, ma clampano direttamente la carotide interna alla sua origine
per assicurare il deflusso diretto del sangue dalla carotide comune alla
carotide esterna per garantire il mantenimento dei circoli collaterali
(Fig. 6A). Altri chirurghi, invece, per evitare
la frattura del trombo, all'inizio delle manovre di disostruzione non applicano
alcun clamp sulla carotide interna fino alla eventuale disostruzione (Fig.
6B).
Il trombo comunque va rimosso con attenzione gradualmente, utilizzando
un sottile aspiratore a punta smussa o un catetere di Fogarty che viene
introdotto delicatamente fin dove è possibile ed estratto dopo aver
gonfiato il piccolo palloncino situato al suo apice (Fig.
7A) e sfruttando la spinta esercitata dal flusso retrogrado nella carotide
interna stessa che favorisce l'espulsione del trombo.
Questo catetere va usato con estrema cautela poiché potrebbe
provocare danni seri alla parete della carotide interna o addirittura potrebbe
favorire lo sviluppo di una fistola carotido-cavernosa.
Blaisdell48,49 consiglia la introduzione di soluzioni saline
tra l'intima e il trombo per favorirne il distacco dalla parete e quindi
la sua espulsione, ma questo metodo viene considerato troppo rischioso
a causa delle frequenti embolie che provoca (Fig. 7B).
Imparato49 utilizza un dissettore elicoidale che viene introdotto
sempre tra l'intima e il trombo nella carotide interna fino a raggiungere
il sifone carotideo. Con questa metodica l'Autore è riuscito ad
estrarre completamente il coagulo nel 10% dei casi (Fig.
7C).
Se si riesce ad ottenere la riabitazione dell'arteria dimostrata dalla
comparsa di un soddisfacente flusso refluo, si effettua la TEA e si esegue
un'angiografia intraoperatoria per rilevare l'eventuale presenza di emboli
localizzati nella cerebrale media e verificare lo stato del sifone carotideo
che frequentemente appare coinvolto da un processo ateromatoso grave o
presenta dei flaps intimali liberi che giustificano in fondo i frequenti
insuccessi che conseguono a questo tipo di chirurgia
Quando il tentativo di disostruire chirurgicamente la carotide interna
fallisce a causa dell'eccessiva estensione distale del trombo, è
possibile ricorrere all'uso dei farmaci fibrinolitici per favorire la disgregazione
del coagulo e ottenere la riabitazione dell'arteria.
Il trattamento fibrinolitico a cielo aperto consiste nella introduzione
di 250.000 U.I. di Streptochinasi direttamente nella carotide interna occlusa
dopo il clampaggio del vaso a valle dell'arteriotomia. Il farmaco viene
lasciato agire per circa 20 minuti. Dopo tale periodo la carotide interna
viene declampata e, se il trombo è stato dissolto, si osserva un
valido flusso refluo.
Questo metodo, impiegato con successo da Maiza,50,51 ha
il vantaggio di limitare al massimo i rischi di emorragia cerebrale indotta
dai farmaci fibrinolitici. Infatti la Streptochinasi viene introdotta in
un segmento di arteria completamente escluso dal circolo e quindi non sottoposto
ad alcuna sollecitazione dinamica da parte della colonna sanguigna. Di
conseguenza, anche in caso di rapida dissoluzione del coagulo e riabitazione
del vaso occluso, il farmaco non potrebbe mai essere spinto distalmente
verso il cervello dove la sua potente azione potrebbe favorire lo sviluppo
di emorragie irrefrenabili, ma viene invece eliminato insieme con il sangue
refluo dopo il declampaggio della carotide interna.
Se non si riesce a disostruire l'arteria si può effettuare una
craniotomia pterionale esponendo ampiamente il sifone carotideo previo
demolizione della clinoide anteriore per permettere l'esposizione anche
dell'arteria oftalmica. Si applica quindi un clip sul sifone stesso a monte
della comunicante posteriore e un secondo clip sull'arteria oftamica. Si
pratica quindi una breve arteriotomia sul sifone carotideo lungo l'asse
maggiore e si favorisce la fuoriuscita del coagulo dal segmento intrapetroso
ed intracaverno della carotide interna iniettando con una discreta pressione
soluzione salina eparinata con un catetere introdotto nella carotide interna
al collo. Una volta riabitata la carotide interna, si applica un altro
clip a monte dell'arteriotomia e, dopo aver temporaneamente chiuso la comunicante
posteriore con un piccolo clip, si rimuove il clip precedentemente posto
sul sifone per favorire il deflusso retrogrado del sangue e la fuoriuscita
di eventuali coaguli. Si riapplica il clip e si sutura il sifone. Dopo
aver verificato la tenuta dei punti, si rimuovono tutte le clips lasciando
refluire il sangue per qualche secondo dal cranio verso il collo. Una volta
certi che tutti gli eventuali coaguli sono stati espulsi, si sutura la
carotide interna al collo (Fig. 8).
Talvolta però, dopo l'apertura del sifone carotideo, nonostante
i lavaggi con soluzione eparinata non si riesce a disostruire l'arteria.
In questi casi è possibile effettuare un pontaggio tra la carotide
comune e il sifone carotideo con una greffe venosa o con una protesi conica
in PTFE, dopo aver naturalmente verificato la pervietà del sifone
carotideo a valle della comunicante posteriore (Fig. 9).
Solo raramente non si riesce a riabitare la carotide interna. In questo
caso è opportuno chiudere la carotide interna all'ostio suturandola
per evitare la formazione di un lungo e pericoloso cul di sacco che potrebbe
favorire la trombosi della carotide esterna o l'embolia cerebrale attraverso
l'arteria oftalmica.
In ogni caso conviene effettuare la TEA della carotide esterna per
eliminare ogni eventuale lesione stenosante.
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