Indicazioni chirurgiche
nella vasculopatia
cerebrale acuta

Pasquale Caiazzo, Raffaele Carbone, Ettore Sannino
Neurochirurgia, Osp. civ. Caserta

 
 
Clinica dell'ischemia cerebrale acuta

L'ictus ischemico è caratterizzato dalla brutale comparsa di segni neurologici che conseguono al danno parenchimale prodotto dall'improvvisa caduta della perfusione tessutale, generalmente in seguito alla occlusione di una arteria.
Dal momento dell'arresto del circolo il tessuto cerebrale alimentato dal vaso occluso subisce una serie di modificazioni emodinamiche e metaboliche che conducono inevitabilmente alla morte cellulare.
In alcuni casi l'esordio clinico è caratterizzato dalla comparsa di episodi di ischemia transitoria che si ripetono però ad intervalli sempre più frequenti, con la comparsa ad ogni nuovo episodio di sintomi aggiuntivi, fino alla definitiva compromissione della funzione, dipendente dal danno definitivo del tessuto cerebrale. I "crescendo TIA" sono quasi sempre secondari a emboli multipli che si distaccano dalla superficie di una placca ateromasica complicata che può alla fine provocare l'occlusione della carotide interna.
Altre volte invece si assiste alla comparsa di sintomi neurologici piuttosto modesti che tendono ad aggravarsi progressivamente nel giro di poche ore. Il quadro dello stroke in evolution è talvolta veramente drammatico perché si assiste al graduale deterioramento funzionale del paziente che frequentemente è destinato all'exitus. Le cause di questa forma clinica sono anche in questo caso da ricercarsi molto spesso nella patologia ateromatosa carotidea responsabile di embolie ricorrenti che finiscono con il provocare l'occlusione di uno o più vasi principali intracranici.
Un'altra forma spesso brutale di ischemia cerebrale, nella quale rientra talvolta anche lo stroke in evolution, è quella che gli autori americani definiscono "watershed infarction", cioè l'infarto delle zone di confine tra un territorio vascolare ed un altro in cui l'irrorazione dipende non da una sola arteria, ma da due o tre vasi principali. Questo tipo di infarto, che risente moltissimo dell'integrità dei circoli di compenso,1 rappresenta circa il 10% di tutti gli infarti cerebrali2 ed almeno il 40% di questi infarti si verifica in pazienti affetti da stenosi o occlusione carotidea.3
La zona di confine tra l'arteria cerebrale anteriore e l'arteria cerebrale media corrisponde alla regione fronto-parietale in corrispondenza delle aree deputate alla funzione dell'arto superiore, mentre la zona di confine tra l'arteria cerebrale anteriore, l'arteria cerebrale media e l'arteria cerebrale posteriore è localizzata più posteriormente in corrispondenza della regione parieto-occipitale.
Un infarto cerebrale può interessare proprio una zona di confine in seguito alla occlusione contemporanea di due vasi principali all'interno del cranio (come per esempio in caso di embolie massive),4 durante l'occlusione bilaterale delle carotidi interne nel segmento extracranico o per una stenosi serrata di queste due arterie con conseguente caduta della pressione di perfusione cerebrale per un brusco abbassamento della pressione sanguigna. (Tab. 1A(Tab 1B).
 
 

Fisiopatologia dell'ictus ischemico

In condizioni normali l'encefalo necessita per il proprio fabbisogno energetico di circa 50 ml di sangue al minuto per 100 grammi di tessuto.
Quando il flusso scende al di sotto di 33 ml/min. si manifesta già un iniziale rallentamento dei processi metabolici del cervello che però risponde alla caduta della perfusione con una reazione di adattamento dinamico e metabolico alla nuova situazione (fase dell'oligoemia sec.Baron)5 (Fig. 1).
L'adattamento dinamico è garantito dalla immediata entrata in funzione dei compensi vascolari attraverso la fitta rete anastomotica perilesionale, e dai meccanismi di autoregolazione5-6 grazie ai quali si assiste ad una riduzione delle resistenze periferiche nelle aree ipovascolarizzate per l'effetto vasodilatatore che deriva dall'accumulo di CO2 e che contribuisce a mantenere la perfusione parenchimale.
Quando la vasodilatazione non è più in grado di garantire la perfusione parenchimale, subentra l'adattamento metabolico che determina un aumento dell'estrazione di ossigeno dal sangue circolante passando da un tasso normale di estrazione di O2 del 30-40% ad un tasso dell'80 e anche del 90%5.
Questi meccanismi di compenso consentono alla zona ischemica di salvaguardare l'omeostasi dei neuroni conservando l' elevato gradiente di potassio intracellulare e quello extracellulare di sodio, calcio e ioni cloro, mantenendo la propria vitalità prima di subire dei danni che possono comprometterne definitivamente la funzionalità.
Quando la perfusione regionale scende al di sotto di 18-20 ml/min. compaiono i deficit neurologici. Tuttavia, benché in questo stadio il parenchima cerebrale sia già gravemente compromesso, (come dimostrato dalle gravi anomalie elettriche cerebrali tipiche ed indicative di un incipiente danno cellulare irreversibile), esso non viene ancora considerato irrecuperabile, in quanto l'aumento del flusso cerebrale a valori fisiologici o quasi può far regredire abbastanza prontamente i sintomi (fase della paralisi sec. Baron).
Solo quando il flusso scende al di sotto di 10 ml/min si realizzano danni parenchimali irreversibili che conducono inevitabilmente alla morte cellulare (fase dell'infarto).
A questi livelli si realizza una grave alterazione della omeostasi della membrana cellulare a causa della deplezione di importanti metaboliti ad alta energia, come l'ATP, responsabili del funzionamento della pompa ionica. Mentre aumenta il potassio extracellulare, il sodio ed il cloro si accumulano all'interno delle cellule e, richiamando acqua, provocano il rigonfiamento dei neuroni e della glia (edema citotossico). L'aumento del calcio intracellulare, in parte rilasciato dai mitocondri e dal reticolo endoplasmatico dopo l'ischemia ed in parte proveniente dagli spazi extracellulari (grazie all'azione di alcuni neurotrasmettitori, come il glutamato e l'aspartato, che attivano i canali del calcio favorendone il passaggio attraverso la membrana), determina un significativo incremento del Ca++ libero che attiva le fosfolipasi che attaccano e distruggono le membrane cellulari, preludendo alla morte cellulare. Dalla distruzione delle membrane cellulari viene liberato l'acido arachidonico, un acido grasso che, attraverso gli eicosanoidi e i leucotrieni, radicali liberi tossici prodotti dal suo metabolismo, promuove l'aggregazione piastrinica e la vasocostrizione, amplificando ed aggravando il danno neuronale7.
 

Infarto cerebrale e penombra ischemica

In seguito alla occlusione di un'arteria principale Il parenchima cerebrale perfuso da questo vaso subisce un immediato danno anossico. Il tessuto massimamente colpito dall'anossia è quello corrispondente alla zona centrale del territorio vascolare dipendente dal vaso occluso. La zona periferica, definita di penombra, seppure sofferente per le conseguenze dell'ipossia, rimane discretamente vascolarizzata ed è potenzialmente in grado di riprendere la sua normale funzione una volta che i fenomeni compressivi e le alterazioni vasomotorie regrediscono (Fig. 2). Pertanto, dopo un esordio improvviso ed invalidante, i pazienti che sopravvivono possono presentare un graduale, seppure incompleto recupero delle funzioni.
Il flusso cerebrale nell'area ischemica quindi è variabile nel senso che al centro della lesione esso scende abbastanza rapidamente al di sotto dei 10 ml/100gr/min, mentre in periferia, e cioè nella zona di penombra ischemica,5,8 esso si mantiene al di sopra di questi valori, ma sempre entro livelli critici. Ne consegue che la parte centrale è destinata alla degenerazione cellulare entro pochi minuti dall'evento ischemico, mentre la zona di penombra mantiene ancora una certa vitalità che può essere però compromessa dai fenomeni che subentrano alla degenerazione cellulare.
Il grado di vitalità del parenchima della zona in penombra è in funzione del livello del flusso cerebrale regionale e dipende perciò dalla validità dei circoli di compenso e dalle alterazioni locali conseguenti all'ischemia.
Indubbiamente fin quando i collegamenti tra i vari territori vascolari sono efficaci, le possibilità di sopravvivenza della zona di penombra ischemica sono più alte perché più elevato è il flusso alla periferia dell'area malacica.
Tuttavia il grave rallentamento di flusso che si realizza al centro del territorio malacico ed i meccanismi emocoagulativi che si instaurano in corrispondenza delle aree vascolari danneggiate possono favorire dei fenomeni di trombosi che impediscono materialmente qualsiasi possibilità di riperfusione anche delle zone circostanti alla zona centrale, con conseguente progressivo allargamento in periferia dell'area di necrosi cellulare. La necrosi determina l'alterazione della barriera emato-encefalica che favorisce il passagio di fluidi e proteine fuori del comparto vascolare (anche a causa dell'ipertensione che consegue alla contestuale perdita dell' autoregolazione cerebrale), provocando l'insorgenza dell'edema vasogenico che compromette ulteriormente la perfusione parenchimale e favorisce la degenerazione anche della zona di penombra.
Se l'arteria è stata ostruita da un embolo può accadere che la spinta esercitata dalla corrente sanguigna a monte dell'occlusione riesca a spingere l'embolo stesso più distalmente, riabitando l'arteria prima occlusa. In questi casi, se le strutture vascolari hanno già subito un danno e sono già in via di degenerazione, la riperfusione può causare la rottura di arteriole e capillari, con conseguente fuoriuscita di sangue e trasformazione dell'area ischemica in un'area emorragica. L'infarto emorragico, che si realizza in circa il 60% degli infarti cerebrali, è una tipica lesione embolica e solo eccezionalmente si manifesta in seguito alla occlusione progressiva di un'arteria intracranica da parte di una placca ateromatosa.
 

Indicazioni chirurgiche

I primi lavori sulla chirurgia dell'ictus cerebrale in fase acuta furono particolarmente ottimistici tanto che Denman9 nel 1955 e poi Rob e Wheeler nel 195710 riportarono alcuni casi di pazienti affetti da gravi deficit neurologici subentrati ad un ictus cerebrale ischemico nei quali l'intervento di disostruzione della biforcazione carotidea fu seguito da un completo recupero neurologico. Successivamente invece Breutman11 nel 1963 e Wylie12 nel 1964 segnalarono il rischio di emorragia cerebrale e di decesso in seguito a TEA dopo un infarto recente. Lo stesso Rob13 nel 1969 segnalò una consistente mortalità dopo TEA d'urgenza (circa il 30%), mentre solo 21 pazienti su 125 si beneficiarono dell'intervento.
Nel Joint Study for Extracranial Arterial Occlusive Disease14 fu sottolineato che ritardando l'intervento chirurgico ad almeno due o tre settimane dopo l'episodio ictale si riscontrava una importante riduzione della mortalità che passava dal 42% per interventi effettuati fino a 10 giorni dopo l'ictus all'1,7% per gli interventi effettuati dopo almeno due settimane dall'evento ischemico. Anche le recenti osservazioni di Giordano15 confermano la netta e clamorosa riduzione di mortalità nei pazienti operati dopo 5 settimane. Tuttavia Dosick16 e Whittemore17 hanno sottolineato l'importanza di intervenire precocemente almeno sui pazienti affetti da sintomi neurologici la cui TC del cranio non mostri significative alterazioni parenchimali, al fine di prevenire la comparsa di nuovi episodi embolici nell'attesa della stabilizzazione clinica del focolaio ischemico.
L'ictus cerebrale ischemico provocato da emboli carotidei è accompagnato da una elevata incidenza di recidive anche mortali (10%/anno sec. Sacco18 - 7%/anno sec. McCullough19) poiché le placche ateromasiche degenerate ed ulcerate della biforcazione carotidea rappresentano una fonte potenzialmente continua di emboli e possono inoltre favorire l'improvvisa trombosi acuta della carotide interna.
Il trattamento medico conservativo del crescendo TIA e dello stroke in evolution non è accompagnato da risultati particolarmente incoraggianti come dimostrato dal fatto che i pazienti affetti da questi sintomi e trattati solo medicamente presentano un'incidenza di morbilità del 75% con una mortalità del 14% entro due settimane dall'esordio dei sintomi.20
Un intervento chirurgico di endarteriectomia eseguito in fase acuta in pazienti affetti da sintomi neurologici ricorrenti, in leggera evoluzione oppure definitivi può sicuramente rappresentare un rimedio utile a ridurre l'incidenza di morbilità e mortalità almeno in gruppi selezionati di ammalati.21-22 I pazienti svegli o comunque senza gravi alterazioni dello stato di coscienza, senza significative alterazioni densitometriche o segni di un grave effetto massa sulle strutture della linea mediana alla TC del cranio ed in condizioni generali discrete sono validi candidati all'intervento che è invece assolutamente controindicato in caso di una importante malattia cardio respiratoria, specie uno scompenso congestizio, o di una grave insufficienza renale, nel qual caso si esclude categoricamente ogni indicazione operatoria.
Goldstone e Moore21 trattarono con successo 13 pazienti affetti da stroke in evolution e 8 da crescendo TIA mentre Mentzer22 ottenne un recupero completo in sette pazienti affetti da crescendo TIA e un recupero neurologico significativo in 12 dei 17 pazienti affetti da stroke in evolution ed operati di urgenza. Di questi soltanto uno morì, mentre gli altri 4 presentarono un quadro neurologico sostanzialmente stabile rispetto a quello preoperatorio.
Tuttavia, poiché anche le complicanze postoperatorie sono particolarmente frequenti ed insidiose, conviene, quando possibile, attendere la stabilizzazione del focolaio malacico prima di procedere ad un intervento chirurgico in fase acuta. Se la lesione ateromatosa appare stabile e se il quadro neurologico non presenta oscillazioni peggiorative di rilievo, il paziente può essere monitorizzato e controllato per un periodo di tre - sei settimane, tempo necessario alla stabilizzazione definitiva di un focolaio malacico cerebrale.19,23 Se ci si trova invece di fronte ad una stenosi serrata responsabile di gravi alterazioni dinamiche con un evidente rallentamento del circolo o ad una placca disomogenea con una voluminosa ulcerazione e le variazioni neurologiche lasciano temere un possibile peggioramento secondario o all'occlusione della carotide interna o al distacco di un trombo dalla superficie della placca, il paziente potrà anzi dovrà essere operato.
Nel caso di stenosi, il paziente candidato all'intervento va operato per ripristinare la normale dinamica intracranica ed impedire che l'ipossia cerebrale possa ulteriormente aggravare il danno parenchimale con conseguente aggravamento del deficit neurologico.
Nel caso di placche ulcerate evidentemente lo scopo dell'intervento è quello di prevenire l'ulteriore distacco di emboli e, se possibile, di favorire la fuoriuscita di quei coaguli ancora localizzati nella carotide interna che non abbiano ancora raggiunto i vasi intracranici, sia mediante il deflusso arterioso, sia mediante l'uso del catetere di Fogarty.
 
 

Occlusione acuta della carotide interna

La trombosi acuta della carotide interna può essere la conseguenza di:

1. graduale riduzione del lume arterioso per progressivo ispessimento di una placca ateromasica della biforcazione con conclusiva formazione di un trombo che ostruisce definitivamente e completamente il lume arterioso.
2. brusca degenerazione di una placca ateromasica secondaria ad una emorragia intramuraria con successiva ulcerazione e rapida formazione di un coagulo che ostruisce brutalmente il lume arterioso.
3. rapida formazione di un coagulo su un'area endarteriectomizzata.
4. distacco di un coagulo dalle pareti o dai lembi valvolari del cuore di sinistra che si arresta in corrispondenza dell'ostio della carotide interna occludendolo.

Nel primo caso la lenta trasformazione della placca che conduce all'occlusione è accompagnata da una graduale variazione dei gradienti pressori degli altri tronchi arteriosi che assicurano in genere una sufficiente perfusione al territorio interessato attraverso i circoli anastomotici extra ed intracranici. In queste circostanze l'occlusione è quasi sempre ben tollerata, spesso asintomatica proprio perché il progressivo adattamento alle nuove condizioni dinamiche impedisce la comparsa di un deficit di perfusione e quindi dell'ischemia, spesso anche in presenza di anomalie morfologiche e funzionali del poligono di Willis.
Negli altri casi, invece, l'occlusione della carotide interna avviene in maniera brusca, ed è caratterizzata dall'improvviso, anche se transitorio, arresto del flusso nel territorio dipendente, seguito da una pronta ripresa della perfusione ad opera degli altri tronchi arteriosi attraverso le comunicanti e le anastomosi extra-intracraniche. Naturalmente, poiché nell'occlusione acuta l'adattamento dinamico deve essere necessariamente rapido, se il poligono di Willis è integro, il paziente può rimanere asintomatico o lamentare solo vaghi disturbi transitori, mentre presenterà una sindrome neurologica focale se le arterie comunicanti non sono in grado di assicurare un adeguato compenso alle aree ischemiche.
Talvolta, prima dell'occlusione definitiva della carotide interna, alcuni emboli possono raggiungere i vasi intracranici, occludendoli. In questi casi il quadro clinico di esordio è brutale e l'evoluzione quasi sempre molto grave, anche in presenza di un valido apporto anastomotico da parte delle comunicanti (Tab. 2).
Purtroppo però è spesso difficile dimostrare e documentare in fase acuta l'occlusione embolica di una o più arterie cerebrali in concomitanza dell'occlusione della carotide interna al collo, dal momento che la stessa angiografia selettiva della carotide occlusa evidenzia solo l'arresto del contrasto al limite inferiore dell'occlusione. Certamente le moderne metodiche flussimetriche e di angiorisonanza potrebbero documentare una simile situazione, ma spesso sono lunghe e non rapidamente eseguibili e quindi poco utili per la valutazione estemporanea delle condizioni del circolo cerebrale.
 
 

Clinica e storia naturale della trombosi della carotide interna

Lo studio della storia naturale delle occlusioni carotidee non consente di trarre delle conclusioni significative sulla evoluzione clinica di questa patologia, poiché le casistiche più ampie sul decorso di pazienti affetti da lesioni ischemiche24,25 mancano del fondamentale supporto diagnostico dell'angiografia o almeno del riscontro autoptico.
La prima casistica significativa è quella di McDowell del 196126 in cui sono analizzati i dati relativi a 40 pazienti affetti da occlusione carotidea accertata angiograficamente o all'autopsia. In questo gruppo l'occlusione carotidea si manifestò con un grave deficit neurologico solo in 22 pazienti, mentre negli altri 18 la sintomatologia di esordio era modesta o assente. Dei pazienti sintomatici il 55% (12 paz.) morì in seguito all'evento ischemico, il 41% (9 paz.) presentò dei gravi esiti neurologici invalidanti e solo il 4% (1 paz.) recuperò completamente ogni deficit.
Grillo e Patterson nel 197527 verificarono che su 44 pazienti con occlusione carotidea dimostrata angiograficamente, l'esordio clinico era stato brutale in 26 soggetti mentre gli altri 18 avevano presentato solo segni di ischemia transitoria nel territorio carotideo interessato. La mortalità fu del 16% nelle prime due settimane dopo l'evento ictale.
Una analoga mortalità (9 paz.) è stata riportata da Norrving e Nilsson nel 198128 su 59 casi di occlusione acuta della carotide interna accertata angiograficamente o all'esame autoptico.
L'analisi di questi risultati dimostra che l'occlusione della carotide interna può essere asintomatica o può esordire con una sintomatologia clinica modesta, caratterizzata solo da attacchi ischemici transitori nel 40-45% dei casi. Peraltro l'uso routinario delle indagini non invasive, specie l'Ecodoppler, ha dimostrato che l'incidenza delle occlusioni carotidee asintomatiche o paucisintomatiche è sicuramente più elevata di quella appena indicata.
Il 55- 60% dei pazienti presenta invece un esordio clinico brutale caratterizzato da un ictus definitivo o da uno stroke in evoluzione. In questo gruppo la mortalità oscilla tra il 30 e il 55%, a seconda delle casistiche, la morbilità invalidante intorno al 50%, mentre solo una piccola percentuale di ammalati (dal 2 al 12%) ha un recupero neurologico soddisfacente.
 
 

La chirurgia della trombosi acuta della carotide

La terapia chirurgica dell'occlusione acuta della carotide interna rappresenta ancora oggi un capitolo estremamente controverso.29-34 La scarsa univocità di atteggiamento dipende dalla sostanziale difformità con cui i medici hanno affrontato questo argomento e certamente la mancanza di risultati positivi su larga scala ha contribuito a ridurre gradualmente l'interesse per questo segmento della chirurgia carotidea.
Molto frequentemente infatti la riabitazione di una carotide occlusa è seguita da un peggioramento dei sintomi per la comparsa di una emorragia cerebrale o meglio di un infarto emorragico secondario alla rottura di piccoli vasi nell'area ischemica. Nel 1964 Wilie35 verificò che questa complicanza si era manifestata in 5 dei 9 pazienti sottoposti a TEA per occlusione acuta della carotide interna operati dai tre ai nove giorni dopo l'esordio clinico.
Certamente, alla luce delle recenti esperienze e valutazioni sia cliniche che sperimentali, il trattamento chirurgico eseguito a distanza di molte ore o addirittura di qualche giorno dalla comparsa dei segni neurologici sembra essere molto condizionante, in senso negativo, sul risultato operatorio.
Nel Joint Extracranial Arterial Occlusive Disease Study, Blaisdell36, in una serie di 50 TEA effettuate per occlusione acuta della carotide interna e trattate fino a 13 giorni dopo l'esordio clinico, riscontrò una mortalità oscillante intorno al 40%.
Tuttavia nella decisione terapeutica un ruolo importante è rivestito dalla valutazione del quadro clinico di partenza, poiché è chiaro che pazienti affetti da deficit gravi e da alterazioni dello stato di coscienza presentano una mortalità molto elevata, indipendentemente dal tipo di trattamento.
Thompson37 riscontrò una elevata mortalità tra i pazienti affetti da deficit gravi e ne sconsigliava il trattamento chirurgico perché considerava improbabile che l'intervento potesse favorire un significativo recupero neurologico. Analogo fu l'orientamento di Ojemann38 e DeWeese39 contrari all'intervento per deficit gravi ed improvvisi, specie se accompagnati da compromissione dello stato di coscienza, mentre consideravano chirurgici quei pazienti affetti da occlusione acuta della carotide interna che presentassero deficit neurologici di modesta entità.
La possibilità di intervenire molto precocemente dopo l'occlusione e dopo la comparsa dei sintomi offre però un significativo vantaggio nei risultati. In effetti quei pazienti operati rapidamente perché subito trasportati presso strutture organizzate per una diagnosi precoce e con un'equipe chirurgica all'altezza, o perché già ricoverati per una stenosi preocclusiva carotidea trasformatasi in occlusione durante la degenza, o perché l'occlusione carotidea si sviluppa in seguito ad un esame angiografico, presentano una mortalità operatoria molto bassa e soprattutto un indice di miglioramento particolarmente elevato.
Hafner e Tew40 sostennero l'opportunità di operare entro due ore dall'esordio clinico anche pazienti affetti da gravi deficit neurologici sulla scorta di tre casi di occlusione risoltisi favorevolmete dopo un intervento molto precoce.
Najafi41 su 15 TEA eseguite dopo un'occlusione subentrata ad un esame angiografico e responsabile di deficit neurologici significativi, ha riscontrato un miglioramento clinico nel 53% (8 paz.) dei pazienti contro il 33% di risultati negativi tra i quali la mortalità rappresentava solo il 6% (1 paz.). In cinque pazienti operati d'urgenza per la scomparsa di un soffio carotideo ottenne un risultato favorevole in tutti i casi.
Meyer e Sundt42 su 34 pazienti già ricoverati di cui 33 affetti da deficit neurologici rilevanti ottennero risultati chirurgici incoraggianti, lamentando però una mortalità del 20,6%.
La rapida riabitazione della carotide dopo la trombosi acuta trova una sua precisa indicazione anche nelle occlusioni postoperatorie, nelle quali molto importante ai fini del recupero appare il tempo che intercorre tra la comparsa dei segni clinici, la diagnosi ed il reintervento. Certamente gli interventi eseguiti immediatamente dopo la manifestazione dei sintomi, quando il paziente è ancora in sala operatoria, garantiscono dei risultati brillanti. Qualora tra il riscontro di un deficit neurologico al risveglio e l'esecuzione di una angiografia ritenuta necessaria trascorra qualche ora, il recupero clinico appare molto più problematico.
Kwaan43 riscontrò che su 9 pazienti affetti da occlusione postendarteriectomia, i tre che furono rioperati massimo entro 45 minuti ebbero un decorso brillante con completo recupero neurologico, mentre degli altri 6 che subirono un intervento più tardivo, dopo circa tre ore, a causa dell'esecuzione di una angiografia, 4 rimasero emiplegici e 2 morirono.
Nei casi in cui appare necessaria l'esecuzione di una angiografia, il reintervento può essere eseguito con possibilità di successo se, oltre alla rapidità delle procedure radiologiche e chirurgiche, appare evidente all'angiografia una buona riabitazione del sifone carotideo da parte dell'arteria oftalmica o delle comunicanti e una opacizzazione retrograda del sifone verso il canale carotico.44
Sundt,45 partendo dall'analisi della sua serie di 34 pazienti sottoposti ad intervento d'urgenza, nella quale vanta risultati favorevoli nel 38,3% dei casi (13 p.), con una mortalità del 20,6%, ha sottolineato che per affrontare con buone possibilità di successo un intervento di disostruzione carotidea in fase acuta sono necessari, anzi fondamentali, due elementi:

1) escludere con uno studio angiografico l'occlusione embolica dell'arteria cerebrale media
2) assicurarsi della presenza di un buon circolo di compenso che alimenti l'area ischemica.

Come detto in precedenza, purtroppo il problema della coesistenza di lesioni emboliche intracraniche è stato trascurato o sottovalutato quasi sempre dalla maggior parte degli Autori, per cui non è escluso che molti degli insuccessi chirurgici riportati in letteratura si siano avuti in pazienti affetti non solo da trombosi della carotide interna, ma soprattutto da una contemporanea occlusione dell'arteria cerebrale media o, più raramente, della cerebrale anteriore. La coesistenza di una occlusione embolica della cerebrale media rende praticamente vana la disostruzione della carotide interna poiché il tessuto cerebrale dipendente dall'arteria silviana, seppure perfuso in periferia dai vasi anastomotici piali, presenta inevitabilmente una zona centrale di grave sofferenza ipossica destinata in breve tempo alla necrosi che nemmeno l'aumento della perfusione da parte dei circoli di compenso è in grado di prevenire.
La presenza di un valido circolo di compenso attraverso le comunicanti rappresenterebbe, sempre secondo Sundt, il secondo fattore determinante per porre l'indicazione chirurgica. Infatti un buon transito di sangue verso la zona ischemica attraverso la comunicante anteriore e la comunicante posteriore omolaterale, garantirebbe una valida perfusione della zona di penombra ischemica, preservando molte cellule dai danni irreversibili che conseguono alle alterazioni della membrana quando il flusso regionale scende al di sotto di 10 ml/100gr/minuto.
In definitiva Sundt consiglia l'intervento nei pazienti in cui l'esame angiografico eseguito d'urgenza evidenzi un soddisfacente circolo di compenso ed escluda ostruzioni emboliche dei vasi intracranici, e sottolinea la necessità di intervenire in questi casi in tempi molto brevi, al fine di limitare al massimo lo sviluppo dei fenomeni degenerativi che portano alla morte il tessuto cerebrale.
Tuttavia, alcune osservazioni vanno fatte alle considerazioni di Sundt. Innanzitutto va tenuto presente che moltissime trombosi acute rimangono asintomatiche proprio grazie alla presenza dei circoli di compenso e non è chiaro perché, in situazioni analoghe, vi sarebbe invece la comparsa di una sintomatologia neurologica deficitaria grave. In questi casi non andrebbe esclusa l'ipotesi che la comparsa dei sintomi possa essere secondaria ad una embolia dell'arteria di Heubner o delle arterie lenticolo-striate o comunque a una microembolia diffusa delle arterie perforanti, difficilmente identificabile angiograficamente in situazioni di emergenza. L'efficacia dell'intervento chirurgico dipenderebbe in questo caso da un miglioramento dei flussi collaterali nelle aree di confine della zona ischemica.
In secondo luogo non va dimenticato che in presenza di alcune anomalie morfologiche del poligono di Willis46, la carotide intracranica può essere quasi completamente isolata dal resto dei vasi cerebrali, comportandosi in definitiva come un vaso terminale e la sua occlusione è paragonabile, dal punto di vista clinico, alla occlusione acuta della cerebrale media (Fig. 3 A-C). Le sole anastomosi corticali e i collegamenti extra-intracranici non sono sufficienti in questi casi a garantire un apporto ematico sufficiente al fabbisogno energetico dell'area ischemica e pertanto l'esordio clinico è naturalmente brutale e le manifestazioni dell'ischemia coinvolgono praticamente tutto l'emisfero cerebrale dipendente dalla carotide occlusa.
Tuttavia è però possibile che le anastomosi piali e il circolo extra-intracranico dell'oftalmica riescano a mantenere per qualche ora la pressione di perfusione al di sopra dei limiti critici di sopravvivenza del tessuto cerebrale che è ipoperfuso nella sua globalità, ma non presenta, come nelle occlusioni della cerebrale media, delle zone centrali di rapida caduta della pressione di perfusione in cui la necrosi cellulare si realizza dopo soli pochi minuti. Tutto l'emisfero cerebrale può comportarsi come una grande zona di penombra ischemica, funzionalmente inattiva, ma virtualmente recuperabile. La disostruzione della carotide interna, se effettuata in tempi brevi, potrebbe determinare la riabitazione di tutto l'albero arterioso con possibilità di recupero funzionale del parenchima cerebrale (Fig. 4).
In definitiva la terapia chirurgica potrebbe rivelarsi efficace nei casi di trombosi acuta sintomatica in presenza di anomalie delle comunicanti che impediscano la perfusione dell'emisfero colpito dall'ischemia da parte degli altri vasi cerebrali.
La diagnosi dell'occlusione della carotide interna è semplice. Basta infatti un doppler continuo mono o bidirezionale per definire la lesione. Ma, ciò che interessa ai fini dell'eventuale trattamento chirurgico, è conoscere lo stato delle comunicanti e la pervietà o meno delle arterie cerebrali (Tab. 3).
Indubbiamente il Doppler trans-cranico è un eccellente metodo non invasivo adatto a definire questo problema. Purtroppo però non sempre è affidabile in quanto richiede la collaborazione del paziente che spesso è agitato ed insofferente, non consente sempre di seguire tutto il percorso della cerebrale anteriore e della cerebrale media, ma soprattutto, in caso di mancata detezione dei vasi suddetti, non consente di stabilire se questi siano occlusi da emboli oppure se le comunicanti siano inefficienti o se la finestra ossea temporale sia inadeguata al passaggio degli ultrasuoni. Infine la metodica può talvolta divenire lunga e laboriosa, con una sostanziale perdita di tempo che rende inutile il vantaggio della non invasività.
Il metodo non invasivo in grado di offrire delle risposte attendibili è senz'altro la Risonanza magnetica nuclere, che, intanto, consente una valutazione molto più precoce rispetto alla TAC dello stato del parenchima cerebrale, ma soprattutto, con le sequenze angiografiche, offre un'eccellente visione d'insieme dei vasi al collo e di quelli intracranici. Purtroppo, spesso nelle strutture dove potrebbe essere possibile trattare d'urgenza i pazienti acuti, l'apparecchiatura non è disponibile.
Poiché in situazioni di urgenza è necessario che le indagini strumentali siano in grado di garantire una diagnosi rapida e sicura onde permettere, laddove le condizioni lo consentano, di effettuare l'intervento chirurgico nel più breve tempo possibile, nella maggior parte dei centri di neurochirurgia e di chirurgia vascolare si effettua l'angiografia. Ovviamente lo scopo di quest'esame deve essere rivolto alla documentazione dello stato dei vasi intracranici e delle comunicanti e pertanto dovrà essere effettuato studiando selettivamente la carotide controlaterale ntegra e una vertebrale. In caso di pervietà della comunicante anteriore si ottiene infatti una buona visualizzazione spontanea dei vasi controlaterali con conseguente possibilità di individuare uno stop embolico, mentre in caso di sua inefficienza i vasi dell'emisfero dipendente dalla carotide occlusa non sono affatto iniettati o lo sono solo modestamente. Stesso discorso per la comunicante posteriore che alimenta spontaneamente il sifone carotideo in caso di occlusione della carotide interna, consentendo di verificare lo stato della cerebrale anteriore e della cerebrale media.
In conclusione, in rapporto a queste considerazioni e alla nostra esperienza, l'intervento chirurgico di disostruzione della carotide interna in caso di trombosi acuta può essere eseguito con possibilità di successo solo in caso di trombosi della carotide interna all'ostio associata ad inefficienza delle comunicanti e ad assenza di emboli occlusivi delle arterie cerebrali media e anteriore.
 
 

La TEA d'Urgenza

La difficoltà principale che si incontra nella disostruzione della carotide interna in caso di occlusione acuta dipende dal fatto che la stasi ematica favorisce frequentemente l'estensione del trombo nella carotide intracranica fino all'emergenza dell'arteria oftalmica. Il discreto flusso retrogrado di quest'arteria che viene alimentata dalla carotide esterna impedisce in genere l'ulteriore progressione del coagulo (Fig. 5).
Particolare attenzione va posta nel garantire una pressione arteriosa stabile. L'esposizione della biforcazione carotidea viene effettuata con gli stessi criteri tecnici della TEA di elezione, evitando qualsiasi manipolazione impropria dell'arteria durante la dissezione per evitare la frantumazione del trombo. Poiché nella fase acuta dell'occlusione occorre fare ogni sforzo per garantire un flusso valido a valle dell'occlusione, alcuni Autori, una volta esposta la biforcazione carotidea, non chiudono la carotide esterna, ma clampano direttamente la carotide interna alla sua origine per assicurare il deflusso diretto del sangue dalla carotide comune alla carotide esterna per garantire il mantenimento dei circoli collaterali (Fig. 6A). Altri chirurghi, invece, per evitare la frattura del trombo, all'inizio delle manovre di disostruzione non applicano alcun clamp sulla carotide interna fino alla eventuale disostruzione (Fig. 6B).
Il trombo comunque va rimosso con attenzione gradualmente, utilizzando un sottile aspiratore a punta smussa o un catetere di Fogarty che viene introdotto delicatamente fin dove è possibile ed estratto dopo aver gonfiato il piccolo palloncino situato al suo apice (Fig. 7A) e sfruttando la spinta esercitata dal flusso retrogrado nella carotide interna stessa che favorisce l'espulsione del trombo.
Questo catetere va usato con estrema cautela poiché potrebbe provocare danni seri alla parete della carotide interna o addirittura potrebbe favorire lo sviluppo di una fistola carotido-cavernosa.
Blaisdell48,49 consiglia la introduzione di soluzioni saline tra l'intima e il trombo per favorirne il distacco dalla parete e quindi la sua espulsione, ma questo metodo viene considerato troppo rischioso a causa delle frequenti embolie che provoca (Fig. 7B).
Imparato49 utilizza un dissettore elicoidale che viene introdotto sempre tra l'intima e il trombo nella carotide interna fino a raggiungere il sifone carotideo. Con questa metodica l'Autore è riuscito ad estrarre completamente il coagulo nel 10% dei casi (Fig. 7C).
Se si riesce ad ottenere la riabitazione dell'arteria dimostrata dalla comparsa di un soddisfacente flusso refluo, si effettua la TEA e si esegue un'angiografia intraoperatoria per rilevare l'eventuale presenza di emboli localizzati nella cerebrale media e verificare lo stato del sifone carotideo che frequentemente appare coinvolto da un processo ateromatoso grave o presenta dei flaps intimali liberi che giustificano in fondo i frequenti insuccessi che conseguono a questo tipo di chirurgia
 

La fibrinolisi intraarteriosa

Quando il tentativo di disostruire chirurgicamente la carotide interna fallisce a causa dell'eccessiva estensione distale del trombo, è possibile ricorrere all'uso dei farmaci fibrinolitici per favorire la disgregazione del coagulo e ottenere la riabitazione dell'arteria.
Il trattamento fibrinolitico a cielo aperto consiste nella introduzione di 250.000 U.I. di Streptochinasi direttamente nella carotide interna occlusa dopo il clampaggio del vaso a valle dell'arteriotomia. Il farmaco viene lasciato agire per circa 20 minuti. Dopo tale periodo la carotide interna viene declampata e, se il trombo è stato dissolto, si osserva un valido flusso refluo.
Questo metodo, impiegato con successo da Maiza,50,51 ha il vantaggio di limitare al massimo i rischi di emorragia cerebrale indotta dai farmaci fibrinolitici. Infatti la Streptochinasi viene introdotta in un segmento di arteria completamente escluso dal circolo e quindi non sottoposto ad alcuna sollecitazione dinamica da parte della colonna sanguigna. Di conseguenza, anche in caso di rapida dissoluzione del coagulo e riabitazione del vaso occluso, il farmaco non potrebbe mai essere spinto distalmente verso il cervello dove la sua potente azione potrebbe favorire lo sviluppo di emorragie irrefrenabili, ma viene invece eliminato insieme con il sangue refluo dopo il declampaggio della carotide interna.
Se non si riesce a disostruire l'arteria si può effettuare una craniotomia pterionale esponendo ampiamente il sifone carotideo previo demolizione della clinoide anteriore per permettere l'esposizione anche dell'arteria oftalmica. Si applica quindi un clip sul sifone stesso a monte della comunicante posteriore e un secondo clip sull'arteria oftamica. Si pratica quindi una breve arteriotomia sul sifone carotideo lungo l'asse maggiore e si favorisce la fuoriuscita del coagulo dal segmento intrapetroso ed intracaverno della carotide interna iniettando con una discreta pressione soluzione salina eparinata con un catetere introdotto nella carotide interna al collo. Una volta riabitata la carotide interna, si applica un altro clip a monte dell'arteriotomia e, dopo aver temporaneamente chiuso la comunicante posteriore con un piccolo clip, si rimuove il clip precedentemente posto sul sifone per favorire il deflusso retrogrado del sangue e la fuoriuscita di eventuali coaguli. Si riapplica il clip e si sutura il sifone. Dopo aver verificato la tenuta dei punti, si rimuovono tutte le clips lasciando refluire il sangue per qualche secondo dal cranio verso il collo. Una volta certi che tutti gli eventuali coaguli sono stati espulsi, si sutura la carotide interna al collo (Fig. 8).
Talvolta però, dopo l'apertura del sifone carotideo, nonostante i lavaggi con soluzione eparinata non si riesce a disostruire l'arteria. In questi casi è possibile effettuare un pontaggio tra la carotide comune e il sifone carotideo con una greffe venosa o con una protesi conica in PTFE, dopo aver naturalmente verificato la pervietà del sifone carotideo a valle della comunicante posteriore (Fig. 9).
Solo raramente non si riesce a riabitare la carotide interna. In questo caso è opportuno chiudere la carotide interna all'ostio suturandola per evitare la formazione di un lungo e pericoloso cul di sacco che potrebbe favorire la trombosi della carotide esterna o l'embolia cerebrale attraverso l'arteria oftalmica.
In ogni caso conviene effettuare la TEA della carotide esterna per eliminare ogni eventuale lesione stenosante.
 

 
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