DUE VOCI 
     
MASSIMO CARUBELLI
           &
ANNA MARIA PANTALONI

( "Over the reinbow" è un piccolo omaggio per quanti, nonostante tutto, al mondo di OZ continuano a credere. )

 

STORIE DI SOGNI, RICORDI E FANTASIE  

    

Raccontare è sempre per raccontarsi,
anche quando si parla di luoghi lontani, 
di situazioni fantastiche, 
di personaggi immaginari, 
è di noi che parliamo, dei nostri sogni, delle nostre speranze, di ciò che è stato 
o di ciò che avremmo voluto che fosse.

E lo facciamo perché qualcuno ci ascolti e,
 forse, possa capire.

 

 

 

 

 

Il faro

È la quarta volta che sposto il sedere indolenzito sul grosso masso piatto, cercando inutilmente una posizione più comoda. È terribilmente duro e ruvido!
Faccio questi movimenti senza smettere di fissare, con sguardo allucinato, l’orizzonte di canne giallastre che unisce l’acqua immobile delle saline al cielo azzurro metallico della Camargue. Forza! È da un’ora che sto il quel punto del nulla! Guardo un’altra volta la strada che ho fatto: bianca, dritta, polverosa. Poi guardo quella che dovrei ancora fare: bianca, dritta, polverosa.
Sono depresso, indolenzito, sudato e la rabbia ormai è senza controllo.
Mi rimetto in piedi buttando sulla spalla la sacca di cuoio che contiene un cambio di vestiti; al primo bruciore per lo sfregamento della cinghia impreco contro Roberto, i suoi appuntamenti da fumato, ma soprattutto contro la mia stupidità per avergli dato ascolto.
Solo poche ore prima stavo in un piccolo ed accogliente albergo di Arles a gustarmi la colazione servita nel giardino interno. Fragranti croissants ripieni di marmellata, una tazzona di caffè ed un tripudio di piante, felci ed ortensie colorate grandi come cavolfiori.
Avrei dovuto leggere nell’andatura del padrone, che mi portava una lettera, il passo claudicante di un destino infausto e nel suo sorriso il ghigno della morte.
Avrei!
Invece l’ ho ringraziato, ho aperto la busta ed ho letto quella che sarebbe stata la mia condanna all’esilio in un buco fatto di saline semi abbandonate, canne, acqua e cielo grigio piombo, zanzare e caldo.
La Camargue insomma.
Vieni a Saintes Maries de la mer! – c’era scritto – c’è un movimento fantastico! Molla i tuoi monumenti e le tue abbazie, qui c’è la vita! –
La vita.
Mi guardo attorno, una lucertola corre tra i fili d’erba sbiaditi sul ciglio della strada, un paio di gabbiani fanno continui giri sugli stagni e nella polvere della strada si leggono le “s” lasciate dal passaggio di una biscia.
Un viaggio, questo nella Provenza, che avevo deciso per percorrere in senso opposto le strade affollate dal turismo sudaticcio d’agosto. Volevo camminare tranquillamente per le strade di Avignone, leggere le architetture mediterranee di Aix-en-Provance e godermi il tramonto davanti al Duomo di Orange. Ma, soprattutto, volevo respirare l’aria che aveva respirato Van Gogh. Vedere quei paesaggi che gli avevano ispirato quadri meravigliosi e vibranti di vita e di colori.
Mentre la fame comincia a procurarmi leggeri crampi, inevitabilmente, penso alla sera prima: seduto ad un tavolo dell’Escaladou, ed al delizioso “filet mignon à la crème” accompagnato da un profumato rosé suggerito dal padrone, il signor Signoret. E pensare che avevo deciso di tornarci per assaggiare la tanto decantata “Bouillabaisse”!
Certamente l’errore era stato tutto mio; nella fretta avevo capito male quale autobus dovevo prendere ed ero salito su uno che si dirigeva verso Montpelier. Quando mi sono accorto dell’errore ho deciso di scendere a St. Gilles per cercare un mezzo che mi portasse nella direzione giusta. Una famiglia su un enorme camper mi ha dato un passaggio per un certo tratto ma poi li ho dovuti lasciare perché le nostre strade si separavano.
Le riflessioni sul mio recentissimo passato mi aiutano a continuare quel rettilineo da incubo e quasi non mi fanno sentire il rumore di un’auto che viene dalle mie spalle.
Quando finalmente la mia mente lo registra mi volto e mi piazzo in mezzo alla strada pronto a morire sotto le ruote piuttosto che continuare a piedi.
Lentamente mi raggiunge un vecchio furgone Citroën, uno di quelli squadrati simili alle auto anni ’920 con un cofano corto e tozzo ed il parabrezza quasi verticale.
Il guidatore è perfettamente intonato al mezzo: anziano, con la faccia rugosa e cotta dal sole, i capelli bianchi scompigliati, canottiera foracchiata e un po’ lurida ed una sigaretta penzolante dalla sinistra della bocca. A giudicare dall’odore una Gitane.
Si protende verso di me e attraverso il finestrino del passeggero mi dice una sola parola
        Problems?-
Salto su prima ancora di rispondere e quando il mezzo riprende faticosamente la marcia gli espongo la situazione.
La sua risposta quasi mi uccide.
Saintes Maries sta dalla parte opposta, noi adesso ci stiamo dirigendo verso Aigues Mortes. Non riesco ad ammirare la bellezza dell’antica lingua provenzale, quello che mi colpisce è la parola “morte”.
Decido di risolvere la questione nel modo più semplice: mi trovo un albergo, mi faccio una prolungata doccia, una cena magari a base di pesce e domani noleggio un’auto per tornare alla civiltà.
L’uomo mi fissa un attimo, tiene un occhio semi chiuso per il fumo della sigaretta, poi riporta lo sguardo alla strada e dice – Rien d’hotels ici – il silenzio è diventato di piombo. Dopo una lunga riflessione aggiunge – Il y a le peintre au phare de la Gacholle – dice pittore come se dicesse albergo Miramare, anzi non un pittore ma “il” Pittore. Il suo tono è tale da farmi capire che non devo più parlare, lo ringrazio e chiudo gli occhi, intorpidito dal caldo e dal sonno.
A risvegliarmi è il suono straziante dei freni ed il contraccolpo della fermata brusca.
Il mio salvatore mi indica qualcosa fuori dal finestrino dicendo – Le phare – ed aspetta che io scenda. Afferrato il mio sacco esco dal furgone e guardo verso il punto indicatomi. In cima ad una rupe sul mare c’è una costruzione possente, certamente una antica torre di avvistamento dei pirati saraceni, come se ne trovano tante lungo le coste  francesi, italiane e spagnole; ampliata rispetto al disegno originale, tutta dipinta di bianco e sovrastata dalla lanterna di un faro di segnalazione Quando mi volto per ringraziare mi accorgo che il vecchio mezzo si è già rimesso in moto lasciandomi solo ai piedi del sentiero che porta all’edificio.
Busso ad una piccola porta dipinta di azzurro ai piedi della torre, lo faccio per quasi dieci minuti; quando sto per allontanarmi con l’intenzione di girare attorno alla costruzione in cerca di qualcuno, sento una voce con l’accento strascicato del midì – Jariveee – con buona pace per il resto del verbo.
L’uomo che mi viene ad aprire è più o meno sulla settantina, i capelli bianchi sono folti e lunghi con un accenno di riga in mezzo alla testa, gli occhi sono di un bellissimo azzurro intenso circondati da tante rughe che suggeriscono la loro propensione al sorriso, ha zigomi molto pronunciati ed una barba lunga di tre o quattro giorni, il mento molto forte ed allungato ha una profonda fossetta al centro. Gli occhi e la fossetta sono ciò che attira immediatamente la mia attenzione.
Sto per parlare, ma lui mi precede – Problemi vero? È sempre così. Quando qualcuno si perde in questa landa desolata finisce davanti alla mia porta. Come i pezzi di legno portati dalle correnti marine si arenano sempre nello stesso punto! Entrate prego –
Lo seguo nel piccolo vestibolo quasi buio dopo il chiarore abbacinante dell’esterno, alla parete di fronte c’è un attaccapanni di legno a cui sono appesi una giacca di velluto ed un impermeabile da pescatore norvegese nero con relativo cappello a tese larghe. Butto la sacca sul pavimento vicino ad un paio di grossi stivali di gomma e seguo il mio ospite su per una stretta scala che segue il perimetro curvo del muro, dopo un’infinità di gradini rotti e consunti dall’uso arriviamo ad una grande stanza illuminata da un finestrone fortemente strombato. Il pavimento è di cotto vecchio, un po’ sconnesso ma lucido, di fronte alla scala c’è una parete che certamente divide la pianta circolare della torre lungo il suo diametro; sulla parete si aprono un enorme camino ed una porta, dalla stanza parte un’altra scala che prima porta ad un soppalco di grandi travi di legno scuro e poi prosegue scomparendo nell’alto soffitto a vele. L’arredo è costituito da un tavolo sormontato da una lastra di marmo e quattro sedie impagliate, un fornello su un lungo ripiano la cui base è coperta da un’incerata a quadretti, una credenza provenzale con la vetrina colorata e un vecchio frigorifero di cui non si legge più la marca; vicino al camino un divano ed una poltrona ricoperti da una stoffa a piccoli disegni floreali. Ciò che, però, cattura la mia attenzione è l’enorme quantità di quadri piccoli e grandi appesi alle pareti, non c’è un metro di muro libero e sono tutti paesaggi. Paesaggi marini, canali fra intrichi di canne, barche da pesca in secca e reti appese ad asciugare, vedute e scorci di città, di paesi, strade di vecchi villaggi e viottoli che serpeggiano nella campagna, ponti, fiumi, boschi e campi arati, albe, tramonti e notturni. In molti compaiono figure umane, personaggi che popolano quei riquadri di vita; piccoli, visti in lontananza, sono accennati con colpi esatti di pennello ed vibrano pieni di movimento.

- Penso che si vorrà dare una rinfrescata dopo tutto quel caldo – la voce del vecchio mi aiuta a distogliere gli occhi dal quel caleidoscopio – Si grazie – e lo seguo verso la porta. Entriamo in una piccola stanza quadrata le cui pareti sono costituite da armadi; ci sono altre due porte: una davanti a quella da cui sono appena entrato e l’altra sulla mia destra. Lui mi indica quest’ultima dicendomi – Troverà tutto il necessario per lavarsi, quando ha finito torni che prepariamo la cena. Ah! L’acqua sporca la può buttare dalla finestra – Dentro trovo una vecchia vasca da bagno smaltata e con i piedi a forma di zampa di leone, un pitale ed una bacinella poggiata su un supporto di ferro dipinto di azzurro. Un piccolo specchio ovale e alcuni asciugamani appesi ad un chiodo. Alla base del supporto c’è una bella brocca di ceramica, dipinta con grandi rose, piena d’acqua, sulla parete di fondo una piccola finestrella quadrata.

Dopo essermi lavato ritorno nella stanza del camino e lo vedo trafficare tra il tavolo e i fornelli – Le piace il coniglio in fricassea? – ci metto un minuto a tradurre dal suo francese molto accentato il piatto che ha intenzione di cucinare: le lapin en fricassèe. E’ una caratteristica della Francia meridionale mangiarsi parte dei verbi di una frase. Comunque sia, la fame mi afferra lo stomaco di colpo - La ringrazio! Mi piace! Si certo mi piace molto – rispondo dopo aver deglutito un paio di volte.
Lì c’è un bicchierino di Pastis freddo per lei – dice indicandomi un piccolo bicchiere di vetro spesso, pieno di un liquido lattiginoso – Si sieda e mi racconti la sua storia. 
Mi siedo al tavolo e mentre cucina gli racconto quanto mi è successo sorseggiando la bevanda all’anice. Smette per un attimo di affettare la cipolla e sorridendo mi dice - Non si preoccupi sono in molti a perdersi in questo dedalo di strade e le indicazioni non aiutano. Adesso pensiamo a riempire lo stomaco, poi passerà la notte sul divano e domani l’accompagnerò ad Arles; tanto ci dovevo andare per fare un po’ di acquisti – si volta verso i fornelli per controllare come procede la rosolatura del coniglio – Il vero segreto nel cucinare questo tipo di carne sta tutto nella rosolatura – parla, mentre lavora, quasi a se stesso - Deve dorare dolcemente con un fuoco né alto, né basso. Vivace insomma! Quando comincia a dorare si sala. Mai prima! Altrimenti il povero animale si secca e non è in grado di assorbire i sapori del condimento. Dopo una salatura decente si dà una leggera spolverata di pepe. A questo punto inizia il lavoro vero. Si aggiunge la cipolla affettata molto sottile ed uno, non più di due, spicchi di aglio schiacciati. Poi, quando la cipolla comincia ad essere trasparente ed ingiallire, si versa del vino bianco. Un bicchiere. Poco per volta in modo che il suo profumo penetri nel coniglio e contemporaneamente faccia macerare la cipolla. Solo alla fine di questa operazione si versa il brodo, una tazza e mezza – e mi mostra una tazza azzurra su cui è dipinto un paperotto – Si porta il brodo ad ebollizione e poi si abbassa la fiamma coprendo la padella. Mai distrarsi però, si deve girare continuamente. Ecco fatto! Adesso apparecchiamo la tavola –

Mi offro di aiutarlo e lui indica la credenza – Lì troverà tutto – Prendo un paio di piatti, due bicchieri di vetro azzurro e in un cassetto trovo le posate. Il vecchio tira fuori da una borsa di tela una baguette e la taglia a grosse fette, mettendole in un cestino di vimini al centro della tavola assieme ad un piattino col burro insaporito alle erbe, per ultimo porta in tavola una bottiglia di vino rosso che ha tirato fuori da uno dei ripiani bassi della credenza.
Perfetto! Il brodo si è asciugato. Ecco vede come la cipolla si è sciolta bene, adesso il tocco dell’artista! – nella stessa tazza dove prima c’era il brodo, apre due uova e le sbatte rapidamente; poi prende un limone e lo spreme – Questo è il momento in cui bisogna essere rapidi e decisi. Prima si versa il limone e si alza la fiamma in modo che il succo si consumi per metà. Appena consumato si deve versare l’uovo sbattuto, spegnere il fuoco e girare il tutto rapidamente. Ça va! - esclama – a tavola! –
Consumiamo il pasto in silenzio mentre, fuori, la luce del giorno comincia a tingersi di rosso. Ad un certo punto l’uomo poggia la forchetta e mi dice che deve fare un piccolo lavoro, se voglio posso accompagnarlo. Certo – rispondo – e lo seguo su per la scala che porta al piano superiore.
Passando per il soppalco vedo che è un studio di pittura: un grande cavalletto verticale scafali pieni di fogli e libri, un tavolo ingombro di colori, vasetti pieni di pennelli, matite e pastelli, in un angolo una poltrona di cuoio piena di protuberanze su cui è buttato un grosso plaid scozzese. Continuiamo la salita penetrando in un cunicolo ricavato nello spessore del muro malamente illuminato da piccole feritoie a gola di lupo. Arriviamo alla terrazza su cui è stata costruita la lanterna del faro. Appena entrati, il padrone di casa comincia ad armeggiare con interruttori e pomelli neri.
Tanto per dire qualcosa io gli chiedo come mai continua a far funzionare il faro dal momento che, oggi, tutte le imbarcazioni sono dotate di sistemi di navigazione satellitare, radar e sonar. Senza smettere il suo lavoro mi risponde che è vero, oggi non c’è più bisogno dei fari, ma lui l’accende perché c’è sempre qualcuno che potrebbe desiderare di ritrovare la strada persa tanto tempo prima. In un primo tempo penso di non aver capito per via della lingua, poi mi accorgo che la risposta è proprio quella       < qualcuno che potrebbe desiderare di ritrovare la strada persa tanto tempo prima >. Qualcosa in quella frase sveglia la mia attenzione sullo strano personaggio di cui sono ospite. Forse è proprio questa nuova sensibilità che al ritorno, nella discesa della scala angusta mi fa scoprire una nicchia che prima non avevo notato. Mi avvicino per vedere cosa contiene e scorgo il contorno di un quadro, ma la penombra è troppo fitta così prendo dalla tasca l’accendino e alla luce della fiammella riesco a vedere il soggetto.
La figura di una donna, volto e spalle in un primo piano di tre quarti. Faccio scorrere lo Zippo davanti all’immagine per scoprirne i particolari: il ritratto emerge da una nebbia verde scura in cui si intravedono parti di paesaggi lontani, frammenti di ricordi, indossa una camicia azzurra che si legge solo grazie alle pieghe che sembrano emettere una leggera luminescenza, la pelle è scura, mediterranea, la faccia è piegata leggermente verso lo spettatore e la testa è un po’ inclinata verso la spalla sinistra dandole un’espressione da bambina. Ma l’impressione si ferma qui perché il volto è quello di una donna matura. La faccia è illuminata da un taglio diagonale di luce calda e solare che fa emettere ai capelli corti lampi ramati, il naso è piccolo e dritto e la bocca è morbida e leggermente aperta in un sorriso appena accennato, la fronte ampia e un po’ bombata si intravede sotto una rada frangetta.
La fiammella dell’accendino si agita in un refolo d’aria e illumina gli occhi. Sono grandi, molto grandi e scurissimi, due frammenti di nulla che ti guardano e da cui non riesci a staccare lo sguardo. Spengo l’accendino e la nicchia ritorna nell’oscurità, ma adesso sembra che, nascosta nella penombra, ci sia una creatura viva che respira piano e scruta il mondo in silenzio.
Mi affretto a scendere nella grande stanza dove il pittore mi ha preceduto. La tavola è già sparecchiata, i piatti sono in una grande bacinella di plastica piena d’acqua; noto che il plaid, che stava nello studio sulla poltrona di pelle, adesso è piegato sul divano. Lui sta infilando un cuscino dentro una federa bianca. Appena finita questa operazione si siede sulla poltrona – Vedrà che starà comodo e dormirà benissimo, il divano è largo ed abbastanza lungo – poi guarda la mia faccia e sembra leggermi nella mente – Ha visto il quadro? Si lo ha visto e adesso vuole sapere perché non ci sono altri ritratti ma solo paesaggi – si alza e va verso il camino. Dal ripiano, fatto con una vecchia trave annerita dal fumo, prende una bottiglia panciuta e due piccoli bicchieri simili a quello del Pastis. Me ne porge uno e lo riempie di un liquore ambrato, ripete l’operazione con l’altro e poi si risiede poggiando la bottiglia vicino ai suoi piedi.
Noi vecchi dormiamo poco, è come se cercassimo di prolungare la vita non cedendo al sonno. Se vuole possiamo parlare un po’, a me fa piacere non sono in molti a venirmi a trovare – fa una pausa, mi sorride e poi continua – Forse vuole sapere del ritratto. Certo! L’ ho visto dal suo sguardo sa! Però credo che per poter parlare di quel quadro si debba, prima, parlare di cosa si vede o cosa si pensa di vedere quando si dipinge qualcosa.
Con i paesaggi la faccenda è facile, ci può attirare il colore, l’atmosfera, gli effetti prospettici. Non importa quanto l’opera finita sia attinente alla realtà perché essa stessa diventa realtà. Non esiste più un termine di paragone; passato quell’attimo di luce, quel determinato giorno di una determinata stagione, quel particolare paesaggio non esiste più, ne esiste un altro diverso che nulla ha che fare con ciò che si è dipinto. Il vecchio paesaggio ormai vive solo nel contenuto del quadro. Ma quando decidiamo di trascrivere sulla tela un volto, in particolare un volto di donna, noi cerchiamo di dipingere una sensazione, un sentimento, un insieme di elementi che determinano quella complessità che chiamiamo essere umano. Il modello però, a differenza del paesaggio, continua ad esistere e certamente continua a ripercorrere quella frazione di tempo in cui ha espresso le sensazioni che ci hanno colpito. E nel momento in cui il pittore poggia il pennello sulla tela, non può prescindere da ciò che sente per questa persona, non può imprimere nel colore e nelle linee  qualcosa che è al di fuori di lui e del suo spirito. Il problema è cosa realmente vede in quello che sarà il soggetto del quadro!
Io sono giunto alla conclusione che si non debba mai provare a dipingere il volto della donna che si  ama e non ci si debba mai innamorare della donna che si vuole di ritrarre. Ma come si fa a chiudere la propria mente ed i propri sentimenti all’umanità che ci circonda e come facciamo a smettere di cercare l’amore che abbiamo sempre desiderato, così come lo abbiamo sempre immaginato –
Il vecchio per un attimo resta in silenzio con lo sguardo voltato verso la finestra e verso la notte che preme contro i vetri. Alla fine annuisce, forse ad una voce che solo lui ha sentito, si versa un altro po’ di liquore nel bicchiere e mi passa la bottiglia. Poi riprende a parlare quasi sottovoce.
- Un giorno qualcuno chiese al vostro Petrarca come poteva continuare ad amare Laura ormai diventata vecchia; come era possibile che questa donna, diversa da quella che gli aveva incendiato il cuore in gioventù, potesse ancora essere fonte di ispirazione amorosa? Petrarca rispose con un esempio: un arco lancia un freccia e questa freccia vi provoca una ferita profonda, poi la corda dell’arco si rompe. Forse per questo la ferita che esso vi ha procurato è meno dolorosa? Se un giorno una donna irrompe nella mia vita e provoca l’amore, può il tempo, il silenzio, la lontananza far morire quelle sensazioni e quei motivi per cui è nato l’amore?
So bene, mio giovane amico, che tutto questo è letteratura, ma io sono un vecchio solo e forse un po’ pazzo. Il tempo non mi manca e i pensieri e le riflessioni arrivano da soli a trovarmi; si siedono dove è seduto lei e mi tengono compagnia nelle notti invernali di vento e pioggia. Si scaldano le mani vicino al camino e conversano tranquillamente con me.
Mi permetta, dunque, di tornare al problema accennato prima: cosa realmente un uomo innamorato vede nel soggetto dei suoi sentimenti?
Noi tocchiamo la donna che amiamo, la accarezziamo, le parliamo, mangiamo e dormiamo con lei, facciamo l'amore, certo! Ma tutto questo non ci fa capire cosa c’è sotto la pelle, le ossa ed il sangue che pulsa, cosa si nasconde nei suoi pensieri e nei suoi ricordi. Perché è allegra o triste, perché una notte è piena di passione e un giorno non ti rivolge al parola. Perché, in definitiva, è lei che noi amiamo e non un’altra? Nessuno riesce a tollerare gli angoli bui e così la mente crea un’immagine propria; le dà motivazioni, capacità, difetti, intellettualità così come noi speriamo che sia o, meglio ancora, come desideriamo che sia!
Dopo aver creato questo collage di elementi positivi, puntellati qua e là da qualche piccola cosa negativa per umanizzarla un po’, lo sovrapponiamo alla persona che ci sta davanti e le facciamo vivere una vita parallela.
Il quadro, a questo punto, è pronto.
I colori si sdraieranno da soli sulla tela oppure l’otturatore della machina fotografica scatterà senza aiuto alcuno.
Ciò che noi abbiamo raffigurato è l’amore; il nostro personale concetto d’amore.
I suoi occhi ci seguiranno sempre in perenne adorazione, le sue labbra saranno sempre pronte a dischiudersi per dirci: ti amo.
La freccia ha aperto la nostra carne.
Ma nel momento in cui la luce cambia, appare un’altra persona, un’altra ancora e poi un’altra!
Capisce amico mio è sempre la stessa persona che si stringe fra le braccia, ma è anche qualcun altro indipendente, sconosciuto, alieno.
Noi però continuiamo ad amare chi abbiamo ritratto perché in quello abbiamo riposto tutto il nostro sentimento!
E vi rimaniamo attaccati con tutta la nostra forza terrorizzati dall’ignoto che ci circonda-
Mi guarda fisso negli occhi, la mano stringe forte il piccolo bicchiere. Sento il mare in lontananza ed un cane che abbia, sento gli scricchiolii dell’antica abitazione in cui mi trovo e aspetto.
- Alla fine, proprio come due naufraghi, cominciamo ad andare alla deriva, l’uno lontano dall’altra, in un mare di silenzio – riprende in un sussurro – E col passare del tempo si finisce per cercare di vedere nel quadro ciò che non abbiamo visto nella realtà: i nostri errori e la nostra cecità. E continuiamo a chiederci chi abbiamo amato veramente.
Perché non mi chiede il motivo per cui non distruggo il quadro? Credo che sappia già la risposta! Un ritratto, col tempo, acquista una sua vita. Accumula in se tutti i pensieri di chi lo guarda, tutti i dolori ed i sogni. Tutti i rimpianti. E li trattiene, forse liberando lo spettatore dal suo carico di tristezza. Come potrei mai distruggere qualcosa che si è conquistato il diritto a vivere, permettendo a me di vivere.
Mi creda mio giovane italiano, mi creda, è meglio dipingere i paesaggi –
Si alza lentamente e si avvia verso la finestra; mi sembra che la sua andatura, adesso sia più incerta. Fuori sta sorgendo la luna, gigantesca, la sua luce entra nella grande stanza ricoprendo tutto d’argento.
- C’è luna piena, vuol dire che ci sarà l’alta marea. Bene! Domani, all’alba, possiamo andare a cercare i granchi e i gamberi che si lascia sempre dietro, sulla spiaggia, quando si ritira. Che ne dice, magari prima di andare ad Arles possiamo farci un’ottima bouillabaisse di molluschi! Ho anche un buon Chateau bianco dell’interno che mi ha regalato un amico.
( Massimo Carubelli )

Le notti bianche, la luce nella notte o il giorno perpetuo, il sogno dell'insonne.

Su tutto cala una luce bianco-azzurra, quella luce che illumina il fondo di un lago montano. Non ci sono ombre, non ci sono incertezze, solo quella luminosità densa che avvolge tutto come immenso velo.

L' aria..l'aria ha un profumo di cose lontane, di ricordi, di mare, di paludi, di pasticcerie, d'amore. 
Il silenzio.

Il volo degli angeli

Dedicato alla mia piccola Barbara
a Katia
a Katia
e a Costantino
 

Il silenzio della grande cucina è rotto solo dalle ritmiche e misteriose vibrazioni del frigorifero russo. È incredibile la quantità di rumori e scricchiolii che questi elettrodomestici riescono a produrre quando sono sicuri di essere lontani da occhi indiscreti.
L’alba comincia a farsi strada tra il turbinio di neve, fuori dalla finestra, e le tende bianche. Con  calma inizia a dare forma e colore all’ambiente, si riflette un po’ stancamente sull’orologio appeso al muro a forma di due cuori trafitti, rimbalza sul lavandino con i piatti sporchi della sera prima, scivola sullo strofinaccio e cerca di sbirciare negli scaffali tra i barattoli di caffè e di latte condensato. Poi, come un gatto in cerca di preda, volge la sua attenzione al tavolo di formica, salta sulle sedie spaiate che lo circondano disordinatamente e gioca con le briciole di pane ed il portacenere pieno di mozziconi. Una mosca, unica sopravvissuta all’estate, si muove sul piano alla ricerca di un granello di zucchero; ogni tanto si ripulisce le ali con le zampine posteriori e si ferma guardinga in ascolto dei rumori della casa, ha imparato a convivere con i suoi abitanti applicando rigorosamente la regola del < vivi e lascia vivere >.
Una porta, in fondo al corridoio si apre cigolando, è il segnale per la sua ritirata discreta fra le pieghe della tendina. Si sentono passi attutiti accompagnati da un lamentoso sbadigliare; nella cucina entra una ragazza, gli occhi ancora chiusi per il sonno, i capelli sulla faccia e le mani protese in avanti come un cieco che cerca di evitare gli ostacoli improvvisi.
Si ferma al centro della stanza. Con un sforzo apre un occhio, poi l’altro e si guarda intorno.
Anche oggi è riuscita a farcela!
L’aria è quella di chi si sta chiedendo < dove sono? Come sono capitata qui? Forse torno a letto!>. Va verso lo scaffale e prende il barattolo del caffè, lo guarda per alcuni minuti nel tentativo di metterlo a fuoco, infine lo poggia sul tavolo. Prende il bollitore, lo riempie d’acqua e dopo alcuni tentativi e molte parolacce borbottate a mezza voce riesce ad accendere il fornello. Finite queste operazioni si siede vicino al tavolo, prostrata dallo sforzo; il suo sguardo è fisso ne vuoto e il suo cervello comincia lentamente ad analizzare la situazione.
Ha i capelli castani, la pelle chiara e gli occhi scuri sono tondi e grandi, il naso è sottile e dritto le labbra carnose. La bocca, quando sorride, si piega leggermente verso il basso dandole quell’aria di distacco enigmatico che ha ispirato molte delle figure femminili di Botticelli.
Varia, Varicka, Variuscia, neanche lei sa perché il suo nome le rigira per la testa come un ritornello.
Varia, Varicka, Variuscia, Barbara! È così che la chiama il suo vecchio amico italiano. Ha un suono strano dolce e aspro. Barbara, priva di civiltà, ribelle, guerriera, fedele, coraggiosa. Sola!
Sente una leggera fitta al pensiero dei suoi cari sempre lontani, sempre desiderati. La madre che insegue sogni e lotta per realizzarli e la sorella persa nella sua casa lunare.
Sente la mancanza di un punto fermo nella sua vita. Una pausa tra dolore e dolore, tra paura e paura. Da sempre le sembra che i momenti di felicità siano piccole isole strappate con la forza ad un mare di preoccupazioni e di ansie. Eppure, anche se piccole, esse sono così intense da riuscire a cancellare tutto il resto.
Intuisce, più che sentire, la porta di una delle tre stanze che si apre, senza neanche voltarsi saluta la ragazza che viene a sedersi vicino a lei – Ciao Katia – dice con voce un po’ nasale – Katia sembra riflettere su quale sia la risposta più adatta e poi dice – Ciao – si passa un mano tra i capelli e guarda il paesaggio nevoso e i palazzi di fronte – Dio che schifo di giornata! – sussurra – e siamo appena all’inizio della settimana – conclude in un lamento.
Il suo volto minuto e gentile ha un ovale accentuato dagli zigomi alti, la bocca mobile ed espressiva riesce, nelle risate, ad illuminare tutta la faccia. La massa di riccioli rossi e l’incarnato roseo la fanno sembrare un angelo uscito da un affresco di Melozzo da Forlì.
Non è piccola ma la sua statura è come compressa in una costante incertezza della vita. Una sorta di peso continuo sulle sue spalle che lei cerca di contrastare con una lotta caparbia e senza sosta. Pronta anche ad infiggersi la tortura di un reggi schiena ortopedico, quasi una specie di cilicio, pur di riuscirci.
Katia è quel tipo di persona che guardandosi allo specchio non pensa – sono bella o sono brutta? – ma – piaccio o non piaccio? -.
Una frase di gratificazione o un sorriso di incoraggiamento hanno, per lei, più valore di una collana di perle.
Il suono del vapore che esce dal bollitore le aiuta a scivolare via dal torpore, Barbara prepara il suo adorato caffè e Katia un te; il rumore delle tazze e dei cucchiaini sembra il segnale per la terza ragazza che entra nella cucina con aria imbronciata.
Alta e statuaria, anche lei di nome Katia, è la più slava delle tre; la sua pelle chiarissima e i suoi occhi leggermente allungati la fanno somigliare ad una madonna di un’icona della scuola di Pskov. È, forse, anche la più donna, ma proprio per questo la più debole e la più esposta. La rigidità a cui si è auto educata traspare nei movimenti, nel passo e nel modo in cui muove la testa per osservare le persone con cui sta parlando, senza mai spostare il busto. Sente il bisogno di affidare la sua vita a schemi ben definiti, limitando le emozioni al minimo; mette tra se ed il mondo circostante un muro fatto di educazione formale e di tecnica. Solo il movimento delle mani e certi piccoli lampi negli occhi fanno emergere la sua passionalità che lei sente come un peccato grave. Un labirinto nero da cui non saprebbe più come uscire.
Si prepara una tazza di te e va ad aprire il frigorifero, guarda dentro e poi ritira la testa di scatto come se avesse visto un cobra.
Maledizione di nuovo!- esclama con voce profonda – L’ha fatto di nuovo – ripete sbattendo violentemente lo sportello del povero elettrodomestico che per tutta risposta comincia a ronzare freneticamente. Con una falcata raggiunge lo scaffale e afferra un barattolo di latte condensato che poggia, anzi sbatte, con violenza sul piano del tavolo. – Ieri sera ne avevo aperto uno e mi ero presa solo un paio di cucchiaiate, così! Per addolcirmi la serata – dice indicando col lungo dito indice il barattolo bianco e azzurro che tiene in mano – E adesso non c’è più. Il signorino deve avere avuto il suo solito appetito notturno e, naturalmente, si è guardato bene dal prendere il suo, si è fatto il mio, si è fatto! -  mentre parla aggredisce, con un coltello, il coperchio della scatola cercando di fare il maggiore rumore possibile. Quasi in risposta, giunge dal bagno lo scroscio dello sciacquone; la porta viene aperta con violenza ed entra in cucina il quarto ed ultimo abitante dell’appartamento.
Costantino entra nella stanza con passo leggero e aggraziato, indossa una maglietta rossa ed un paio di mutande, dopo essersi preparato una tazza di te afferra anche lui un barattolo di latte e si siede al tavolo con la schiena appoggiata al muro. Costia ti sei mangiato il mio latte! – esclama Katia cercando di dare alla voce il massimo dell’indignazione possibile. Il giovane la guarda e sorridendo le risponde – Si! Avevo fame e quello era già aperto e pronto. Non mi andava uno intero! – non c’è malizia nella sua risposta né cattiveria, come non c’è cattiveria nel bambino che da fuoco alla lucertola per osservarne i contorcimenti. C’è solo fredda constatazione dei fatti, nessun ripensamento e nessun senso di colpa. È così e basta!
Costantino non è alto, ma la fluidità dei suoi movimenti fa passare quasi inosservata la sua statura; la faccia con un ovale allungato, gli occhi ed la bocca atteggiati ad un perenne risolino lo fanno sembrare un fauno. Un perfetto Papagheno uscito dal Flauto magico di Mozart. Per lui la vita non è un percorso rettilineo, ma una serie di curve sinuose fatte attorno a tutto ciò che può essergli di ostacolo. I sentimenti, l’amicizia, il potere e l’autorità, la violenza ed la debolezza, sono montagne gigantesche e nere che il ragazzo cerca di evitare insinuandosi tra gole e stretti passaggi alla ricerca ossessiva di una luce. Di un rifugio che lo tenga lontano da qualche mostro di cui solo lui è a conoscenza.
Katia si immerge con stizza nella sua colazione e dopo aver finito è la prima ad alzarsi per andare a chiudersi in bagno.
Ad uno, ad uno i quattro ragazzi si preparano, berretti di lana, sciarpe, scarpe pesanti e guanti. Arrivati nell’atrio del palazzo, Costantino si volta e corre di nuovo verso l’ascensore gridando – Aspettate un attimo mi sono dimenticato di lavare i denti e ho lasciato le sigarette in cucina – Certo Cossia, certo – gli rispondono le amiche in coro, ormai abituate a questo quotidiano rito del “qualcosa” scordato all’ultimo minuto.
La neve cade lentamente, rigirando su se stessa. I fiocchi roteano, scendono e risalgono mossi da una sottile corrente, ondeggiano a destra e sinistra intessendo una musica silenziosa, privi di peso e di coscienza, felici di esistere per una breve frazione di vita. Poi stanchi vanno a morire sulle piccole colline gelate ai bordi della strada.
Quattro figurette scure nel paesaggio bianchissimo, tre prese a braccetto ed una che corre dietro, quattro bamboline ritagliate nel cartoncino nero che corrono, ondeggiano e pulsano come i fiocchi di neve.
Sull’orizzonte le sconfinate foreste della Karelia.
E uno e due e tre – la voce bassa, quasi stanca dell’anziano maestro che cura il training del piccolo corpo di ballo del teatro di Petrozavodsk nuota nella grande sala prove illuminata da una lunga finestra ad arco. La musica, suonata al pianoforte da una anziana signora che sembra uscita da un vecchio album di foto in bianco e nero, quando le signorine di buona famiglia affidavano alla tastiera i loro sogni e i loro desideri di fughe romantiche, scandisce i movimenti dei ballerini.
Ogni mattina nella sala i ragazzi arrivano alla spicciolata, ogni giorno l’arrivo è segnato dagli stessi scherzi e dallo stesso ritmo. Prima i nuovi acquisti, quelli freschi d’accademia, poi gli anziani ed infine i solisti.
Scalda muscoli rosa schocking o azzurro elettrico, tute ginniche di varie fatture, vecchi maglioni con più buchi e toppe che lana, calzamaglie attillate e top sgargianti, scarpe ballerine, scarpette col tacco basso o piedi nudi protetti da ghette di lana. Risate e rincorrersi, musi lunghi e facce allegre, parole sussurrate e qualche grido.
Una piccola banda di gitani che hanno scavato le fondamenta sotto i loro carri, immobilizzandoli per sempre. Qualche bambino di tre o quattro anni corre sul pavimento di linoleum e gioca con gli attrezzi per le prove, accentuando quest’immagine di tribù.
L’arrivo del maestro Eugenio Michailovic, Michaluic da sempre per i ballerini, è quasi preceduto dalla sua voce  calma e sussurrata - Signori cerchiamo di dare un senso alla giornata – Nei suoi occhi si riflettono i volti di tanti altri giovani ballerini che sono arrivati lì. Che sono arrivati pieni di speranza e di voglia di sognare. Per tanti la speranza è diventata un’abitudine, per qualcuno una certezza, per qualcun altro ancora il nulla della sconfitta.
E uno e due e tre
I ragazzi con movimenti quasi impercettibili prendo posto lungo le sbarre. La distanza tra l’uno e l’altro è perfetta. Le espressioni dei volti cambiano. Concentrati, attenti e tesi. Ogni tanto controllano la posizione sui grandi specchi che circondano la sala.
E uno e due e tre.
Gli esercizi si susseguono sempre più incalzanti e complessi. L’insegnate mostra la sequenza dei passi e gli allievi eseguono rapidamente tutti assieme o a piccoli gruppi o, ancora, singolarmente. Il sudore comincia a scorrere sulle facce ed i corpi. Le pause sono brevissime tra un esercizio e l’altro, piccoli asciugamani vengono usati sempre più spesso mentre parti di abbigliamento cominciano a cadere per terra o si poggiano sulle sbarre come foglie in autunno.
E uno e due e tre.
Katia, slanciata nel controluce della finestra, si piega a libretto sulla sua gamba poggiata sulla sbarra, la sua mente comincia a contrastare la stanchezza allontanandosi dalla sala. Rivive brani di ricordi come sensazioni epidermiche, caldo, freddo, caldo; rincorre l’amore in un pomeriggio d’estate e il desiderio di libertà future e lontane. La voce del coreografo si confonde con la voce della madre che parla dei buoni comportamenti delle ragazze per bene, ma è il volto del padre che le appare sovrapposto ai volti degli uomini che la guardano con ammirazione per strada e nei locali. Le spalle si drizzano, la testa è leggermente buttata all’indietro; solo giorni a venire, solo luce, esistere, ma come? Quale è il buon comportamento? Lontano! Devo guardare lontano. Muove il lungo braccio in un lento semicerchio, è un’ala? Si! La sua ala che sbatte contro le sbarre di una gabbia. Katia danza per imparare ad aprire la gabbia
E uno e due e tre.
Barbara si bilancia sulla punta del piede mentre si piega in avanti col braccio e la testa, l’altra gamba è tesa indietro. Sente la sua debolezza nel mondo, percepisce la sua fragilità e capisce che la sua unica arma è imparare. Capire, ascoltare, vedere. Imparare da chi sa e da chi sbaglia. Osservare senza mai darsi tregua e non permettere mai alle lacrime del dolore e delle umiliazioni di offuscarle la vista. La musica, la danza e poi? Il canto e la voce. Recitare per trasmettere a tutti il mondo che le esplode dentro, per abbracciare il mondo. Per parlare all’uomo schiacciato dalle preoccupazioni, alla vecchia all’angolo della strada, agli innamorati e a chi l’amore non l’ ha mai conosciuto, al bambino che ha paura del buio e a chi vive nel buio. Sogna un immenso palcoscenico sotto le stelle, miliardi di stelle in una notte di luce. Barbara danza per quella luce.
E uno e due e tre
Adesso è Ludmila Alexsandrovna che guida le prove; Luissia sta provando i passi per lo spettacolo della sera “Giselle”di cui cura la coreografia. Buona ed amata dai ragazzi, col suo caschetto di capelli neri sembra una piccola porcellana, anche la voce è sottile e delicata come porcellana.
E uno e due e tre
Costantino si avvita su se stesso riprovando per la terza volta la piroetta. Detesta l’imperfezione, la trova un errore di natura, qualcosa di abominevole da nascondere o, meglio da eliminare. Vive nel terrore che la gente scopra in lui una deficienza, una tara che lo possa mettere al bando da quel mondo di successo, danaro e sicurezza cui aspira. Cerca di allontanare dalla sua esistenza tutto ciò che, in qualche modo, gli ricorda la miseria, la malattia, un difetto fisico, la morte; si chiude nel suo cinismo per nascondere la sua paura e calcola le sue mosse così come controlla allo specchio i suoi passi di danza. Il suo bisogno di riuscire ad affermarsi è il suo desiderio di fuggire. La sua voglia di fuggire è il suo bisogno di ballare. 
E uno e due e tre
Sulla porta della sala appare la prima coreografa del teatro, la signora Tolskaija, lei non ha nomignoli e diminutivi, lei è solo la Signora Tolskaija. La padrona assoluta della vita artistica e dell’avvenire dei ballerini. Ogni più piccolo atteggiamento rilassato scompare, anche la stanchezza va via di colpo; solo movimenti precisi e perfetti come un metronomo.
E uno e due e tre
Con un rapido movimento Katia allontana un ricciolo che gli cade sull’occhio. Prova, in disparte, un passo che non è riuscita a fare in modo corretto assieme agli altri suoi colleghi; lo prova con la diligenza di una bambina che inciampa sempre sulla stessa strofa di una poesia. Lo prova perché lo vuole fare e perché la danza è tutto ciò che ha. È qualcosa di completo in una vita che le ha rubato la completezza. Katia combatte il gelo di una famiglia inesistente col desiderio di sorprendersi sempre del mondo. Di accettarlo e gioirne giorno per giorno. Katia ama tutto ciò che si può amare: i fiori che sbocciano, le grida dei bambini, il sogno di avere tanti amici, le corse sull’erba, il sole sulla faccia ed il vento tra i capelli. Katia prova ancora il passo, non perché vuole essere la migliore, ma perché vuole che nessuno le possa strappare la sua danza.
Chi aveva arredato il bar doveva essersi ispirato ad una sala operatoria, acciaio e luci azzurrine con qualche festone di fiori e foglie di plastica per aggiungere un tocco da obitorio.
I quattro ragazzi, troppo stanchi per ritornare a casa, aspettano l’ora dello spettacolo sorseggiando lentamente un succo di frutta. La musica che esce dalle casse, poste vicino al bancone del bar, è ad un volume altissimo e non facilita la discussione.
Per un po’ hanno parlato dei problemi di convivenza, ma alla fine la conversazione è morta di morte naturale.
Il tavolo è pieno di briciole, di tovagliolini unti e di bicchieri dei clienti che li hanno preceduti.
A poca distanza da loro due uomini, che si atteggiano a pericolosi mafiosi, sono immersi in un fitto dialogo; dall’angolo opposto arrivano scoppi di risa di un gruppo di nuovi ricchi. Uomini e donne vestiti in modo appariscente con abiti più o meno firmati, uno indossa un paio di occhiali scuri su cui ha lasciato incollato il bollino con la griffe.
Barbara sente una canzone che ama e comincia a cantarla quasi distrattamente, dopo una strofa Costantino si unisce al lei, e alla fine con sincronia anche le due Katie iniziano a cantare.
Restano lì a quel tavolo sporco, indifferenti al chiasso e cantano assieme lasciando scivolare nelle parole lo loro stanchezza.
Sono sul largo viale che porta al teatro, quando ad un certo punto Barbara si ferma di colpo ed esclama – Ragazzi! Ma io lavoro in un teatro! – gli altri la guardano senza capire – Varia – le dice Costantino – è da diversi mesi, ormai, che lavori in un teatro – Si Costia! Lo so che ci lavoro da  sei mesi. È vero! Ma solo adesso ci ho pensato con attenzione. Io lavoro in un teatro! È splendido non è vero? -
La morbida matrona accompagna gli spettatori ai posti assegnati, con aria tra il severo e l’affettuoso. Accoglie, da padrona di casa, queste donne fiere dei loro abiti cuciti sui modelli all’ultima moda rubati ad una rivista di due anni fa. Oppure portati in regalo dal marito o dal figlio tornati da un viaggio in Finlandia o in Germania carichi di buste, scatole, borse e pacchi le cui forme sembrano ispirate a Guernica di Picasso. Sente su di se il grave compito di accompagnare quelle donne troppo truccate e quegli uomini coraggiosamente strizzati nei loro abiti da cerimonia, introducendoli in un mondo reale e fantastico, dove l’amore vibra sulle corde del violino e l’odio, la paura e la morte avanzano sulla pelle tesa dei timpani. È grata a questi spettatori dalle guance rosse per il freddo e il troppo fondo tinta; perché, con i loro golfini di strass acquistati a San. Pietroburgo e le loro cravatte ultimo grido di Mosca, fanno vivere, ogni sera, un sogno di bellezza e di commozione.
È grata perché, con la loro presenza, chiudono le crepe del vecchio intonaco e rendono splendenti i cristalli dei lampadari.
Ridanno sofficità e colore al velluto liso delle poltrone.
Riempiono l’atrio, il ridotto, la platea, le scalinate di una calda ed intensa fantasia che rotola felice sopra gli orchestrali facendo scintillare le note dei loro strumenti e che, giocando, va a premere impaziente sul sipario chiuso. 
Le ultime poltrone del piccolo teatro si stanno riempiendo, mentre le luci si abbassano ad intervalli dando il segnale di inizio.
Dietro le quinte i quattro ragazzi sentono l’ansimo trattenuto del pubblico che gonfia i pesanti tendaggi. Piano, piano, lentamente cominciano ad abbandonare il mondo che li circonda: i rotoli di corda accatastati, l’elettricista che controlla le luci, la coreografa che da gli ultimi consigli, la costumista e la sarta che fanno i ritocchi finali ai vecchi costumi.
La polvere di anni e il fumo di sigarette fumate in fretta.
Le luci si spengono dopo l’ultimo singhiozzo, la sala diventa il ventre di un fantastico levitano pronto ad abbandonare il mondo dei problemi, delle ansie e delle miserie.
Dal nulla inizia l’Ouverture. Una mano invisibile ha aperto il coperchio del carillon e le note corrono libere, piene di una gioia da troppo tempo repressa e contenuta nella sala delle prove.
La musica si allarga, poi, quasi intimidita, sbircia nel buio con occhi di diamante, si riavvolge in se stessa e balza in avanti; raggiunge la cupola del soffitto e ricade sul pubblico ricoprendolo, assorbendolo, riplasmandolo in nuova forma e nuova entità.
Le mani dei ballerini si cercano e si stringono, fondendo il sudore della paura. I cuori battono allo stesso ritmo ed i quattro respiri diventano un solo.
Il sipario si apre con un sottile rumore di foglie secche mosse dal vento.
La musica cala di intensità mentre le luci dei riflettori regalano realtà alla scenografia di legno e stoffa. Le finestre diventano scrigni di vita, i boccali dell’osteria si riempiono di vino profumato e l’erba e i fiori iniziano a crescere.
I quattro cuori non battono più.
Nelle orecchie c’è il rombo del vento.
I nervi si irrigidiscono.
La musica comincia a risalire arrampicandosi su se stessa.
Ora!
Un’ondata di gelido calore si scarica sulle quattro figure accucciate e finalmente entrano nella luce.
Non sono più muscoli, sangue e ossa.
Non sono più pensiero e paura.
Non sono più amore e sofferenza.
Sono vita.
Sono elettricità.
Sono musica.
Volano in uno jetè che sembra non finire mai.
Volano incontro alla neve che cade.
Volano verso immensi boschi dove antichi alberi raccontano senza sosta la stessa storia da mille anni.
Volano nelle fiabe raccontate da Chagal e da Grin.
Volano nelle tenebre attraversate dai cavalli dei mongoli.
Scavalcano cupole dorare e fiumi che sembrano mari.
Scavalcano grattacieli di vetro simili a magici cristalli neri.
Scavalcano città frenetiche e pianure addormentate.
Scavalcano un intero paese tanto grande che la notte ha bisogno di un intero inverno per percorrerlo e il sole di un’intera estate per tramontare.
( Massimo Carubelli )

Mi sono ritrovata, quasi senza cercarle, a ripercorrere delle situazioni, anche lontane, che mi hanno fatto soffrire e a un certo momento ho cominciato a rifiutarle, non avevo più voglia di ricordare, non vedevo il momento di distogliere l'attenzione.
 Di questo mi sono resa conto gradualmente, un po' come tirare su una corda che, apparentemente breve, si rivela poi sempre più lunga e pesante: un passaggio dall'acquerello al carboncino, perché, quando si rivolge lo sguardo dentro di noi, si finisce per non guardare più intorno e i toni si fanno più cupi, grigi, perdono colore.

Il bivio

  Non mi piace guidare, anzi non mi piace viaggiare in macchina,  quando poi  al volante c’è qualcun altro non riesco a sentirmi tranquilla, a guardare il paesaggio intorno a me, ma finisco sempre per immedesimarmi col guidatore frenando al posto suo, correggendo una curva presa male, aggrappandomi al sedile con gli occhi chiusi quando mi sembra che gli spazi si chiudano senza nessuna via di uscita.
Quando è possibile prendo il treno che mi dà un senso di sicurezza e, nonostante il movimento, anche di stabilità, quasi fosse ciò che è fuori a spostarsi, a venire incontro con un festoso ritmo di danza.
Per arrivare a casa di Marinella però non c’era alternativa, dovevo prendere la macchina per raggiungere la piccola frazione sulle pendici del monte Amiata.
Aveva insistito tanto perché approfittassi delle vacanze natalizie per trascorrere qualche giorno con lei in campagna.
Conosce bene la mia pigrizia e il torpore dentro il quale mi nascondo, non so se per sottrarmi alla vista degli altri o piuttosto per impedirmi di vedere la vita degli altri, i loro interessi, la capacità di farsi coinvolgere, i ritmi frenetici, le certezze che danno un piglio sicuro ai loro gesti.
E io ero entusiasta di trascorrere qualche giorno insieme a lei, di sottrarmi ai rituali delle feste, a quel correre da un negozio all’altro per comprare regali dell’ultimo minuto, alla fatica di preparare pranzi, perché così è la tradizione, anche se non si ha voglia di mangiare, alle visite di “cortesia”, alle telefonate augurali, all’imbarazzo di ripetere le stesse frasi, le stesse parole con le stesso tono.
Sarebbero stati giorni autentici, senza percorsi obbligati:  in quella casetta un po’ isolata, con il vecchio camino acceso, libere di parlare, di uscire a passeggiare senza orari, di non mangiare anche se era Natale e a Natale si “devono” mangiare i crostini con la milza, i tortellini fatti in casa, l’agnello al forno, il panettone.
Eravamo state compagne di banco al liceo. Lei veniva da un paese distante una trentina di chilometri e ogni mattina si alzava prestissimo per prendere l’autobus e arrivare  per la prima campanella. Chi arrivava in ritardo restava inesorabilmente fuori della porta: la precarietà dei mezzi di trasporto, le distanze, il ghiaccio erano problemi secondari e che non potevano mettere in discussione il rispetto delle regole.
Eppure sapeva comunicare un senso di allegria, la fatica sembrava non pesarle ed era anche la più brava.
I capelli  arruffati e due occhi vivacissimi le davano un aspetto da maschiaccio: era sempre in movimento e per ogni ostacolo sapeva trovare una soluzione o almeno una scappatoia che comportasse il male minore. Insomma una di quelle persone piene di energia, di risorse, che non fanno mai pesare i loro problemi, con il volto sempre sorridente di fronte alle difficoltà, anche gravi.
Dietro quella sua aria da ragazzina mai cresciuta, che aveva conservato anche quando gli anni erano passati, c’era una volontà ferrea e una razionale lucidità che le aveva sempre permesso di decidere con chiarezza, di fare scelte definitive, talvolta dolorose, ma sempre nette, precise, senza rimpianti.
Quello che io non sono mai riuscita a fare.
E non per non saper valutare le situazioni o capire gli errori e le soluzioni da adottare, ma perché dentro di me è come se ci fosse un impedimento, un freno che mi impedisce di guardare più avanti, di andare oltre la contingenza di un evento, di vederlo in una prospettiva più ampia, una specie di pigrizia, di indolenza che mi lascia inerte, in balia degli altri che decideranno per me.
Pensavo a questo, mentre guidavo lentamente per la strada vicinale, molto più lunga della superstrada e con tante curve, ma del tutto priva di traffico, se si esclude qualche gregge fatto passare con tutta calma da  un campo all’altro attraverso la carreggiata e qualche motocarro carico di attrezzi da lavoro.
Il rischio maggiore di quella strada era proprio non incontrare nessuno e, ad eccezione di qualche casa sparuta in qua e là, quasi fosse stata dimenticata per caso, non  c’era un distributore di benzina, né alcuna traccia di segnaletica.
Era tuttavia un compromesso che mi riconciliava con la macchina, potevo guidare con calma senza sentirmi esposta ai sorpassi avventati, alle strombazzate violente, alle frenate da infarto, sufficientemente rilassata per poter pensare, per cogliere uno scorcio di paesaggio, un albero dorato da fotografare, una casa, come aggrappata per non precipitare, sul crinale di una collina.
Incominciava a piovere, anzi veniva giù un nevischio ghiacciato che si attaccava ai vetri e la strada, finito l’asfalto, si divideva in due viottoli sterrati.
Due cartelli posti al centro del bivio e rivolti in direzioni opposte indicavano, come spesso succede da noi, la stessa località, senza specificare che cosa comportava imboccare l’una o l’altra, lasciando così al viaggiatore inesperto dei luoghi la responsabilità della scelta: testa o croce.
Erano anni che non vedevo Marinella anche se ci sentivamo per  telefono.
Le nostre strade si erano divise tanto tempo prima, quando alla fine del liceo avevamo scelto due sedi diverse per l’università.
Dopo aver condiviso per cinque anni lo stesso banco per comunicare bastava uno sguardo, non c’era bisogno di parole e ricordavo benissimo lo smarrimento dei primi giorni in facoltà in mezzo a tante facce sconosciute in aule immense dove mi sentivo davvero un numero senza identità.
Con una compagna di corso, dopo tanto cercare, dopo aver salito un’infinità di scale da una parte all’altra della città, avevamo trovato  nel centro di Firenze  un appartamento “ da studenti” e che in pratica si riduceva ad un corridoio lungo e stretto con una finestra in mezzo e nel quale erano allineati una cucina a legna, come quelle che quando ero bambina servivano per riscaldare la casa e per cucinare, un acquaio e un fornello a gas.
In fondo si aprivano due porte: il bagno con una vecchia vasca di ferro smaltato appoggiata su piedini d’ottone anneriti e la camera.
Qualche volta, a distanza di mesi,  Marinella veniva a trovarmi, capitava come per caso, sempre di fretta.
Dopo aver fatto il caffè con una vecchia moka  da sei,  senza manico e incrostata per l’uso,
ci sedevamo al piccolo tavolino incastrato in un angolo del corridoio e parlavamo fino a quando, una tazzina dietro l’altra, avevamo vuotato la macchinetta.
Poi all’improvviso si alzava e se ne andava a testa bassa lasciandomi un gran senso di vuoto.
Ero consapevole che quelle visite erano solo una “deviazione”, una pausa, ma non le chiedevo niente, né dove andava, né perché veniva a Firenze e lei non si lasciava sfuggire nemmeno una parola.
Un giorno me la ritrovai davanti alla porta affannata e impaurita, mi sembrò goffa, come gonfiata.
Non smetteva di tremare e io la guardavo senza riuscire a parlare.
Quando si fu calmata mi disse che, insieme ad un’ altra ragazza, per aiutare i “compagni” in difficoltà, era stata  a fare un “esproprio proletario” in un grande magazzino del centro, però una commessa si era accorta di qualcosa e aveva cominciato ad urlare.
Era riuscita a scappare, ma l’altra l’avevano presa.
Si tolse il soprabito e mi resi conto che aveva addosso, uno sopra l’altro, quattro maglioni: il suo bottino.
Rimase da me due giorni, nascosta per il timore di essere rintracciata.
Non le avevo fatto domande e lei non aveva raccontato niente.
Erano passati anni prima che la rivedessi.
Ed erano stati anni frenetici, collettivi, assemblee, occupazioni, qualche volantinaggio,  che però non mi avevano impedito di continuare a studiare con l’impegno di sempre, quasi che la ferrea disciplina del liceo e il percorso che altri avevano individuato per me costituissero una specie di briglia, un guinzaglio che, per quanto si allentasse, rimaneva sempre, pronto a scattare, ad accorciare le distanze, ogni volta che rischiavo di allontanarmi troppo.
Il giorno della laurea ero sola.
Non lo avevo detto a nessuno, non sopportavo l’idea di genitori e parenti in attesa trepidante di abbracciare il “neo-dottore”.
Ma ero tornata a casa quando mi avevano chiamato per il primo incarico nella scuola, una supplenza annuale in una scuola media di un paesino di montagna che raccoglieva a fatica una cinquantina di studenti provenienti dalla campagna circostante, una buona parte dei quali era in età da leva militare: “un promettente inizio per un lavoro sicuro e rispettato”.
Prima di partire ero passata per un ultimo saluto dalla redazione del giornale dove avevo trovato un lavoro temporaneo e poco retribuito, ma  che a me piaceva tanto.
Mi piacevano le persone che incontravo, le discussioni, i progetti, quel clima di attesa che a volte si creava, il rapporto disimpegnato e immediato che avevo con gli altri.
Mi ero ostinata a voler rinnovare il contratto per il piccolo appartamento, un tentativo di mantenere un contatto per alimentare l’illusione di un ritorno che non ci sarebbe stato, per non ammettere la sconfitta, la incapacità di una scelta.
Marinella non era mai tornata a casa.
Solo dopo alcuni anni avevo avuto sue notizie dall’Africa, dove lavorava come medico in una associazione di volontari.
Avevamo iniziato una corrispondenza precaria e saltuaria che però ci permetteva di scambiarci qualche informazione, qualche sfogo, sia pur filtrato dalla distanza e dal tempo, sempre piuttosto lungo, che le lettere impiegavano per arrivare.
Aveva avuto un figlio che si portava dietro nei suoi viaggi, affrontando senza drammi l’esigenza di adattarsi a situazioni difficili e sempre diverse, il disagio di fargli cambiare un’infinità di scuole, di imparare a cavarsela con  le lingue,  di conciliare usanze spesso contrastanti: la vita non si impara sui banchi di una classe.
Io avevo percorso la mia strada senza scosse, abilitazioni, concorsi, posto fisso.
Mentre fino a poco prima mi arrampicavo per i tornanti pieni di curve delle prime colline, ero giunta alla conclusione che la mia vita più che a una strada assomigliava ad una linea ferroviaria, diritta, pianeggiante, senza deviazioni, tutt’al più qualche fermata che non comprometteva l’arrivo alla destinazione prevista.
E come per un ironico sberleffo mi ronzavano nella testa le parole di Montale :” la storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario”.
Cambiare di binario, deragliare, almeno per una volta.
Eppure fino ad un certo momento mi ero ribellata contro tutto quello che sentivo come un’imposizione, la conseguenza di un conformismo sterile, a volte umiliante.
Mi veniva da sorridere mentre ripassavo i miei “ rifiuti”: la fuga da tutti gli asili dove la mia nonna materna mi accompagnava con rassegnata pazienza, lo “spogliarello” in chiesa, a cinque anni, per dissuadere la mia nonna paterna dal condurmi con lei, ogni pomeriggio, alla messa vespertina, la contestazione, alla scuola media, contro l’insegnamento dell’economia domestica.
Mi sembrava del tutto ingiusto che noi bambine fossimo obbligate a imparare ricette, sistemi di lavaggio, composizione di burro e margarina e, soprattutto, a orlare con il punto a giorno l’odiato tovagliolo di lino bianco, mentre i nostri colleghi maschi costruivano modellini di macchine ed aeroplani, coloravano aquiloni e sperimentavano i primi ingombranti registratori, pieni di fruscii e del tutto “infedeli”, ma comunque “magici”.
Così, mese dopo mese, il tovagliolo era diventato grigio e a maggio, quando ormai la scuola era alla fine, invece che di ricami, si era adornato delle macchie violacee  delle prime ciliegie.
Poi, ad un certo momento, avevo ceduto.
Non era cambiato il mio modo di sentire, rimaneva il fastidio per tutto quello che mi sembrava falso, convenzionale, mi affascinavano le persone con la voglia di lottare e di sperimentare strade diverse, capaci di rischiare per difendere  le proprie idee, i propri sentimenti, mi veniva voglia di urlare di fronte alle frasi fatte, alle piccole e grandi ipocrisie mascherate con i sorrisi, ai calcoli meschini della vita quotidiana, ai comportamenti privi dell’autenticità di uno slancio e determinati solo dall’esigenza di adeguarsi al perbenismo di facciata.
 Ma ero rimasta in silenzio, mi limitavo a guardare, a chiudere gli occhi se la vista faceva troppo male.
E quando proprio non ce la facevo a proseguire mi sedevo, una resistenza passiva, finché gli altri si stancavano di aspettare ed erano loro ad andarsene.
Marinella non si era mai lasciata scavalcare dagli eventi, né aveva permesso a nessuno di decidere per lei, come quando aveva lasciato il lavoro in ospedale, il marito, la sua casa, per andare incontro ad una esistenza precaria, ma che la faceva sentire libera di costruire la propria vita, come un artista plasma la creta o riempie di forme e di colori una tela bianca che si offre alla sua fantasia.
E non importa se il risultato corrisponderà del tutto o solo in parte alle sue intenzioni, ciò che conta è la sensazione di poter creare.
Dopo aver fermato la macchina, avevo preso la cartina per rendermi conto del punto preciso in cui mi trovavo. Il motore l’avevo lasciato acceso per difendermi dal freddo pungente che faceva appannare i vetri e, percorsi parecchi chilometri, arrampicandomi sulle pendici della collina, il nevischio era ormai diventato neve che si appoggiava sui rami degli alberi scheletriti e sull’erba delle prode. Avvertivo l’ansia di fuggire da quel luogo ovattato e troppo solitario, ma continuavo a guardare da una parte e dall’altra, quasi a cercare un’alternativa, una via di mezzo. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dai  grossi tronchi dei castagni secolari che mi si paravano davanti, come uno sbarramento inflessibile che tornava ad indicare la necessità di una decisione: o di qua o di là.
La paura di scegliere.
Marinella, che mi aveva fornito con precisione tutta una serie di riferimenti, nomi di località, chilometri da percorrere, incroci da superare, non aveva fatto alcun cenno a quel bivio sibillino.
Mentre facevo inversione di marcia per tornare indietro, per il timore di rimanere bloccata, di scivolare sul ghiaccio, imbacuccata nella sciarpa che mi arrivava fino agli occhi, pensavo ad un saggio di Moravia sui Promessi Sposi, pubblicato alla fine degli anni cinquanta, un atto di accusa, dopo i fatti di Budapest, contro la strisciante propaganda di regime nei paesi del socialismo reale.
Parole sferzanti, ispirate dal romanzo manzoniano, che alla fine volevano essere una denuncia contro la paura di parlare, di dispiacere, di essere se stessi, di affrontare le difficoltà, di esporsi per quello che si è, nel bene e nel male, ma comunque nella nostra autenticità, contro l’ amore per il quieto vivere.
E già  rivedevo la mia casa tranquilla, ben riscaldata, la tavola apparecchiata in modo elegante, piatti, sottopiatti, il vino scelto con cura, le facce dei parenti dai sorrisi benevoli, un uomo elegante, cortese, dai modi gentili, disponibile alla conversazione e che non amavo.
Facevo sempre più fatica a guidare e distinguevo la strada a malapena, perché al vapore, che tornava a spandersi di continuo sul vetro, si aggiungevano le lacrime : il compianto della mediocrità, “il bivio evitato” come metafora della mancanza di coraggio, una forma di corruzione dell’animo che non merita scuse, né giustificazioni.
Me ne ero resa conto finalmente, quando ero arrivata alle porte di una frazione con quattro case, che cominciavano a sfumare nell’aria ormai scura del pomeriggio.
Lasciati alle spalle i tornanti del monte, la neve era tornata ad essere pioggia e veniva giù a dirotto. Non avevo nemmeno un ombrello e i capelli mi si appiccicavano alla faccia, mentre attraversavo la strada di corsa per entrare nella cabina telefonica con i vetri incrostati dal tempo e la porta semidivelta dalla stupidità e dall’incuria della gente.
Mi sentii sollevata, come se finalmente fossi riuscita a scaricare un peso che mi gravava addosso, quando sentii la voce di Marinella che, quasi fosse in attesa della chiamata, mi forniva tutte le indicazioni per raggiungerla.
Se non ce la facevo a scegliere potevo almeno trovare la forza per cercare qualcuno che mi aiutasse a farlo, a non tornare indietro.
( Anna Maria Pantaloni )

Quando mi metto a scrivere, ho la sensazione
che sia il racconto a prendermi la mano, 
per andare dove vuole.

Il sogno dentro il sogno

  Il bosco all’improvviso si fa talmente fitto che è necessario accendere i fari.
I rami degli alberi folti di foglie  sembrano ricadere come per un vestito dal tessuto pesante, protendendosi verso la strada, a cercare un contatto per annodarsi in un abbraccio a lungo tentato, e si deve procedere lentamente anche  perché la carreggiata è stretta e le curve, che si succedono l’una all’altra, rendono ancora più precaria la visibilità.
La luce dei fari, due torce fioche e giallastre, crea strane figure sfiorando  l’ombra spessa e densa che si muove fluttuando davanti alla macchina e l’inquietudine, che sento crescere dentro di me, mi impedisce di distogliere lo sguardo fisso a scrutare anche il minimo movimento, a cogliere una presenza.
Il buio mi ha sempre creato una forte tensione interiore, non so se definirla paura e non so nemmeno spiegarla. Forse è proprio l’impossibilità di vedere che alimenta la fantasia, dà corpo alle nostre fobie, fa affiorare le pulsioni represse e nascoste, ci induce a proiettare all’esterno quello che è dentro di noi.
La luce distoglie, crea immagini che riempie di colori, definisce contorni, estrae le forme che attraggono la nostra attenzione, il buio ci isola, come se ci chiudesse in una cortina impenetrabile, obbligandoci a guardare all’interno di noi stessi e a vedere.
Mi è capitato più volte di accendere le luci in tutte le stanze, di alzare le coperte per scrutare sotto i letti, di avvicinarmi con cautela ad un angolo rimasto in penombra alla ricerca di invisibili nemici, di potenziali aggressori, mentre l’ansia si fa pressante in un turbinio di pensieri che quasi bloccano il respiro.
In macchina non sono sola e non sono io a guidare.
Le mani sul volante sono protette dai guanti, ma sono di un uomo, lo capisco dalle dimensioni e dal polsino della camicia che sporge sotto il maglione. Altro non riesco a vedere, non posso voltarmi.  Sono seduta comodamente sulla poltrona accanto al guidatore, leggermente reclinata all’indietro, tengo le gambe distese e ho un paio di pantaloni di un colore rosso scuro, ma sono scalza. Mi capita spesso, quando mi siedo, di togliermi le scarpe, lo faccio istintivamente, qualche volta senza nemmeno rendermene conto, salvo poi cercarle affannosamente, brancolando con i piedi in una ansiosa perlustrazione. Ma ora non riesco a trovarle, non ci sono. Apparentemente non c’è niente che mi trattenga, ma non posso muovere le braccia, nella tasca laterale dello sportello riesco a vedere la mia borsetta da viaggio con le tasche chiuse dalle cerniere, ma non posso girare la testa verso il mio compagno di viaggio, vedo solo le sue mani con la coda dell’occhio.
C’è qualche cosa di strano nel lento procedere della macchina, una sensazione insolita che non riesco a definire, cerco di concentrarmi per cogliere anche il più piccolo segnale e all’improvviso capisco: non ci sono rumori, né scosse, nemmeno il ritmico brusio del motore, mentre l’auto sembra scivolare sospesa su un cuscino d’aria, in un silenzio ovattato che mi fascia come bambagia.
Le immagini  si fanno all’improvviso più nitide.
Non sono più bloccata sul sedile, riesco a muovermi, posso spostare le braccia e girarmi liberamente.
Riconosco la macchina: è la nostra station wagon, la chiave nel cruscotto è inserita nel portachiavi che io ho regalato a Giovanni: è lui a guidare.
Ai lati della carreggiata gli alberi sono sempre più  fitti, tetri, ma non mi provocano più nessuna tensione, né paura, anzi ho fretta di scendere, mi sento attratta da quell’ombra morbida e avvolgente,  soffice come un prato dall’erba alta in cui si può correre e rotolare senza farsi alcun male, un mare dalle onde piene e stanche in cui ci si abbandona a occhi chiusi con inerte languore. Apro gli occhi lentamente con la sensazione che il corpo si sciolga in un rilassato abbandono, ma sono seduta sul  letto e sto tremando.
Forse è vero che il freddo non è una sensazione oggettiva, quanto piuttosto uno stato d’animo, infatti i termosifoni sono accesi, il piumone ben rincalzato sotto il materasso e Giovanni dorme tranquillamente.
Ho già fatto questo sogno molto tempo fa, ma non gliene ho mai parlato, non gli parlo più di niente.
La prima volta era accaduto dopo una giornata trascorsa in campagna, nell’agriturismo di sua cugina Lalla.
Ci eravamo alzati presto la mattina ed eravamo passati a prendere i suoi genitori che ci stavano aspettando.
Dopo tanti anni li sentivo ancora come degli estranei con cui parlavo con frasi convenzionali e ripetitive, sempre uguali, anche i gesti erano sempre gli stessi: un saluto, un bacio frettoloso, un’osservazione sull’aspetto, sul vestito, domande sulla salute che non attendevano risposta. Mentre rimanevo in piedi, bloccata in un sorriso inespressivo all’improvviso mi ero vista davanti la faccia agitata ed aggressiva di Michele Apicella, il protagonista di Palombella rossa, che inveiva contro una giornalista oca, prendendola a schiaffi, arrabbiato contro le banalità della vita e i luoghi comuni delle frasi fatte : “ ma come parla, come parla, le parole sono importanti…..chi parla male, vive male”.
Non mi è simpatico Nanni Moretti, mi disturba il suo narcisismo esasperato, ma è lucido e inflessibile nel cogliere lo squallore di certi gesti quotidiani, di certe rituali, inutili forme, adottate per nascondere il vuoto dei sentimenti, l’indifferenza, talvolta l’ostilità.
C' erano volute quasi due ore per arrivare.
Lalla e suo marito erano andati in pensione e avevano investito soldi ed energie nel vecchio casale  acquistato dagli eredi di un americano eccentrico, un misantropo, che vi aveva trascorso gli ultimi vent’anni della sua vita come accampato, lasciando che tutto si deteriorasse.
L’invito di quella domenica era per “inaugurare” il forno a legna, ripristinato dopo un lavoro di mesi per rifare il tetto, intonacare i muri, ripulire le pietre della facciata e liberare il vano interno dall’ammasso di rifiuti, oggetti inutili, ragnatele che il tempo e l’incuria avevano accumulato.
Una lunga tavolata fatta con assi di legno e già apparecchiata all’aperto annunciava la riunione della famiglia al completo, figli, fidanzate dei figli, sorella, zii e cugini dei padroni di casa.
Mi sentivo a disagio, l’idea di incontrarli, di rimanere a tavola per ore con persone che vedevo al massimo una volta all’anno, per Natale o per Pasqua, mi innervosiva, all’improvviso avvertivo la stanchezza, la fragilità di fronte ad un impegno faticoso per affrontare il quale mi mancavano le forze.
Mi ero ritrovata a guardare le bocche che masticavano come se fossero elementi autonomi, scissi dai corpi, labbra tinte dal rossetto che si scioglieva mescolandosi all’olio dei condimenti, denti radi, gote che si gonfiavano per il cibo, una goccia di vino che scivolava lungo il mento e poi sulla camicia espandendosi con un alone violaceo.
Faceva caldo, alla fine del pranzo la tavola sembrava devastata dall’accumularsi dei piatti sporchi, dei vassoi semivuoti, dove le pietanze, perduto l’equilibrio iniziale, si afflosciavano in strane poltiglie dai colori indefiniti, dei bicchieri, opachi per le tracce delle dita e delle labbra unte, sulla tovaglia ridotta ad una tela impiastricciata.
Un senso di inquietudine, di estraneità, mi aveva accompagnato fino a casa e, nonostante la stanchezza per il viaggio e per le tante ore all’aria aperta, non riuscivo ad addormentarmi.
Ero rimasta a lungo al buio con gli occhi aperti, scontenta di me stessa, della mia incapacità di lasciarmi coinvolgere come gli altri nelle chiacchiere di una giornata di svago, di un pranzo preparato utilizzando gli ingredienti che Lalla, con orgoglio, coltivava nell’orto in modo “biologico”, i fagiolini piantati con cura e ben annaffiati, il prezzemolo, il sedano, la salvia, disposti nelle aiole con una precisione millimetrica che testimoniava  l’ amore con cui lei vi si dedicava.
E poi quel sogno.
Al mattino mi  aveva sconcertato soprattutto il fatto di ricordarlo con la concretezza di una situazione reale, perché mi capita raramente di tenere a mente le immagini di un sogno, anzi invidio coloro che riescono a raccontare le loro fantasie notturne, spesso delle vere e proprie storie ricostruite con precisi riferimenti ai colori, ai paesaggi, ai dialoghi.
Tutt’ al più al risveglio mi rimane talvolta la sensazione di precipitare, di un discendere sempre più veloce e vorticoso, mentre una specie di tenaglia mi comprime la gola fino a togliermi il respiro e probabilmente è proprio questo senso di soffocamento che a volte interrompe bruscamente il sonno.
Mi sposto verso il comodino per guardare l’orologio.
Non voglio accendere la luce e lo  cerco a tastoni con la mano sfiorando la pila dei libri accatastati.
Mi arrabbio con me stessa per l’abitudine di non toglierli mai da giro dopo averli letti, lasciando che si accumulino in torri instabili, fino a quando non crollano costringendomi a trovare una collocazione più sicura.
Ho la sensazione di aver dormito a lungo, invece le lancette fosforescenti indicano pochi minuti dopo le due e il sonno mi è passato del tutto.
Non so che cosa fare. Provo a distendermi, ma ho gli occhi aperti e mi ritrovo a fissare il soffitto, non riesco a stare ferma.
Mi capita quando qualche cosa mi preoccupa o se mi annoio, soprattutto al cinema.
La noia si traduce in una smania alle gambe e in un bisogno di muoverle di continuo.
Devo stringere i denti per costringermi all’immobilità e non disturbare chi mi è vicino.
Cerco di resistere, poi cedo e mi alzo.
Sempre al buio trovo la vestaglia e cammino a piedi scalzi per evitare di fare rumore,esco dalla camera e accosto la porta dietro di me.
In cucina accendo finalmente la luce, mi siedo al tavolino con una rivista, ma non riesco a concentrami, ancora incerta se leggere un po’ per poi tornate a letto  o  rinunciare definitivamente e aspettare il mattino.
Il freddo mi sta prendendo lo stomaco, mi mancano i miei caldissimi calzettoni “norvegesi”, ma li ho lasciati nel cassetto del comodino e non voglio tornare in camera, sveglierei Giovanni e dovrei spiegare. Ho sempre dovuto spiegare qualche cosa.
Vorrei essere sola in casa, potermi muovere nelle stanze, accendere la radio, stendermi sul tappeto e giocare con la mia gatta. Invece devo camminare in punta di piedi.
Decido di scendere nel mio studio, lì posso fare quello che voglio, i rumori non arrivano al piano di sopra.
Mentre aspetto che si scaldi la macchina del caffè, mi siedo alla scrivania mettendomi davanti la stufa a gas che con il suo tepore mi dà immediatamente una sensazione di benessere.
Passo molte ore in questa stanza, ma ho la sensazione di vederla per la prima volta.
Il divano-letto, il televisore, l’angolo cottura, mi rendo conto di essermi costruita un po’ alla volta una casa dentro la casa, un nascondiglio, un rifugio.
Una volta qualcuno, non ricordo chi, mi ha detto che qui dentro si respira un’atmosfera alla “Anna Maria Ortese”. Non so perché mi torna in mente ora, ma forse conosco troppo poco di questa scrittrice per capire che cosa significhi, di lei ricordo una frase, un frammento di un’intervista :” Chi non scrive o legge mai, o solo su comando, per ragioni pratiche, è sempre fuori casa, anche se ne ha molte, è un povero, e rende la vita più povera”.
Mi viene istintivamente da pensare che Giovanni non legge mai, non gli ho mai visto un libro tra le mani, solo il quotidiano.
In una parete ci sono alcune fotografie incorniciate a giorno e scattate nei luoghi delle nostre vacanze, Praga, il ponte Carlo, la casa di Kafka, una piazza di Nuoro dove  io sono vestita di rosso, rosse anche le scarpe, Parigi, i giardini del Lussemburgo, ci teniamo per mano e doveva fare molto freddo, perché ho una fascia di lana che mi copre la fronte fino agli occhi. Riesco a ricordare i luoghi, i musei, le strade, gli alberghi, ma non so recuperare nessuna sensazione collegata a quelle immagini, come se non mi appartenessero e fosse stata un’altra a trovarsi lì.
Sopra il divano sono appese tre maschere africane. Una è molto bella, quasi rotonda, di legno chiaro, gli occhi sono scolpiti con due palpebre  pesanti e tutto intorno all’arcata sopracciliare delle perline colorate si alternano formando strani disegni: me le ha portate Giovanni, dall’Africa, da Cuba, quando abbiamo cominciato a fare le vacanze ognuno per conto proprio.
Sono anni ormai, quattro, cinque forse, che rimango a casa, che scelgo di rimanere a casa.
E la sensazione che più mi piace è proprio quella di essere finalmente sola, di non avere orari da rispettare, di mangiare quando ne ho voglia, di pasticciare in cucina a mezzanotte o anche più tardi se non riesco a prendere sonno, di guardare un film la notte e di dormire durante il giorno in una casa silenziosa, dove nessuno si muove, o parla o mi chiede dove ho messo gli asciugamani o perché ho cambiato posto alle tazzine del caffè.
Mi piace stare sola, mi pesa la solitudine, l’impossibilità di comunicare, quando le parole non trasmettono più niente, non alimentano uno scambio di idee, di emozioni, non ti sorprendono più facendoti arrossire, ma, davvero come pietre, erigono un muro sempre più alto e inaccessibile, fino a quando diventa impossibile scavalcarlo.
Forse succede quando si smette di avere cura delle parole, quando, invece di sfiorarle come un oggetto prezioso, si buttano là come un utensile usurato a cui non si fa più caso.
Faccio colare una doppia dose di caffè  in una grossa tazza da colazione e lo bevo caldissimo con una immediata sensazione di benessere, mentre il profumo che invade la stanza sembra rimuovere  anche dall’ambiente la penombra sonnolenta.
Non ricordo quando abbiamo smesso di fare colazione insieme.
Mi piaceva preparare la tavola con le porcellane bianche accanto ai tovaglioli colorati, tagliare la crostata, disporre i biscotti sul piatto da dolci, sentirmi sfiorare la mano da una carezza, scambiare un sorriso di complicità prima di uscire di corsa.
Mi assale la nostalgia, come se emozioni lontane, rimosse con faticosa determinazione, trovassero negli stretti e misteriosi meandri della mente un piccolo pertugio per tentare di affacciarsi di nuovo, per fare capolino, ancora fragili, troppo deboli per uscire allo scoperto: la voglia di parlare, di raccontarsi, la sensazione di essere osservata, l’attenzione per un gesto, per una parola preferita ad un’altra, il desiderio di capire, il timore di essere fraintesi, una frase riletta più volte, uno sguardo cercato, l’ansia di ritagliarsi uno spazio, di essere nella mente di un’altra persona, nei suoi pensieri.
Come quando la malattia annienta le energie, e non solo quelle del corpo, e, quando poi all’improvviso regredisce, togliendoci di dosso gli artigli che ci hanno lacerato, ci lascia disorientati, increduli, impreparati a riempire il tempo che si spalanca davanti all’improvviso, vuoto, informe, sfuggente nei suoi contorni indefiniti.
La lampada appoggiata sulla scrivania mi dà fastidio, provocando bruciore agli gli occhi, mi appoggio allo schienale della sedia per sfuggire alla luce troppo intensa, stringendomi intorno al collo la vestaglia e all’improvviso mi sveglio: il chiarore che ormai invade la stanza dando forma alle cose è quello che penetra attraverso gli spazi dell’avvolgibile, mentre con la mano cerco di tirarmi addosso il piumone che Giovanni ha trascinato dalla sua parte.
Mi sento disorientata, faccio fatica a trovare i punti di riferimento consueti, come se tutto si mescolasse alterando le proporzioni, le distanze, deformando gli oggetti.
Come per un errore in fase di montaggio le immagini si accavallano stravolgendo i tempi della storia, spezzoni impazziti sovrapposti a caso che rendono impossibile recuperare la linearità del tempo. Una operazione “bergsoniana”che distrugge le intelaiature nelle quale noi siamo abituati a sistemare i dati sensoriali e al passato e al futuro sostituisce e contrappone la durata, la contemporanea presenza del prima e del dopo.
Rimango immobile, ma ormai sono completamente sveglia, cosciente, consapevole.
Lo guardo, ha i capelli sugli occhi, la bocca leggermente aperta, mentre continua a dormire contraendo appena la mano appoggiata sul cuscino: non c’è niente che dia il senso della fragilità come osservare una persona che dorme, inerte, esposta allo sguardo degli altri che invece sono svegli, vigili, in grado di agire.
Non provo nessuna tenerezza, solo indifferenza, un senso di estraneità di fronte ad uno sconosciuto.
Ho voglia di alzarmi, di fuggire.
D’impulso tiro fuori le gambe da sotto le coperte.
Ho un pigiama rosso scuro e i piedi nudi.

( Anna Maria Pantaloni )

( due voci* )