Il pessimo e ‘l crudele odio, ch’i’ porto a dritta ragione al padre meo, il farà vìvar più, che Botadeo, e di ciò, buon dì, me ne sono accorto. (Cecco Angiolieri. XCIV )
( Mario Sironi, L'Architetto. 1922 ) |
L'atteggiamento irriverente di Cecco Angiolieri, il suo rifiuto delle regole,
la contestazione nei confronti del padre, gli sberleffi ai valori
tradizionali, hanno indotto alcuni critici a definirlo "poeta
scapigliato", ma la sua è una posa, un
"gioco" letterario che affonda le radici nella cultura antica.
Lo stesso Dante si attribuì un nobile cavaliere come antenato,
quasi volesse rimuovere l'immagine di un padre usuraio, "trovato legato tra
lordure, carogne, uomini bollati di infamia, usurai, mendicanti", come gli
rinfaccia Forese Donati in un sonetto della nota "tenzone".
Sarà, tuttavia, perché, mentre la Madre è "natura", il Padre è
"ragione" che ci troviamo di fronte ad un atteggiamento sempre
contrastato nei confronti della figura paterna.
Odio- amore, rifiuto- ammirazione, disprezzo-emulazione, ansia di ribellione,
voglia di fuga da una presenza oppressiva e condizionante, ma anche
inconfessabile tenerezza e disperata nostalgia, un rapporto comunque tutto da costruire, da immaginare, da
inventare, un confronto che fa soffrire, riflettere e,
soprattutto, crescere.
Dall'età del mito ad oggi, da Edipo a Don Carlos, da Zeno Cosini, che
rimprovera al padre di non aver saputo essere il modello nel quale riconoscersi,
a Pietro che, all'irruenza sanguigna di Domenico Rosi, il padre-padrone, sa
opporre solo i suoi "occhi chiusi", riproponendo, nel romanzo, il
drammatico conflitto dello scrittore, Federigo Tozzi , col padre, Ghigo del
Sasso, " un quintale e mezzo d'omo con certe mani che, se le chiudeva,
diventavano magli", la difficoltà di un dialogo, di un rapporto sereno tra
padri e figli, affiora, come una ferita sempre aperta, nella letteratura di ogni
tempo e di ogni paese.
"Tu hai un sorriso particolarmente bello e raro, sereno, contento,
consenziente, che può dare gioia perfetta a chi lo ottenga. Non ricordo che
nella mia infanzia mi sia mai stato direttamente rivolto, ma potrebbe darsi di
sì; perché mai infatti me lo avresti negato allora, quando ti sembravo ancora
innocente e mi consideravi la Tua grande speranza?"
Sono le parole che Franz Kafka idealmente rivolge al padre, senza avere mai il
coraggio di dirgliele, e c'è in esse una verità profonda: talvolta,
un gesto, uno sguardo, un sorriso riescono a comunicare quanto le parole non
esprimeranno mai, trasmettendo la fiducia, l'amore, la speranza "di sentirsi in
armonia".
Per sempre e dovunque saremo.
Le parole non dette
Ho sempre paragonato questa città ad Algeri.
Il suo biancore riflesso sulle acque verdi del porto e la sagoma nettamente
ritagliata contro il cielo blu cobalto, privo di nuvole, mi fa pensare
all’avamposto di un grande continente fatto di sabbia e di avventure.
L’odore di salmastro, pesce e spezie del quartiere del porto arrivano fino
alla nave e io li assaporo mischiati al profumo delle lozioni solari che i
turisti ansiosi di vacanza si stanno spalmando addosso.
Guardo i miei compagni di viaggio e mi diverto ad osservare il cambiamento che
avviene sempre nella gente quando parte per le vacanze. Cambia tutto: il modo di
vestire che diventa un mix tra l’abbigliamento da giovane esploratore e il
richiamo alla disponibilità sessuale; il modo di guardare che ostenta una
curiosità alla Livingston anche verso un negozio di bacinelle di plastica; il
modo di parlare che da posato e, magari, riflessivo si riempie di gridolini ed
esclamazioni urlate, di risate per tutto e su tutto, di doppi sensi ammiccanti.
Come faccio quando mi trovo in mezzo alla folla, in modo quasi automatico, cerco
con gli occhi mio figlio.
Lo vedo appoggiato al parapetto, sta guardando verso terra. Mi soffermo sulla
sua figura sottile e delicata, sulla posizione leggermente indolente che assume
quando è soprappensiero. Ha il mio Panama sulla testa – Dai papà! Solo per
questa volta - e la tesa larga gli ombreggia il volto fino alla bocca.
Le labbra sono piegate in un leggero sorriso.
Ancora una volta sento il desiderio di scrutargli dentro la mente, percepire le
emozioni, le sensazioni che prova, i ricordi passati e i desideri futuri che la
sua adolescenza comincia a comporre.
E ancora una volta mi vergogno di questo impulso. Ma quanto è difficile
riuscire a fermare e cambiare il senso di ciò cui si pensa. Un’immagine o un
ricordo può sviluppare, con rapidità, un’incredibile quanto inaspettata
quantità di correlazioni che finiscono per portarci lontano dall’origine
delle nostre riflessioni. Come Ulisse in una perpetua odissea, vaghiamo tra un
ricordo e l’altro cercando di tenere negli occhi l’immagine di Itaca; ma
l’immagine finisce per diluirsi inesorabilmente nei riflessi violenti del mare
che stiamo attraversando.
Questa volta le onde della mente mi buttano sulla spiaggia di un’isola che mi
intimorisce ma che sempre più spesso, negli ultimi anni, è diventata meta dei
miei viaggi.
Penso a mio padre.
Mi porto alle labbra il bicchiere di plastica col caffè ormai freddo, mentre la
sua immagine occupa sempre più spazio.
Sento cambiare il ritmo dei giganteschi motori della nave.
Sento parole e immagini di un qualche passato che mi scoppiano dentro come tanti
piccoli mortaretti.
Quando l’essere umano scoprì la potenza della matematica si accorse che tutto
poteva essere ricondotto ad essa. Non solo le scienze esatte o la ricerca dei
fenomeni naturali; ma anche le espressioni artistiche, il frutto della fantasia
e della creatività come la musica, la pittura o la poesia. Un individuo da cosa
è determinato? Quali equazioni possono descrivere la sua essenza?
La sua altezza muta col tempo, come la sua voce, i suoi pensieri, il suo modo di
esistere, di vivere. Tutto questo può essere canalizzato in calcoli di
possibilità; ma l’immagine di una persona nella mente altrui da che cosa è
composto? Se ci soffermiamo su questo, ci accorgiamo che la conoscenza di chi ci
sta vicino, delle figure che compongono il nostro mondo, è data solo da brevi
momenti di contatto. Da attimi in cui abbiamo avuto il tempo, l’occasione o,
forse, la voglia di osservare e sentire veramente.
Come una casa non è composta solo da mattoni e da cemento, ma da innumerevoli
oggetti accumulati negli anni che formano un’atmosfera che solo
quell’abitazione ha e nessun’altra; così un individuo, per gli altri, è un
collage di azioni. È un ricordo continuo.
Questo ricordo vive e respira, paga le tasse, va a fare la spesa, piange, urla o
parla. Frasi dette, conversazioni, scorci di esistenza gli scorrono nelle vene
al posto del sangue e lo tengono dritto, come la gommapiuma dà corpo ad un
peluche. Un peluche ben vivo nella mente del bambino che lo possiede.
Allora quali ricordi o quali sensazioni animano la figura di mio padre?
Mio figlio si volta a guardarmi, incrocia il mio sguardo e mi fa un piccolo
cenno con la mano; non un saluto, solo un segnale della sua presenza, una
distratta forma di rassicurazione.
Cerco di rivedere mio padre negli anni, in diverse situazioni. I ricordi più
chiari sono quelli dell’adolescenza. Lo vedo quando insieme andammo a ritirare
la nuova auto; una millecento bianca; un salto qualitativo rispetto alla vecchia
seicento simbolo del benessere italiano del dopo guerra.
Metto a fuoco quell’immagine e mi rendo conto che non vedo un uomo giovane ma
una persona già anziana con le tempie brizzolate e qualche ruga. Faccio
scorrere avanti ed indietro tutti i fotogrammi che lo ritraggono in frammenti
della mia vita e mi rendo conto che la sua forma fisica non varia, è congelato
ad un’età approssimativa tra i 50 e i 60 anni ed è questo uomo che mi appare
in tempi diversi. Cambio io, cambia la scena, o l’umore del momento, cambiano
i personaggi di contorno, ma lui è sempre uguale.
Mi rendo conto che la sua presenza nella mia vita intellettuale è iniziata con
la mia maturità e cerco di capire se altrettanto avverrà con mio figlio. Forse
l’accettazione della figura paterna è come una lenta assimilazione che
avviene in modo quasi inconsapevole. Una sorta di mitridatismo psicologico che
ci permette di sconfiggere il veleno della gelosia per la madre, il senso di
autorità oppressiva, il timore dei giudizi e il crollo del mito di grandezza.
La fase dell’odio.
Chiudo gli occhi per isolarmi completamente dal carosello di rumori e movimento
e cerco di concentrarmi su questo pensiero.
Si! Certamente un ragazzo comincia a detestare il padre, a disprezzarlo quando
si accorge che non rassomiglia per nulla all’immagine di eroe senza macchia e
senza paura coltivata in tutta l’infanzia. La prima giovinezza non è incline
a prendere in esame le sfumature, le tinte tenue del coraggio quotidiano, delle
piccole rinunce e dalla muta determinazione a difendere ciò che è giusto per
la propria coscienza. No! Vede solo l’azione gloriosa contrapposta alla
mediocrità piccolo borghese. Ed il senso di colpa per questi sentimenti
negativi porta ad un inevitabile stato di conflitto.
È il momento in cui i miti, i leaders entrano in noi felici di riempire il
vuoto creato. Milioni di generazioni di adolescenti, nelle varie epoche, hanno
cercato disperatamente di trovare un simbolo capace di contenere il loro
smisurato desiderio di gratificazione e la loro immensa paura del buio.
Ma proprio in questa fase inizia l’assimilazione del padre. I gesti ripetuti,
i tic, una particolare espressione o una determinata reazione. Come un
ectoplasma che comincia a prendere forma, il genitore rivive nel figlio; prende
possesso del suo corpo e dolcemente ne guida la mente.
Quasi senza accorgersene il ragazzo cita il padre, magari aggiungendo parole o
frasi del tipo: il vecchio, oppure, quello stronzo di mio padre.
Un tema deve avere un inizio, un corpo, una fine.
Eravamo nello studio, mio padre ed io, e mi stavo preparando all’esame
d'integrazione al liceo artistico. Mobili di noce, scuri ed armati di zampe di
leone con tanto di unghie, pelle sullo schienale delle sedie e libri.
Tanti libri.
Quante volte ho rivisto quella stanza nella mia mente.
Papà, sai, io non ricordo il tema che mi avevi dato da fare. Ricordo che era di
fantasia.
Aspettavo in silenzio che tu lo leggessi, spiavo la tua matita rossa e blu che
correva sulla pagina, il cuore si fermava ad ogni sua sosta e riprendeva a
battere se ripartiva senza ferire il mio componimento.
Alla fine il giudizio.
Fu positivo e nella discussione che ne seguì mi parlasti dell’inizio, del
corpo, della fine. Ma aggiungesti qualcosa, un segreto o, se preferisci, un
trucco - Se riesci ad aver chiaro come iniziare e come concludere il resto verrà
da solo. La cosa più complicata è la chiusura, la conclusione, perché è
quella che determina il valore ed il senso del lavoro.
Neanche adesso so perché quella frase, detta fra tante e tanto tempo fa, scavò
un solco nel mio pensiero. Si istallò facendosi largo tra tutti i richiami e le
distrazioni della mia caotica età adolescenziale, entrò in me assieme ai
rumori che provenivano dalla cucina e all’odore della cena quasi pronta. Si
accucciò come un grosso gatto soddisfatto d’aver trovato, alla fine, una
comoda poltrona dove sonnecchiare tranquillamente.
Però so che cominciai ad applicare la logica dell’inizio e della fine a
qualsiasi lavoro intellettuale mi accingessi a fare.
Un quadro, un progetto architettonico, uno scritto, una critica, l’analisi di
un artista, un film, una musica, un’operazione industriale.
In tutto e sempre ho cercato la chiave di inizio e, subito dopo, ho costruito la
parola fine. Ho addestrato la mia mente a sezionare gli eventi per poi
ricollocarli nel giusto ordine, nella sintesi assoluta.
Esisterà una mia frase, un’azione, qualcosa che mio figlio si porterà
dentro. Che lo aiuti a risolvere i compiti che la vita gli proporrà?
Apro gli occhi e vedo che il paesaggio sta ruotando intorno mentre la nave si
avvicina al molo. Sento lo schiocco delle gomene che vengono tese. Il suono
delle diverse conversazioni, i richiami, l’agitazione dell’arrivo bruciano
in un camino di una notte invernale, una notte di un Natale così vicino eppure
così indefinito nel tempo.
Tu mi parli di tua moglie, di mia madre.
Per la prima volta usi i verbi al passato parlando di lei. Forse per l’unica
volta.
Mi parli di quando l’ hai conosciuta e di un episodio legato ad un’altra
donna.
Mi parli di una scelta che non sapevi di fare, ma che fu definitiva e di una
madre che non ho mai conosciuto, diversa da quella che abbracciavo e che ho
pianto.
Io ascoltavo e ti sentivo per la prima volta non da figlio ma da padre.
Ascoltavo il tuo tono di scusa, di timore.
C’erano in quelle frasi le parole mai dette e mai osate.
Non riuscivo a guardarti, non per un senso di vergogna o d'imbarazzo, ma perché
sentivo sempre più forte il senso di similitudine e di appartenenza e non
volevo che la tua voce provenisse da un punto esterno a me.
Gli uomini vivono nel silenzio; le parole suonano secche, sbriciolate quando
devono comunicare i pensieri, i ricordi nascosti, quando si vogliono far
scivolare giù dalla china della genealogia. Noi siamo eternamente esterni
all’atto di nascita, non abbiamo cordoni che ci leghino e non immettiamo la
vita nei nostri figli col nostro sangue e col latte. Siamo i vicini di casa; un
volto noto, ma di cui si ignorano i pensieri, le abitudini, tutto.
Per milioni di generazioni abbiamo lottato contro questa forma di condanna
decretata dalla natura.
Lottiamo contro la morte totale dell’oblio.
Il nostro istinto di conservazione ha finito per creare una rete, un sorta di
tela di ragno che cattura la nostra prole proprio quando questa è convinta di
essere fuori da qualsiasi forma di controllo paterno. Imprimiamo nei figli un
codice a tempo che comincia a fendere il muro che divide le generazioni nel
momento in cui queste pensano di aver acquistato l’autonomia ed il senso di
distanza si fa più forte.
Durante la “Pesach” – la Pasqua ebraica – nella cena rituale - la “sedèr”-
che si consuma all’uscita dalla sinagoga, dopo il sorgere delle stelle, si
recita l’Haggadah. Non si può definire una preghiera ma un raccontare ed un
raccontarsi; i bambini fanno delle domande ed il capofamiglia risponde
ricordando le origini del popolo ebreo e la fuga dall’Egitto.
Abramo generò Isacco
Isacco generò Giacobbe
Giacobbe generò Giuseppe
Giuseppe generò Mosè.
Non dimenticare figlio mio.
Nel bene o nel male il figlio torna ad essere il padre, comunque ed in qualunque
caso.
Nell’amore e nell’odio, nel rispetto e nel disprezzo.
Tutti noi recitiamo un’eterna Haggadah e, al di fuori di ciò che possono
essere i geni ed il DNA, imprimiamo nei nostri figli un messaggio spirituale.
Noi siamo, insieme, i nostri figli ed i nostri padri.
Noi siamo il Karma dei nostri figli ed il Karma è Karma; vicino o lontano, noto
od ignoto, odiato o amato egli è inesorabilmente in noi. Possiamo rifiutarlo,
scacciarlo. Possiamo decidere che non ci appartiene, che siamo diversi, migliori
magari; ma lui starà lì vicino a noi, un compagno di viaggio che tenacemente
ci affiancherà per il resto della vita.
-
Papà abbiamo attraccato! La gente sta scendendo. Dai che dobbiamo
ritirare la macchina dal garage, non vedo l’ora di essere a casa del nonno!
Chissà se ha preso la salsiccia fresca!-
Guardo il mio ragazzo, mi alzo e lui mi prende per mano. Mentre l’ascensore ci
porta nella stiva della nave mi viene in mente un verso del poeta inglese John
Keats in <Ode to a Nightingale> che parla dei ricordi:
-
E non lasciate che essi scompaiano
-
così come un tenue filo di fumo
-
si annulla nel chiarore della luna.
No papà! non raccontare, io comincio a sapere.
Non ci sono parole non dette tra noi. Ci siamo detti tutto, sempre, senza
bisogno di dire.
Sento nella mia mano la mano piccola e liscia di mio figlio, la stringo
leggermente e lui risponde alla stretta senza neppure guardarmi.
Un gesto leggero, quasi inavvertibile. Ma è il nostro modo di lottare per
l’immortalità.
Mentre lentamente guido la macchina sul molo alla luce quasi accecante del sole
estivo sorrido al pensiero di un mio lontanissimo nipote che, magari su un
pianeta vicino alla costellazione di Orione, potrebbe, un giorno, dire a suo
figlio - Un tema deve avere un inizio, un corpo, una fine. Se riesci ad aver
chiaro come iniziare e come concludere, il resto verrà da solo.
(Massimo Carubelli)