AMNESTY INTERNATIONAL

Gruppo Italia 227

Reggio Calabria

Premio Nobel per la pace 1977

Premio delle Nazioni Unite per i diritti umani 1978


 

"NON SOPPORTIAMO LA TORTURA"

Morire su un tavolo di tortura. Il caso di Abdulhelil Abdumijit

Abdulhelil Abdumijit, venditore ambulante, 31 anni, era uno dei tanti scesi in piazza il 5 febbrario 1997 per manifestare contro le discriminazioni e le sistematiche violenze cui il regime di Pechino sottopone tuttora la sua gente, gli uiguri, etnia musulmana e turcofona che costituisce la maggioranza della popolazione nella regione autonoma dello Xinjiang.

La manifestazione si risolse nel sangue di centinaia di persone uccise o ferite durante gli scontri con la polizia, mentre altre migliaia venivano trascinate nelle carceri e nei campi di rieducazione dove per ricevere un po’ di cibo, i prigionieri, turcofoni, sono costretti a cantare motivi patriottici in cinese, restando digiuni, se non ci riescono.

Abdulhelil era fra i dimostranti e, fermato dalla polizia perché sospettato di aver guidato la manifestazione fomentando così il nazionalismo uiguro, fu più volte sottoposto ai pestaggi brutali degli agenti perché confessasse i suoi crimini e denunciasse i suoi complici.

Amnesty International, nell’ambito della campagna "Non sopportiamo la Tortura", aveva invitato, nelle piazze italiane, il 21 e il 22 ottobre, a firmare gli appelli perché anche i responsabili delle torture inflitte ad Abdulhelil fossero assicurati alla giustizia.

Ma Abdulhelil era già morto sotto tortura il 17 ottobre (la notizia è circolata solo il 23), nella prigione cinese in cui era detenuto; ai familiari non è stato permesso di ritirare il corpo, trasportato e sepolto in un cimitero, sotto la stretta sorveglianza delle forze dell’ordine.

Non conosciamo i particolari e probabilmente non sapremo mai sotto quale "raffinata" tecnica di supplizio il suo corpo abbia ceduto, ma sappiamo che l’armamentario a disposizione dei suoi torturatori è quanto mai vario e fantasioso, comprendendo l’uso di bastoni elettrici infilati in ogni cavità corporale, le iniezioni di sostanze che causano disturbi mentali e del linguaggio, i ceppi e le corde per legare i prigionieri nelle posizioni più dolorose, le unghie strappate e il crine di cavallo inserito nel glande.

L’orrore suscitato da queste pratiche disumane, attraverso le quali ci si prefigge di terrorizzare, punire, vendicarsi e disumanizzare l’uomo, il torturato, quanto, paradossalmente, il torturatore, e il pensiero che esse non siano esclusivo possesso delle stazioni di polizia cinesi ma, con le varianti geografiche e sociali del caso, si ripropongano in Kenia, Israele, Brasile, USA e in oltre 120 paesi al mondo, Europa compresa, ci rafforzano nella convinzione che il concreto impegno degli Stati contro la tortura non possa essere prorogato ulteriormente.

Esiste una Convenzione contro la Tortura ratificata da 119 paesi, esistono accordi internazionali, leggi statali che non possono essere più disattesi perché, come la vicenda di Abdulhelil insegna, oggi di tortura si continua a morire o, nel migliore dei casi, a restare segnati per tutta la vita, spaventati e bisognosi di cure per le ferite inflitte al corpo e alla mente.

Dar voce a chi, per paura, è stato costretto al silenzio, raccontare la storia di Abdulhelil, massacrato su un tavolo per supplizi o legato ad una sedia, serve a rompere l’isolamento delle vittime ed è un primo passo, importante, nella lotta contro la tortura, ma non basta.

"I responsabili circolano liberamente per le strade. Sequestratori, torturatori(…). Capita di incontrarli in un bar, in un ristorante, in un cinema. Capita anche che qualcuno li riconosca e li insulti. Di solito il criminale accenna un sorriso beffardo e si risiede a tavola, bene o male soddisfatto di essere ancora qualcuno. Ecco cos’è l’impunità" (Marco Bechis, regista di Garage Olimpo).

A questo sistema che s’impegna affinché i torturatori offendano, una volta ancora, con la loro impunità, i torturati, bisogna opporre, da parte di noi tutti, un altro tipo di impegno, altrettanto fermo e convinto, assunto nei confronti delle vittime, per restituire loro voce e dignità, e dei carnefici, perché paghino il prezzo di quanto commesso.

Amnesty International

Gruppo di Reggio Calabria

 

Non sopportiamo la tortura

Presentazione del libro

Ritorna alla pagina principale

Scrivici