COMMERCIO INTERNAZIONALE E NUOVE FORME DI INTERVENTO

dossier a cura dell'Associazione Ricerche Sette Nani - promosso dal CTM di Bolzano

versione provvisoria - primavera 1992


10. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

(di ARSENA)

Presentiamo in quest'ultimo capitolo una serie di considerazioni, frutto di un'elaborazione collettiva del gruppo di studio e ricerca "7 nani". Senza avere alcuna pretesa di scientificità, le valutazioni e le ipotesi di studio espresse qui di seguito, sono volte a stimolare il dibattito e a fornire una prima, opinabile interpretazione di quanto presentato nel resto del lavoro.
 

1. Effetti del commercio internazionale sui PVS

In termini economici, tra i principali effetti di un commercio internazionale di tipo tradizionale si può annoverare il deterioramento secolare delle ragioni di scambio (v. capitoli 2 e 4); appare infatti sempre più evidente che la specializzazione nell'esportazione dei prodotti del settore primario, profittevole per i PVS in base alla teoria classica del commercio internazionale, in realtà aumenta l'offerta di tali prodotti sui mercati mondiali, facendone cadere il prezzo. D'altronde, il maggiore dinamismo della domanda internazionale di beni manufatti avvantaggia solo quei PVS che riescono a inserirsi in particolari "nicchie" di mercato.

Sul versante delle importazioni, i prodotti industriali costituiscono la parte preponderante, creando una particolare dipendenza tecnologica e commerciale del terzo mondo nei confronti dei paesi industrializzati. Stesso effetto ha la gran parte degli aiuti allo sviluppo erogati sotto forma di "aiuto legato" ("tied aid"), ovvero condizionato all'utilizzo dei fondi concessi da un certo paese per l'acquisto di beni ivi prodotti. L'efficacia degli aiuti è poi connessa strettamente a una corretta progettazione, non solo nel breve periodo, dei relativi interventi: ad esempio diventano completamente inutilizzabili i trattori "regalati" quando scarseggi nel paese ricevente la valuta necessaria per acquistare i pezzi di ricambio.

Le ripercussioni del commercio con l'estero nei PVS non sono solo di tipo economico, ma anche sociali e ambientali (v. anche cap. 2). Basti pensare che l'utilizzo di ampie porzioni di territorio per lo sfruttamento delle risorse minerarie o per le monocolture provoca erosione dei suoli e devastazione, spesso irreversibili, come nel caso del diboscamento della foresta amazzonica; mentre lo spostamento di masse ingenti di popolazione comporta una serie di problemi sociali derivanti da un'urbanizzazione forzata, rapida e compiuta con scarsi mezzi.
 

1.1. Commercio estero e agricoltura

L'apertura agli scambi con l'estero modifica la struttura produttiva del settore agricolo, nel quale le aziende si specializzano spesso in colture da esportazione dirette a soddisfare i bisogni dei consumatori dei paesi industrializzati, abbandonando quelle tradizionali, che rappresentavano l'elemento base della dieta alimentare dei nativi (ad es. in Africa sorgo, miglio, cassava). Un'altra importante conseguenza è il mutamento delle abitudini alimentari delle popolazioni, che si orientano verso prodotti importati o donati per soddisfare la domanda interna; ciò fra l'altro apre la strada all'industria agro - alimentare dei paesi ricchi, Coca - cola in testa. Date le priorità assegnate dai PVS alle importazioni di prodotti manufatti e energetici, resta comunque in rosso la bilancia agroalimentare, ovvero essi esportano più alimenti di quanti ne importino. Di qui discende l'impossibilità di far fronte ai bisogni nutritivi di masse crescenti e spesso residenti in aree sovrappopolate rispetto alle risorse disponibili.

D'altra parte l'aumento degli scambi con l'estero assicura introiti non indifferenti che aiutano a colmare i "cronici" deficit delle bilance dei pagamenti dei PVS. Del tutto incerti restano però gli effetti di tali apporti sulla distribuzione del reddito non solo tra ceti ma anche fra i vari anelli della catena commerciale; in altri termini a trarre il maggiore beneficio dall'aumento del commercio agricolo con l'estero non sono quei contadini che pure sostengono la gran parte degli sforzi, ma quegli operatori economici che gestiscono la commercializzazione dei prodotti.

L'introduzione di colture per l'esportazione ha anche un considerevole impatto sulle forme proprietarie e dà impulso a una ristrutturazione imperniata sull'azienda capitalistica di grandi dimensioni a danno di quella tradizionale; perde quindi terreno l'impresa agricola a conduzione familiare o cooperativa, generalmente votata all'autoconsumo, e si fa strada il nuovo modello "export-oriented". Una tale "razionalizzazione" comporta diverse conseguenze, come ad es. una maggiore esposizione delle economie dei PVS alle frequenti oscillazioni dei prezzi sui mercati mondiali e la proletarizzazione degli agricoltori, che diventano braccianti o emigrano in direzione delle città (v. capitolo 7).

L'obbiettivo della massimizzazione della produzione attraverso colture intensive e l'uso di sementi ibride e sostanze chimiche, provoca, al di là degli effetti positivi in termini di alti rendimenti, evidenti ricadute ambientali. In particolare ricordiamo: il degrado del suolo; l'inquinamento di persone cose e animali dovuto all'uso di diserbanti e pesticidi, spesso di qualità peggiore rispetto a quelli in uso da noi; la riduzione della biodiversità, ovvero l'eliminazione di molte specie animali e varietà di sementi; la "creazione" di parassiti adattatisi geneticamente ai veleni e quindi indistruttibili.
 

1.2. Commercio estero e industria

I PVS vanno industrializzandosi seppure a "macchia di leopardo"; nascono aree di sviluppo nelle quali anche le imprese multinazionali dislocano, grazie agli incentivi di vario genere concessi dalle amministrazioni locali e al basso costo della manodopera (v. capitoli 4 e 5), stabilimenti generalmente basati su tecnologie a alta intensità di lavoro, con alcune eccezioni, come nel caso dell'industria informatica nel sud est asiatico. Peraltro si può affermare che il modello di sviluppo sperimentato dai "quattro dragoni" (Corea, Formosa, Hong Kong, Singapore), che ha comportato una rapida e fortunata industrializzazione, risulta non generalizzabile alla totalità dei PVS, per peculiarità storiche, sociali, economiche e geopolitiche. Al limite poi, se tutti i paesi seguissero un simile esempio ci si troverebbe comunque di fronte a un eccesso di offerta, a danno di tutti i produttori di manufatti.

D'altra parte, l'impatto ambientale della nuova industrializzazione è spesso elevato, e ciò si deve da un lato all'obsolescenza delle tecnologie, dall'altro alla mancanza di attenzione in materia da parte delle autorità dei PVS.

Uno dei casi più eclatanti di sfruttamento della manodopera e di devastazione ambientale si ritrova ai confini tra Messico e Stati Uniti, in quella fascia di territorio dove sono localizzate le cosiddette "maquiladoras", manifatture di proprietà statunitense nelle quali ci si limita spesso all'assemblaggio di componenti prodotti altrove, sfuggendo a qualsiasi regolamentazione, specie fiscale. Esemplifica invece l'importanza degli incentivi l'esperienza brasiliana della zona franca di Manaus, dove accanto ai negozi di merce importata prosperano le industrie di proprietà di multinazionali, protagoniste nel 1991 di proteste circa la supposta limitatezza delle concessioni del governo brasiliano in materia di importazione di fattori produttivi.

E' pur vero che gli investimenti esteri portano con sé una serie di conseguenze positive, a cominciare da un "trasferimento di tecnologia" e di risorse finanziarie, per finire con la creazione di posti di lavoro. Se è inevitabile che essi creino ulteriore dipendenza non si può negare che altrettanto ineluttabilmente pongano la sfida di un adeguamento del sistema formativo e in genere del ventaglio di competenze disponibili in ciascun paese; la posta in gioco è un adeguamento "consapevole" ai nuovi standard tecnologici, che moltiplica la competitività delle imprese nazionali e consente di acquisire un maggior controllo dei processi produttivi. Appaiono perdenti, alla prova dei fatti, quelle strategie di sviluppo miranti a un salto qualitativo dell'industria del tutto autoctono, basate perciò sulla protezione doganale e sui finanziamenti pubblici. Tali strategie, contrariamente a quanto abitualmente si pensa, hanno funzionato quasi esclusivamente nei paesi del sud - est asiatico, dove lo stato è intervenuto massicciamente per sostenere e indirizzare lo sviluppo industriale, specialmente nella fase di avvio e privilegiando, con scelte di politica industriale coerenti, i settori strategici per la crescita e le esportazioni. Hanno funzionato meno in altri casi, come ad esempio testimonia dell'industria informatica del Brasile, avviata con ogni protezione e con obbiettivi ambiziosi e giunta a risultati più o meno competitivi solo nel campo dei "personal computer".

Circa gli investimenti diretti dall'estero (IDE, v. anche cap. 5), va segnalata qui la generale tendenza alla stazionarietà, o diminuzione, quest'ultima in particolare nei confronti dei paesi africani a sud del Sahara; sembrano riprendere, anche grazie a forme di conversione del debito in azioni, i movimenti di IDE verso l'America latina e restano sempre consistenti quelli verso il Sud est asiatico. L'impressione è che i PVS restino al margine delle grandi correnti degli IDE, che tendono invece a aumentare all'interno della cerchia dei paesi industrializzati. D'altra parte la scarsa credibilità sui mercati mondiali di molti PVS, dovuta alla lunghe difficoltà di pagamento del debito estero e alla crisi economica in atto, in genere proprio nei paesi più indebitati, ne ha fortemente diminuito l'attrattiva per gli investitori stranieri, intimoriti dai rischi politici, economici e finanziari.

Vantaggi considerevoli presenta la forma di investimento attraverso le cosiddette "joint ventures", o imprese a capitale misto, straniero e locale. Per i PVS rappresentano un'occasione per facilitare i trasferimenti di tecnologie e impiantare industrie prima inesistenti, conservando un certo controllo gestionale; per le multinazionali esse hanno il pregio di ridurre il rischio rispetto al coinvolgimento diretto e di fruire di incentivi "ad hoc" erogati dai governi locali. D'altra parte tale forma di investimento costituisce, agli occhi delle multinazionali, un ripiego determinato da normative locali restrittive e non certo la scelta preferita.
 
 

2. I grandi temi e le alternative all'orizzonte

2.1. Due scenari per i PVS in crisi

Non è semplice trovare un filo conduttore che permetta di ricomporre un quadro unitario di quella modernizzazione che nei PVS va attuandosi sulla base di spinte diverse fra le quali c'è anche, con tutti i limiti ora ricordati, il commercio con l'estero.

La crisi finanziaria e commerciale attraversata dai PVS negli anni '80 ne ha seriamente danneggiato le economie e le popolazioni, mentre persiste, sul piano internazionale, una scarsità di capitali con i quali avviare la ripresa produttiva di tali paesi. Le classi dirigenti dei paesi industrializzati, sono dunque costrette a scegliere alcuni paesi - obbiettivo e a intervenire su di essi, spingendoli al "risanamento", nell'interesse non solo altrui ma anche proprio.

Quattro sono le leve fondamentali di tale azione: 1) politiche macro - economiche "suggerite" da Fondo monetario internazionale (FMI), Banca mondiale (BM) e pochi altri centri politici e finanziari; 2) prestiti di FMI e BM, dei governi e delle banche private; 3) investimenti diretti delle imprese; 4) facilitazioni commerciali dei governi. Solo alcuni paesi possono accedere a questo pacchetto, presentato come tale dai diplomatici "occidentali" nei negoziati con FMI e BM; quei paesi, "primi della classe" nel linguaggio degli ambienti finanziari, assumono la funzione di <leader> nella propria area (ad es. Argentina, Cile, Messico, Filippine e domani chissà Egitto o Pakistan), riproponendo le strategie, le tecnologie, il "saper fare" delle nazioni industrializzate che li hanno aiutati. Il tutto avviene nel rispetto dell'approccio paese per paese, che ha per effetto l'accentuazione delle divisioni tra i PVS; inoltre, come si accennava poco sopra, il complesso della manovra ha fra i propri obbiettivi di ottenere che il debito estero venga onorato.

In altri termini, tra i PVS facenti parte di una medesima area paiono formarsi gerarchie, sulla base di molteplici fattori, e in generale in base alla capacità di adeguarsi con prontezza alle regole del nuovo ordine economico mondiale e di avere il supporto, a tutti i livelli, che ne consegue. Così nell'Europa dell'est Ungheria e Cecoslovacchia hanno conquistato il posto d'onore accanto alla Germania e alla CEE, mentre in America latina i paesi più vezzeggiati e aiutati dagli Usa sono Messico, Cile, Argentina; stesso ruolo in Asia domani potrebbero ricoprire, ad esempio, Egitto e Pakistan.

Quanto alla Divisione internazionale del lavoro (Dil), così come si presenta nel nuovo ordine mondiale, si prospettano almeno due analisi e due scenari, uno meno ottimistico dell'altro; entrambi presuppongono l'ipotesi del mantenimento dell'attuale gerarchia, che vede al vertice i paesi industrializzati.

A) I PVS non riescono a tener dietro ai nuovi sviluppi tecnologici né a controllarli: gradualmente vengono marginalizzati, restando abbarbicati alla tradizionale funzione di fornitori di materie prime; le loro attività economiche vengono cioè "spiazzate" da quelle dei paesi industrializzati, grazie all'avanzata dell'automazione e agli incrementi di produttività in campo agricolo permessi dall'uso delle biotecnologie, concentrate in poche mani. Aumenta dunque il divario con i paesi industrializzati, non cambia sensibilmente il quadro del commercio internazionale.

B) Grazie all'accumulazione forzata di capitali del "decennio perduto" (gli anni '80), permessa dall'inflazione galoppante e dalla compressione dei diritti dei lavoratori, e ai "pacchetti di aggiustamento strutturale", che garantiscono una ripresa seppur minima degli investimenti, i PVS proseguono sulla via dell'industrializzazione e entrano massicciamente nella fascia bassa (tecnologicamente parlando) delle produzioni di manufatti; il divario tra paesi ricchi e poveri non diminuisce, ma i PVS rimangono inseriti nei flussi commerciali e tecnologici mondiali, sia pure in posizione marginale; il commercio include sempre più beni manufatti, mentre viene marginalizzato lo scambio di prodotti primari. Su questa ipotesi, e in particolare sulla ripresa degli investimenti, pesano il rischio delle fughe e l'incognita del rientro dei capitali massicciamente trafugati per tutto lo scorso decennio; fattore di ostacolo al rimpatrio è l'attrattiva rappresentata dai mercati di capitali occidentali, spesso preferiti dagli investitori dei PVS a quelli domestici.
 

2.2. La validità delle alternative possibili

Non accenna ad esaurirsi l'eterno dibattito sulla politica commerciale più adeguata per lo sviluppo, che vede protagonisti protezionisti e liberisti, non solo in sede accademica ma anche, ad esempio, ai negoziati del Gatt (vedi capitolo 3); pur se viziato da alcuni estremismi ideologici, non per questo risulta di minore interesse.

Molto spesso la sconfitta del socialismo reale nei paesi ex - COMECON viene collegata con la fine del protezionismo e l'inizio dell'era liberoscambista. Il nesso non pare appropriato; occorre ricordare fra l'altro che le barriere poste attorno al COMECON erano state innalzate proprio da quei paesi che oggi si fanno alfieri del più totale liberoscambismo, svelando tutto il tatticismo di posizioni propagandate come di principio.

D'altra parte la nuova richiesta di integrazione nel sistema commerciale mondiale che sorge spontanea dai PVS sottrae ai paesi industrializzati un comodo alibi: le misure protezionistiche che questi ultimi continuano a mantenere in vita, nonostante il liberoscambismo di facciata, sono sempre più unilaterali, e ostacolano in modo consistente lo sviluppo del commercio con l'estero dei PVS stessi. Ciò non significa che il puro e semplice libero scambio sia la soluzione ai problemi dello sviluppo, affermazione semplicistica e priva di ogni fondamento scientifico.

Al proposito va detto che le imprese più competitive, quelle che più beneficerebbero dell'apertura dei mercati, in non pochi casi (vedi capitolo 7) sono di proprietà di multinazionali; i vantaggi di un aumento delle loro esportazioni si ripercuoterebbero quindi solo in maniera marginale sull'economia del PVS "ospite".

Pur non potendo concludere sul punto, occorre ricordare che il protezionismo dei più forti trova sempre qualche giustificazione, quello dei più deboli invece è destinato a cadere. Solo lo sviluppo nei PVS di mercati interni di dimensioni e struttura adeguate ai rispettivi bisogni potrà forse un giorno rendere meno drastica l'influenza del commercio con l'estero sull'andamento delle economie. Nel frattempo, un oculato protezionismo nei confronti dei settori nascenti appare come l'unico modo per non "bruciarli" e evitare allo stesso tempo la iper - specializzazione nella produzione o coltivazione di pochi beni, rischiosa sotto tutti i punti di vista.

Da più parti si suggerisce un'ipotetica "terza via", lungo la quale peraltro vanno già muovendosi le singole economie: l'aumento del commercio intra - area, ovvero all'interno dei grandi blocchi, come quelli europeo (allargato in futuro a EFTA e paesi ex - COMECON), nordamericano, asiatico sudorientale. Ciò comporterebbe la rimozione di alcune barriere tariffarie all'interno delle singole aree, e il mantenimento di quelle verso l'esterno, sul modello della Ce; la competizione si sposterebbe dunque dal piano internazionale a quello inter - area.

Una delle conseguenze possibili di un simile mutamento di prospettiva è una Dl a livello di singola area, con i paesi più forti impegnati nella rapida industrializzazione delle proprie economie e i paesi più deboli invece addetti al ruolo di produttori di beni atti a soddisfare i bisogni primari degli altri. Tutto ciò rende più difficili i già deboli tentativi di integrazione tra PVS, come ad esempio il Mercato comune del Cono sud, appunto in America latina. D'altra parte la storia offre numerosi esempi di processi di integrazione economica regionale avviatisi attorno a un paese forte, che fu la Prussia nel 1870 per la Germania, gli Usa e la Gran Bretagna nel 1948 per l'OCSE, la Francia e la Germania nel 1957 con la CEE, ecc.; visti i risultati, non necessariamente sfavorevoli per le aree svantaggiate in partenza, non si può dire che una simile integrazione sia una via errata "a priori".

Fra le alternative, occorre anche considerare lo sviluppo di un commercio più intenso tra gli stessi PVS, che ribalti la tendenza vista nel capitolo 2; si tratta però di un'eventualità ostacolata da una serie di ragioni. Innanzitutto permangono legami storici di derivazione coloniale. Inoltre i paesi industrializzati possono permettersi di offrire "incentivi", in alcuni casi vere e proprie tangenti, in grado di smuovere qualsiasi uomo d'affari o pubblico funzionario dei PVS. Infine e soprattutto gli operatori economici del terzo mondo, governi inclusi, necessitano disperatamente di valuta pregiata, per acquistare fra l'altro quei beni a contenuto tecnologico elevato, prodotti "in esclusiva" nei paesi ricchi, che li mettano in grado di competere alla pari sui mercati mondiali. Per far giungere al Sud tale valuta, resasi meno praticabile la via dei prestiti a causa della crisi del debito estero, è dunque necessario che sempre più merci viaggino da Sud a Nord, e non fra i singoli PVS. Quest'insieme di motivi spiega perché solo il 4% del commercio mondiale era, alla fine degli anni '80, costituito da scambi Sud - Sud.
 
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ultimo aggiornamento: 16 settembre 1997

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