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Accusa di un delitto infinitoScarica il campione in MP3! [thinking.mp3 - 648 kB]meetScarica il campione in MP3! [deathfugue.mp3 - 662 kB]

Tatiana Zevi su "Accusa di un delitto infinito" e su "Meet"

"Accusa di un delitto infinito [Infinite crime accusation]" è, nel suo disegno generale, una ricognizione nel dolore per almeno quattro voci riconoscibili, voci diverse, provenienti da segmenti spaziali e temporali diversi.
La prima (una voce narrante) assume un carattere introduttivo, di apertura: "I can look at grief", e poi di congedo: "Merging". Distaccata ma non impersonale, ha quasi il carattere di una confessione, si chiude in una nota dolente, di partecipazione e rinuncia, mentre la musica ruota senza promesse, o senza sapere come promettere sino a svanire, accompagnata dal suono di campane che saranno una delle metafore centrali di tutto il lavoro, il punto d'attrazione attorno al quale si organizzeranno i suoni e le strategie descrittive della maggior parte delle composizioni. Centro sul quale agiscono le forze in gioco, (centro di tensioni) si risolve in una nostalgia, con un taglio drammatico e luttuoso che emergere nei due accordi finali della seconda canzone. Gli altri parlanti, che ne condividono la solitudine, ragion d'essere della raccolta di canzoni, fanno capo a lei, testimone della loro presenza e agente di un riconoscimento (ricognizione come riconoscimento piuttosto che come esplorazione), di una possibilità di interpretare (vedere -> interpretare) e veicolare una serie di reazioni al dolore, la prima delle quali è anche la più emozionale: scura, immediata.
Affidata alle due composizioni più cantabili del disco, è intrisa di morte, inconciliata, riscattata dal patetico dalla concisione dei versi. Rintoccano campane, quasi urlano, in uno spazio inaccessibile, è essa stessa inaccessibile, offrendosi definitivamente al proprio sentire. Incapace di affrontare il problema della propria identità, non ne ha accettato o intuito la riformulabilità e non può porre che un'alternativa fra la vita e la morte. Forse non a caso i due brani che ne veicolano la voce sono quelli dalle linee vocali più armoniose, immediatamente evocative: Thinking, che nel suo svolgimento quadripartito, assume i toni di una pensosa dolcezza; e Pain, che dopo una rapida e rovinosa introduzione, modula all'insegna di una potente unità pochi, cupi accordi e un dettato paradossale e nello stesso tempo conclusivo, dove la compattezza si pone in una stretta relazione con la distruzione invocata. (Distruzione contro destrutturazione, per rimandare al titolo del brano strumentale sul quale si bilancia l'ordine delle conoscenze, delle cognizioni, di cui quest'opera si fa carico.) Finisce per approdare a un esplicito senso di chiusura, confermato dall'assenza del terzo dei versi iniziali, ripetuti due volte: Pain/ Destroy me/ I'm happy. Le due canzoni sono divise dai brani strumentali più angosciosi e astratti: ampie stanze deserte, nelle quali ci si aggira cercando un segno, una traccia di memoria, o di comunicazione, utile.
Diverso il caso di E. D. (Emily Dickinson), poetessa troppo conosciuta perché meriti di darne qui alcune notizie. Una dolorosa partecipazione al mondo, in cui un'immaginazione sempre all'opera, incline a trasformare tutto, estremamente vigile, filtra gli eventi che ne hanno tormentato l'esistenza in una nuova dimensione, precaria quanto si vuole, ma oggettivata dal fiore che porta con sé a giustificazione del proprio volto. I suoni si fanno liquidi e siderei, accompagnati da un rintocco dilatato e profondo, sommerso, marino. Un esempio di sopravvivenza, nel rimodellamento della trama che non smette di soffrire.
Anna, che nel film di Risi come nel diario da cui il film prende le mosse è protagonista di una rinascita (letteralmente riattraversa gli stadi della sua crescita dai primi giorni di vita fino all'adolescenza), è colta nel momento della sua estrema disperazione e ha una sua purezza - è chiusa in sé- essendo venuto a mancare un linguaggio comune, spazio dell'equivoco e della comunicazione, della deformazione comunicante. Di tutti i non amati, il messaggio di Anna si propone in una cifra difficile ma con una struttura, permeabile dall'esterno, conoscibile, da conoscere soprattutto perché oscuro, irraggiungibile, e dunque allarmante (la ritmica incalza, martellante, venti soffiano, carichi di voci), si fa riconoscere in una narrazione, non in una dichiarazione, di sé.
Per tutto il tempo è la musica a sondare il reale, come se l'autrice, chinandosi sui protagonisti altri della propria ricognizione del dolore o chinandosi attraverso di loro, puntasse verso l'oggetto incomprensibile, come se il dolore, in quanto estraneità, potesse essere individuato, oltre la misura delle parole, da un oggetto altrettanto tattile, corpo estraneo a sua volta, mappa di suoni, come se la comprensione fosse per sua natura anche un'alienazione. Così la campana, resa mai in modo concreto ma calata sempre in altri spazi, condotta verso un orecchio astratto, si fa di volta in volta metafora non solo descrittiva di ognuno dei protagonisti parlanti della raccolta di canzoni, ma anche cifra di quest'alienazione, di questo aver visto, riconosciuto e sofferto di nuovo per la loro angoscia. Trovando un ingresso e un'uscita, tuttavia amari. E si isola in un brano, Destructure, che come la strutturazione, rivela un'attenta strategia intellettuale, concentrata sulle dimensioni, sull'equilibrio dei suoni e dei volumi, delle entrate in campo. L'instabilità del brano diviene allora un simbolo della sopravvivenza come della metodologia del sopravvivere in condizioni in cui l'integrità del sé rappresenta forse il maggior pericolo, l'incapacità di trasformare, ridurre, destrutturare ciò che, nella sua integrità, confina ossessivamente con la sofferenza.
Ciò che permane (Lato acqua) ha un suono fluttuante, lontano, in cui il tintinnare di campanellini emerge appena, nell'assenza di tutti.

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"Meet", la successiva produzione discografica, esce, in collaborazione con Nobody, musicista triestino, per World Serpent: "L'idea della collaborazione prese forma con una canzone che avevo scritto, che mi sembrava adattarsi alla voce di Stefano. In seguito ci lavorammo insieme, dopo che ebbi scelto il testo, una poesia di Paul Celan." Forse la sua poesia più celebre, "Deathfugue". Scelta che non può apparire né casuale né sorprendente, se si considera la luce sotto la quale il dolore individuale era evocato nel CD con cui Leutha ha esordito, quella cioè di un crimine, che attira su di sé la punizione, o di un delitto perpetrato ai danni di qualcuno. Di qui al riconoscimento del delitto nella storia e che non ci sono necessariamente punti di contatto fra le due esperienze, fra l'esperienza propria dell'angoscia e della solitudine e l'esperienza quasi intollerabile di un delitto per il quale non possiamo, emozionalmente, proporci come testimoni attendibili, il passo è breve. "Riconosco che è stato sconvolgente per me scoprire quanto l'ambiente musicale con il quale Adf viene associato intrattenga relazioni perlomeno ambigue con le politiche che portarono alla guerra e allo sterminio. Volevo prendere le distanze, dire una parola inequivocabile, ribadire che era accaduto davvero." E non solo, ma ogni volta che era accaduto, era accaduto "infinitamente", (cioè, non vi si può porre rimedio, non può essere riparato) ogni volta ai danni di una singola persona, per sei milioni di volte. Il proposito, da questo punto di vista, è comprensibile, chiaro, "ma non so se sia possibile stabilire una relazione fra il dolore che conosciamo e quello che non possiamo aver conosciuto", quel che le canzoni dicono, dicono, allora, in qualche misura, fuori di sé. "Non senti le voci?" chiedeva Anna. Per quanto chiaro, il proposito trova esito in un canzoniere breve, ma dalla singolare articolazione, in cui "Deathfugue", che ne costituisce il centro espressivo, viene proposta in due versioni, versioni di una stessa canzone però tutt'altro che radicalmente diverse. La canzone ha anche il compito di conciliare le rispettive competenze stilistiche dei due musicisti, che mantengono altrove una maggiore autonomia formale. Va detto, senza sbilanciare il risultato finale del loro lavoro in comune. Competenze stilistiche per certi versi opposte, se si vanno ad osservare da vicino l'angosciato lirismo elettronico di Leutha da un lato, e dall'altro il malinconico, fatalistico folk di Nobody, che per l'occasione rinuncia però ad alcune delle orchestrazioni che avevano caratterizzato il suo precedente CD, Transparent Seasons, sempre pubblicato da World Serpent. Leutha a sua volta si mostra più disponibile verso una forma ancora canonica della canzone, alla quale aveva quasi completamente rinunciato in Adf, e alla quale rinuncia anche nei due episodi più personali che introduce in "Meet". Rinunce che permettono ai due artisti di raggiungere un equilibrio esemplare nelle due versione di "Deathfugue", fra le quali cade allora una differenza che per non essere radicale appare molto più significativa, una differenza di tono, o piuttosto di grana, di materia, ottenuta in fase di missaggio. Come se queste due canzoni stessero agli estremi opposti di un diametro, appartenenti a una stessa circonferenza, il cui centro, inespresso, rappresenta un confine. La scelta del testo, difficile, se non impossibile, da esprimere una seconda volta, li ha indirizzati verso una dizione piana, in cui le loro voci sembrano seguire due linee parallele, a diverse altezze, ma senza forzature drammatiche, semmai appena più intensa e spezzata quella di Leutha. Fra la prima e la seconda delle due versioni cade allora un'ombra, la loro voce, mentre la musica muove come un passo fra la terra e l'aria ("...scaviamo una tomba nell'aria là non si giace stretti...ci comanda di scavare una tomba nella terra..."), in un senso di perenne fluttuazione, come fra due rintocchi di campana che battono sempre lo stesso istante, o lo stesso impossibile intervallo di tempo e di senso fra due espressioni dello stesso istante. Fra questi due segni, prendono forma le dizioni più personali dei due artisti, che si precisano con Nobody in una difficile, quasi negata conciliazione con gli altri e con il mondo, e con Leutha in una ulteriore decifrazione dei temi della morte e della sopravvivenza. Senza che se ne debba ricavare un'integrazione tematica improponibile, impossibile a compiersi.

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