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Prima di iniziare questa mia breve descrizione di 'Plan(e)s for empty cities', vorrei
ringraziare Franco Basso per il suggerimento di quella (e) in Plans che ha dato
termine alla difficile ricerca di un
titolo, che aderisse il più possibile all'idea generale del lavoro e che fosse
al tempo stesso chiaro ed essenziale.
Il percorso incerto e irregolare che mi ha portato alla realizzazione di questo
disco ha avuto inizio con un viaggio un po' casuale in Croazia attraversando il
territorio del Friuli e della costa Slovena, nell'autunno del 1998; rimasi
profondamente colpita dal paesaggio carsico, sterile e desolato, e dalla sua disincantata bellezza.
Al ritorno iniziai a cercare dei libri di poeti Croati e più in generale Slavi, ma
si dimostrò molto difficile trovare dei titoli in lingua italiana, anche se ben
presto, grazie ad Alexandra Foresto, trovai nelle parole di Ivo Andric molto di
quel che avevo capito e che mi aveva colpito. Mi interessai anche di Sop, che
però ho escluso, per alcune scelte tematiche conclusive, dal lavoro.
In quello stesso periodo stavo ascoltando Luigi Nono, 'Diario Polacco II', testo a
cura di Massimo Cacciari, un montaggio di poeti russi e polacchi, e cercavo di
capire se fosse possibile per me dire qualcosa a proposito del dolore e della
sofferenza oggi, anche alla luce delle recenti guerre che hanno un loro
nocciolo storico oltre i confini della Jugoslava di Tito. Tutto il lavoro si
basa su questa possibilità.
Ripetei il viaggio in altre due occasioni, verso Zagabria.
Il mio approccio musicale è stato come sempre mediato da processi compositivi più
legati al linguaggio della pittura e a
quello dell'architettura a me più famigliari che al formalismo musicale
classico. In questi anni mi sono interessata quasi esclusivamente alla costruzione
dei suoni, prima con l'M1 e ora con il nordlead e ai loro 'infiniti possibili',
alle infinite variazione di questi. L'ascolto della musica elettronica pop mi ha portato a riscoprire la musica classica grazie a quel manipolo di sperimentatori italiani: Nono, Berio,
Maderna, ..., che sono all'origine della sperimentazione elettronica in Italia.
Confesso
di usare dei mezzi minimi, strumentazione a basso costo, ma questo confine mi
aiuta a renderli più simili a quello che cerco, prima, durante e dopo la
produzione e penso non siano questi a fare il contenuto della musica, al
massimo l'ornamento.
Purtroppo
oggi si fa dell'ornamento musica, e delle opinioni verità, come avrebbe detto
Adolfo Loos.
Ivo Andric 'Sentieri': 'Su questi sentieri che il vento spazza e la pioggia lava e il sole infetta e disinfetta, sui quali ci si incontrano solo bestie sofferenti e uomini taciturni dai volti duri, ho fondato il mio pensiero sulla ricchezza e la bellezza dell'universo. E' lì che inesperto, debole e a mani vuote sono stato felice di una felicità inebriante fino allo svenimento, felice per tutto quello che lì non c'era, non può esserci e non ci sarà mai... sotto tutti i sentieri della terra scorreva sempre, dal giorno che l'ho abbandonato fino a oggi, visibile e palpabile solo per me, l'aspro sentiero di Visegrad. In realtà è su quel sentiero che ho misurato il mio passo e adattato il mio cammino... impervio, umile, sublime sentiero di Visegrad che lenisce ogni dolore e cura tutti i mali, perché tutti li contiene e tutti li sovrasta'.
Ed è con un breve pezzo di prosa scritto da Andric che si apre il disco: il testo parla della sofferenza di colui che vive e comprende due mondi, che non riescono a conciliarsi, oriente ed occidente. La musica accompagna il parlato con un suono che oscilla tra i due amplificatori. Il brano si porta su quattro piani con l'emergere tra un fruscio incostante del recitato in russo di parte di una poesia di Arsenij Tarkovskij, 'Il manoscritto', dedicata a Anna Achmatova. Per la voce ho voluto simulare l'effetto dei vecchi comunicati radio con l'uso di un vecchio registratore a bobina: un 'geloso', suono di sonagli. Si conclude con dei versi di Czeslaw Milosz '...perché l'altra ho perduto- perché le sue città sono vuote- perché il cardo ha coperto la sua terra...' e un suono di feedback in risonanza conclude la parte.
'Mosca
chi sei?-...' così inizia la seconda parte, da una poesia di Velemir
Chlebnikov, le parole sono sezionate, interrotte, allungate, dimenticate e
riprese, dal delay, che si trascina dietro anche dei rumori generati dal
processore durante l'azione, in diretta.
Senza
soluzione di continuità dei versi di Alexandr Blok.
Ripresa
del tema 'Mosca chi sei?-...', come memoria ossessiva, dove si accavallano tre
voci, due delle quali campionate, quella in russo ripete '...ma è così
poco-...' anticipando la seconda poesia di Tarkovskij; questa parte termina con
un lungo, che non vorrebbe essere eterno, 'aspetterò', perché null'altro è
rimasto da fare tranne che aspettare la comunicazione di qualcuno che ha visto
oltre, che ti possa aiutare, perché sembra che tutto sia stato provato e
null'altro possa essere detto.
Boris
Pasternak permette ancora di sperare: nel suono residuo del finale si innesta
un pezzo 'rumoristico' 'fatto di piccole variazioni tonali, è la memoria del
precedente, che viene ripreso ma con suoni differenti, da questi emerge la
recitazione in russo della poesia di Arsenij Tarkvoskij recitata da parte di
Alexandra Foresto, che sembra dire: tutto è andato per il meglio '...ma è così
poco-...', perché si è consci che non è più possibile costruire l'infranto. Il
disco si chiude con un coro ortodosso per 'Placare le sofferenze'.
Attualmente
credo che la mia musica si fondi da un lato sulla costruzione di suoni e in
particolare mi interessa la loro spazialità fisica, dall'altro sulla ricerca
introspettiva di coerenza, correttezza all'interno di quel che faccio. Queste
sono sicuramente le cose che al momento trovo importanti.
Credibilità-
forse questo è il tassello più difficile.
Questo
lavoro è dedicato a persone che
soffrono, anche a persone che non ci sono più e in particolare alle vittime di
violenze, come scrive Barry Bermange, 'perpetrate dall'uomo, contro l'uomo'.
Esistono
dei diritti umani, non è una questione di formalità, il problema è che questo
alto senso di civiltà appartiene a pochi, in molti soffrono nell'impossibilità
di cambiare le proprie sorti, e in troppi gioiscono nella propria crudele sete
di avere tutto e sempre di più, senza considerarne i risvolti.
Roberta
Astolfo 14-4-2000.
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