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Dove nero è il colore / dove zero è il numero

L’elemento del crimine di Lars von Trier

di Alberto Scandola

 

regia: Lars Von Trier; sceneggiatura: Lars Von Trier, Niels Vorsel; fotografia: Tom Elling; musica: Ro Holten; interpreti: Michael Elphic, Esmond Knight, Meme Lai; produzione: Per Holst Filmproduktion; origine: Danimarca, 1984; durata: 103’.

Da Il Cairo, dove da tredici anni è in ‘esilio’, il detective Fisher viene richiamato nel cuore dell’Europa. Un vecchio collega di polizia, Kramer, chiede il suo aiuto per catturare un pericoloso serial killer di bambine. L’Europa che ritrova è invasa dall’acqua, e profuma di morte: cadaveri nascosti nel carbone, adulti che giocano a gettarsi nel vuoto con una fune legata ad una caviglia. Per portare a termine l’impresa, Fisher adotta il metodo teorizzato dal suo vecchio professor Osborne: identificazione completa con l’assassino. Ma già qualcun’altro, prima di lui, aveva applicato questo metodo. Fallendo completamente.

"...ho camminato e strisciato \ su sei strade contorte \ ho camminato nel mezzo \ di sette tristi foreste \ sono stato davanti \ a dodici oceani morti \ sono stato diecimila miglia \ nella bocca di un cimitero \ e una dura, dura \ dura pioggia cadrà"1.

(Bob Dylan, Hard Rain's Gonna Fall)

 

Non è dura la pioggia che accompagna il viaggio in auto di Henry Fisher verso Albertstadt, prima tappa dell’itinerario che lo condurrà sulle tracce del killer della lotteria. Non uccide, anzi: accarezza dolcemente i corpi di due amanti adagiati sul cofano di quell’auto. Gli specchi d’acqua attraversati dal protagonista sono sì morti, pieni di carcasse di animali, ma l’apocalisse, quella, deve ancora arrivare. Questa è una pioggia fastidiosa, costante, monotona, che penetra anche negli interni marci dell’albergo dove il detective possiede per la prima volta la misteriosa Kim, ex-amante del ricercato Harry Grey (l’amplesso sul maggiolino avverrà poco dopo). Ecco perché, come dice lei stessa, "le lenzuola non si asciugano mai". Dietro i veli umidi di un letto a baldacchino ella si offre a Fisher. Teli molto simili ci faranno intravedere, con un più sensuale effetto di controluce, le ombre dei due aman ti perseguitati da Medea (Medea, 1988), Giasone e Glauca: un amore diverso da questo, ma anch’esso impossibile, da sempre e per sempre. ‘Mai’ e ‘sempre’ sono le uniche determinazioni temporali consentite nel futuro "senza tempo"2 in cui Von Trier ambienta la sua storia. Senza tempo, come quella del mito di Medea, è in fondo anche la storia d’amore di Kim e Fisher: bloccata in un eterno presente, dove il tempo è messo tra parentesi, e Fisher si firma Harry Grey. Sono passati tre anni, dice il registro dell’albergo, ma Fisher ha sempre la stessa emicrania di Grey: il portiere di uno dei vari hotel non ha dubbi, e gli presenta il conto di un analgesico ancora da pagare. Alla vista del sangue di Kim, il nuovo Grey reagisce nello stesso modo violento con cui si comportò il suo doppio, il suo predecessore. Perché lui, forse, ad un certo punto, si sente da sempre Harry Grey, così come un altro famoso potenziale infanticida del cinema, Jack Torrence, è "sempre stato il portiere dell’ Overlook Hotel". Come Torrence, Fisher è un assassino fallito, in quanto arriva solo vicino a commettere il gesto. Per il resto, tra l’asettico illuminatissimo microcosmo di Shining e questo buio europeo in putrefazione, l’unica cosa in comune sono le bambine fatte a pezzi: quel macabro "lavoro" sul corpo che, secondo l’anatomopatologo a cui il detective si rivolge, "rende interessante" un cadavere rispetto ad un altro. La replica di Fisher a questa affermazione necrofila svela tutta l’ironia tragica con cui Von Trier filtra la sua materia drammatica: "Ma dove si è specializzato lei, ad Auschwitz?". Si ride, per non diventare troppo seri.

Gli eterni ritorni, comunque, non finiscono qui. Intorno a Fisher, il giallo al neon opacizza tutto, rende incerti i contorni tra le cose, divora e avvolge come faceva il bianco attorno ai passi di un altro nottambulo di nome Gray: David Gray, il vampyr-killer di Dreyer (gray è la variante americana del vocabolo inglese grey). David Gray, Harry Grey, Fisher\Grey: nella nebbia, bianca o gialla che sia, killer e sterminatori di killer (o più semplici investigatori), si confondono.

Tempo bloccato, dunque; tempo che passa restando sempre uguale. Proprio come accade sott’acqua, ad una certa profondità, dove il buio e il silenzio impediscono di constatare il passare del tempo. E l’acqua, come dice Fisher all’inizio del suo sonno, qui è "dappertutto". Zentropa del futuro? No: forse, quella in cui il nostro eroe ritorna, è una Zentropa ‘anno zero’, tutta macerie e rovine. ‘Zero è il numero’: l’ipnosi a cui egli è sottoposto azzera i due mesi di tormento al Cairo e, chissà, forse lo guarisce dal suo malessere, dalla sua "dilaniante emicrania". Se l’ipnotista riavvolge il tempo, l’occhio della m.d.p. lo dilata, prolungando con il ralenti i movimenti plastici di corpi che affogano nell’acqua (il cavallo nella sequenza del porto) o si gettano contro il vetro di una finestra, come fanno Kim e la piccola venditrice di biglietti nel finale. In questo modo ciò che potrebbe sembrare disgustoso, come una ca rcassa sporca di fango e sangue, appare bello, esteticamente bello, nella leggerezza e nell’armonia plastica di uno salto nel vuoto. O di una risalita dall’acqua, come quella del cavallo di cui sopra, ripescato con una gru in un "grande tuffo" verso l’alto.

Perché "il film - come ha confessato il suo autore - è un cantico, un omaggio alla vita, al quotidiano, a ciò che consideriamo banale, e che non è per niente tale, e a ciò che percepiamo di solito come brutto e che invece, secondo i miei criteri estetici, è bello. Il film è anche religioso, perché esalta la magnificenza della vita intorno a noi"3.Rendere omaggio alla vita facendo vedere chi, come i ‘grandi tuffatori’, la vita la butta via, può apparire contraddittorio. Ma, forse, quello che vediamo, compresa la "magnificenza" della torre di immodizie in cui giocano i bambini, è solo il riflesso capovolto di un mondo luminoso e florescente, che le tenebre del sonno oscurano, ma alla cui esistenza sembra credere il pur razionalissimo Fisher: "Kim, ti confesso che credo nella gioia". Von Trier, lo sappiamo, ama fare capovolte orizzontali con la sua m.d.p., che spesso gir a su se stessa attorno ad un personaggio fermo ripreso dall’alto: in questo modo osserviamo Kim avvolgere un laccio attorno al capo del sofferente Fisher, ma anche Medea ed Europa (1991) abbondano di rotazioni vertiginose del punto di vista. Capovolta in verticale ci appare, illuminata da una lanterna, la sagoma del vecchio prof. Osborne durante il primo colloquio con il suo ex-allievo. Uno specchio appoggiato sul pavimento ne riflette però solo una parte del corpo, mutilandone le gambe, così come l’inquadratura che contiene questo récadrage (quadro all’interno di un quadro) ci nasconde il tronco di Fisher, lasciandoci vedere solo i piedi. Ricordiamoci che quello che vediamo è solo il riflesso di qualcosa che è già accaduto. Un riflesso sbiadito nel ricordo di un dormiente in preda all’emicrania, disteso su un lettino di un ambulatorio, probabilmente a testa in sù. Quasi capovolto, dunque. La suddetta angolazione della m.d.p. ce lo r ipresenta mutilato, gettato fuoricampo, fatto a pezzi come le piccole vittime del mostro a cui egli sta dando la caccia. Anomalo ed eccentrico, focalizzato sull’immagine nello specchio al centro dell’inquadratura, questo è comunque un punto di vista ambiguo. Forse è Fisher che si rivede così, o forse l’occhio è quello dell’ipnotista, che ascolta i ricordi di Fisher e li rielabora visivamente, per noi, nella sua mente. Distorcendoli, è inevitabile, e perdendo dei passaggi narrativi del racconto, come capita anche al montaggio. I raccordi di continuità spaziale infatti spesso saltano, trasportando i personaggi con un semplice stacco da un interno ad un esterno, elidendo qualsiasi piano di ambientamento.

Nel caos di questo mondo in decomposizione le posizioni si capovolgono: così uno specchio, normalmente appeso in verticale, è adagiato per terra, mentre Fisher disegna la sua mappa su di un muro, invece di servirsi di un supporto orizzontale. Nella mappa che rappresenta gli omicidi del mostro è raffigurato un quadrato, un percorso chiuso in se stesso, come chiuse sui volti dei personaggi sono numerose strutture oggettuali del décor: le finestre di vetro degli alberghi, ma soprattutto le maglie quadrate delle numerose reti che separano gli spazi di questo cuore d’Europa. La rete che impedisce la fuga alla venditrice di biglietti, fermata dai colpi di pistola di Kramer, quella dietro cui Kim si distende ad aspettare i clienti, oppure la rete del letto contro cui Fisher, armato di pistola, la schiaccia, minacciandola. Quando, nello studio di Osborne, l’angolazione della m.d.p. mutilava fuoricampo il corpo di Fisher, a noi sarebbe venuta voglia di forzare le pareti d i quel quadro, e scoprire il volto di colui di cui sentivamo la voce. Ma non era possibile, così come non è possibile, per Kim, attraversare una finestra a forma di gabbia, nemmeno rompendo il vetro. Del resto, la bomba esplode alla fine di Europa, il treno affonda, e noi siamo chiusi nella cabina-gabbia di Leopold Kessler: lui non riesce a forzare le sbarre della finestra, noi possiamo solo guardare. Il cinema di Lars Von Trier, è vero, talvolta ci fa sentire ingabbiati nel punto di vista che ci assegna, con la voglia di uscire ed assistere a ciò che accade fuoricampo, ma molto spesso nasconde all’interno del campo tutto quello che ci serve per seguire l’azione. La scrittura con la ‘mano destra’4, accademica e barocca, che regola la Trilogia, prevede infatti inquadrature profondissime, sature, dove i corpi sono sovrapposti tra loro o dilatati mostruosamente dal grandangolo. Il nostro sguardo, spesso, è poi distratto da oggetti o colori perturbanti. Mentre, ad esempio, ascoltiamo dall’alto Fisher rivolgere a Osborne domande importanti sul mostro, l’azzurro della lampada al neon sulla rete a destra dell’inquadratura ci disturba, come una luce accesa nel buio, nel filtro gialloscuro in cui è bagnata l’immagine. Il nostro sguardo oscilla, indeciso, disorientato, incerto, come Fisher, sulla direzione da seguire. L’azzurro, negli interni di questo centro-Europa (interni aperti all’acqua e al vento), è perturbante anche perché colore del passato, colore delle immagini che il videoregistratore sempre acceso nello studio di Fisher manda in onda. Si tratta di un vecchio filmato che riguarda il prof. Osborne, la presentazione alla stampa del suo vecchio libro, L’elemento del crimine. Il tempo si è veramente fermato.

Plongée come l’inquadratura con la lampada di cui sopra, dove la md.p. è perpendicolare sulle teste dei personaggi, ricorrono frequenti nel corso del film, a schiacciare nella palude fangosa i corpi che dal diluvio (o dall’esplosione) non sono ancora stati toccati. "Quando realmente accade qualcosa di grosso, io entro sempre in azione", si esalta Kramer, l’ex-collega di Fisher, dall’alto della torre da cui conduce le operazioni di polizia. Ma la m.d.p. sale più in alto di lui, e lo rimpicciolisce, confondendolo nel buio: visto da quell’altezza, il suo cranio rasato luccica come una delle tante lampade al neon vanamente impiegate per illuminare la zona.

Il cadavere penzolante di Osborne, invece, lo vediamo dal basso: siamo alla fine del viaggio, Fisher non ha risolto da solo il caso, ma non importa. Ecco, di nuovo, la pioggia. Dura e battente, questa volta, rompe il silenzio di morte e ‘musica’ l’ondeggiare nel vuoto del corpo del professore assassino. È un’acqua purificatrice, scesa a disinfettare il marcio di un’umanità che Fisher definisce in "letargo"? Oppure è 1’inizio di un nuovo diluvio, pronto a distruggere quel poco di civiltà che è rimasta. L’apocalisse, adesso? No. Forse è semplicemente un comunissimo acquazzone, di quelli frequenti nella "vita quotidiana" a cui Von Trier ha detto di voler intonare questo suo "cantico" audiovisivo. Neppure la piccola talpa, del resto, sembra preoccuparsi troppo. Tra poco ritornerà nella sua tana, a dormire, mentre Fisher, forse, si sveglierà, e dimenticherà per sempre questa discesa negli inferi centro europei. Là "dove molti sono gli uomini \ e vuote sono le loro mani \ dove pallottole di veleno \ contaminano le loro acque \ dove la casa nella valle \ è una sporca e fredda prigione \ e la faccia del boia \ è sempre ben nascosta \ dove la fame è brutta \ e le anime sono dimenticate \ dove nero è il colore \ dove zero è il numero..."5

(Estratto da: La paura mangia l'anima : il cinema di Lars von Trier / edito a cura del Centro Mazziano. - Verona : Cierre Edizioni, 1997.)

Note
1Bob Dylan, Hard Rain, traduzione italiana di Stefano Rizzo, Tascabili Newton, 1992.
2"Nel futuro senza tempo in cui si svolge il film, - ha detto Von Trier - la natura divora l’uomo" (In: Francesco Bono (a cura di), Danskfilm. 10 anni di cinema danese, Quaderni Aiace, Roma 1993).
3In: Francesco Bono (a cura di), Danskfilm cit.
4In un intervista, Von Trier ha dichiarato di aver utilizzato, per Il regno e Le onde del destino, la mano sinistra. Le imperfezioni luministiche e l’ondeggiare scomposto della m.d.p. presenti in questi film, contrastano con il ‘bello stile’ perfezionista con cui è stata invece girata la Trilogia, che tradisce l’uso della mano destra.
5Bob Dylan, Hard rain, cit.
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