Il Sole 24 Ore Online

Venerdí, 23 gennaio 1995


C'è solo il rispetto della Costituzione
Infondata la tesi che assegnerebbe alla Corte controlli solo di legittimità formale
di Ettore Gallo (*)

Ora che la tensione si è allentata, dopo che la Corte ha reso noto l'inammissibilità dei due referendum sulla legge elettorale delle Camere, mi sia consentita qualche osservazione sull'articolo del collega Mario A. Cattaneo. Articolo comparso il 3 gennaio scorso su questo quotidiano, sotto il titolo Referendum, diritti da tutelare. Ciò che mi stupiva, nel pur garbato articolo, era il tentativo di distinguere le competenze originarie della Corte da quella sull'ammissibilità del referendum. Quest'ultima, infatti, sarebbe stata attribuita alla Corte successivamente, da una legge che limiterebbe la competenza a mero giudizio di legittimità formale nel contesto del divieto stabilito dal secondo comma dell'articolo 75.

In parole semplici, la Corte avrebbe dovuto soltanto stabilire se il richiesto referendum rientri fra quelle leggi (tributarie, bilancio, amnistia e indulto, autorizzazione a ratificare trattati internazionali) per le quali il referendum non è ammesso dal secondo comma dell'articolo 75 della Costituzione. Ogni altra regola, che la giurisprudenza costituzionale avrebbe elaborato in modo abnorme, sarebbe talmente fuori dai compiti tassativamente stabiliti dalla Costituzione da doversi ritenere lecito -come sostenevano gli onorevoli Pannella e Calderisi- un eventuale controllo del Capo dello Stato, garante della Costituzione, volto ad armonizzare tra loro le istituzioni costituzionali. Questa sorprendente tesi era poi in qualche relazione con la precedente, secondo cui se la Corte avesse ammesso i referendum, tutto sarebbe stato regolare, ma se, al contrario, li avesse ritenuti inammissibili, allora avrebbe compiuto un atto politico, perché avrebbe determinato un risultato contrario alla richiesta referendaria senza che i cittadini avessero potuto esprimersi.

Se quest'ultima tesi fosse vera, bisognerebbe concludere che la Corte, per restare nell'area della sua competenza istituzionale, non avrebbe altra scelta che ammettere sempre i referendum; altrimenti compirebbe atti invasivi del potere politico. Tanto valeva allora che questo compito, anziché alla Corte costituzionale, fosse affidato direttamente a un organo politico. D'altra parte, questa concezione del giudizio negativo come giudizio a natura diversa da quello positivo sullo stesso quesito, forse sarà rilevante nel campo della filosofia, ma francamente mi sembra estraneo al diritto positivo, e un tantino pericoloso se dovesse prendere piede nell'intero ordinamento, per le sconvolgenti conseguenze che potrebbe comportare.

Ma anche da tutto ciò prescindendo, e tornando alla critica di eccessività estensiva (non distensiva, come dice il refuso di stampa) della giurisprudenza costituzionale, vorrei far notare al collega quanto segue:
1. L'attribuzione di questa ulteriore competenza alla Corte costituzionale non viene da una legge qualunque, cioè da una legge ordinaria. La legge del 1970 che il collega cita, che è poi la legge 25 maggio 1970, n. 352, è bensí, infatti, una legge ordinaria, ma non è quella attributiva della competenza sull'ammissibilità del referendum alla Corte costituzionale. La legge del 1970 si limita a fissare le norme di esecuzione e processuali, e non soltanto del referendum abrogativo. Le competenze, invece, a decidere sull'ammissibilità dei referendum sono attribuite alla Corte da una legge costituzionale e precisamente dalla legge 11 marzo 1953, n. 1, che è intitolata Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale.
2. Si tratta, perciò, di una legge costituzionale che, integrando la Costituzione, aggiunge una nuova alle altre competenze stabilite originariamente per la Corte costituzionale. Sicché anche questa nuova, per espressa volontà del legislatore costituzionale, assume pari rango delle altre, e non è, perciò, ammissibile la distinzione di valore che l'illustre collega sembra voler inferire fra le competenze originarie e quelle successive.
3. Ne consegue che, essendo il Capo dello Stato e la Corte costituzionale, organi indipendenti e autonomi, ambo garanti della Costituzione, l'uno sul piano politico e l'altra sul piano giurisdizionale, nessuna reciproca interferenza è immaginabile, in nessun campo delle rispettive competenze e per nessuna ragione, se non là dove la legge costituzionale espressamente lo preveda. E infatti, come il collega stesso ha ricordato, c'è una sola ipotesi, quella dell'ultimo inciso dell'articolo 134 in relazione al secondo comma dell'articolo 90 della Costituzione (giudizi d'accusa) che prevede un'interferenza fra i due organi supremi; ma è interferenza esattamente contraria a quella che il collega auspicherebbe (a proposito, però, i ministri non c'entrano piú; perché per loro vige ormai il cosiddetto tribunale dei ministri stabilito con legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1: che non è competenza secondaria e svalutabile, solo perché aggiunta successivamente a quelle previste originariamente dal Codice penale e dall'ordinamento giudiziario!).
4. Quanto poi alle ineccepibili ragioni per cui la Corte ha ritenuto, con sentenza 7 febbraio 1978 n. 16 (presidente Paolo Rossi; relatore Livio Paladin), di elaborare delle regole di massima come criteri-guida per i giudizi di ammissibilità dei referendum, sarebbe troppo lungo e troppo poco giornalistico il discorso. A me non resta che rimandare il filosofo-giurista alla lettura di quella vasta e importante sentenza.

Mi limito soltanto a riportare questo brano, secondo cui è lo stesso legislatore costituzionale a chiarire che deve comunque trattarsi di richieste presentate a norma dell'articolo 75 della Costituzione.

Tale disposizione riconosce alla Corte il potere-dovere di valutare l'ammissibilità dei referendum in via sistematica: per verificare, in particolar modo, sulla base dell'articolo 75, comma I, se le richieste medesime siano realmente destinate a concretare un referendum popolare, e se gli atti che ne formano l'oggetto rientrino fra i tipi di leggi costituzionalmente suscettibili di essere abrogate dal corpo elettorale.

La Corte ha cosí ritenuto che esistano valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture o ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell'articolo 75, comma II, della Costituzione. Da cui conseguono, precisamente, non uno ma quattro distinti complessi di ragioni d'inammissibilità.

E, per concludere, non sarà inutile ricordare che le leggi costituzionali definiscono giudizio questa procedura e dispongono che si concluda con sentenza. Che dovrebbe fare il Capo dello Stato? Ordinare o sollecitare o suggerire alla Corte una bella sentenza di opportunità politica? Non lo dico certo per il collega, che conosco dotto e rispettoso di queste regole, ma domando ai vocianti: è questo lo Stato di diritto che preferireste?

Ebbene, proprio nell'ambito di quei valori di ordine costituzionale, già con la sentenza n. 29 del 1987 la Corte aveva stabilito, respingendo il referendum proposto per l'abrogazione di tre articoli della legge 195/58, concernente l'elezione dei componenti togati del CSM, che un organo costituzionale (o anche di rilevanza costituzionale come il CSM) non può essere privato di norme che assicurino il suo funzionamento anche in ipotesi di inerzia legislativa se, abrogate le norme secondo proposta, ciò che resta della legge non è immediatamente auto-applicativo. Questo principio giurisprudenziale era stato ripetuto anche nel gennaio 1993, sicché era prevedibile che non potessero essere ammessi i due referendum che proponevano l'abolizione del correttivo proporzionale nelle elezioni delle due Camere. Infatti, per attribuire tutti i seggi di Camera e Senato col sistema maggioritario uninominale, si sarebbe dovuto rifare l'intera mappa dei collegi elettorali; con la conseguenza che la legge non era immediatamente applicabile.

E cosí, infatti, la Corte ha deciso.

(*) già presidente della Corte costituzionale.

 

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