la Repubblica

Venerdì, 18 maggio 1990


La crisi della Repubblica/1
di Paolo Barile

Che in Italia la crisi della rappresentanza politica, endemica in tutto il mondo delle democrazie politiche, sia giunta ad un grado altissimo, sarebbe difficile contestare. La repubblica parlamentare è degenerata in quel parlamentarismo contro il quale all'Assemblea costituente gli "ultimi mohicani" del partito d'azione (fu la battuta di Togliatti!), e per essi Piero Calamandrei, avevano combattuto strenuamente contro le truppe di De Gasperi, di Togliatti e di Nenni. Gli azionisti che si battevano per riforme istituzionali di grande livello furono tacciati dal famoso ordine del giorno Perassi, col quale si dichiarava che la repubblica avrebbe rivestito ancora la forma parlamentare classica, ma che sarebbero stati introdotti istituti tali da impedire la degenerazione parlamentaristica.

In che consiste tale degenerazione? Consiste nella frammentazione partitica, al di là di ogni ragionevolezza (le ultime elezioni amministrative sono state l'apice di questo fenomeno); nei contrasti violenti all'interno delle coalizioni di maggioranza; nell'impotenza dei governi ad attuare neppure una minuscola parte del programma che si propongono di attuare; nelle lottizzazioni selvagge di tutti i posti di potere; nell'occupazione tendenzialmente perpetua delle istituzioni. Come risultato si ha la crescita dell'astensionismo, delle schede bianche e delle schede nulle.

D'altronde, e non solo perché l'articolo 49 della costituzione prevede i partiti come lo snodo essenziale fra società civile e società politica, quello che viene chiamato lo "Stato dei partiti" è da considerare - quanto meno nel medio periodo - immodificabile: la scienza politica non suggerisce, ad oggi, alcuna alternativa. E per di piú, riforme interne del raccordo Stato-partiti sono impensabili ed inattuabili, fatto salvo, per la verità, il tentativo davvero rivoluzionario che il partito comunista sta conducendo in questi tempi, ma che difficilmente porterà a "rivoluzionare" dall'interno altri partiti.

Non resta allora che tentare di spostare l'accento dalla democrazia "mediata" alla democrazia "immediata", di cui parlano Duverger e Barbera. Nel suo piú recente elaboratissimo saggio, Augusto Barbera richiama la distinzione fra democrazie immediate e democrazie mediate, definendo le prime come quelle che "consentono al corpo elettorale di "eleggere" il governo eleggendo i rappresentanti in parlamento" e le seconde come quelle che "consentono al corpo elettorale soltanto la distribuzione di quote proporzionali di potere fra i partiti, lasciandoli arbitri assoluti nella formazione e nelle dimissioni dei governi". Secondo Duverger, ricorda Barbera, la distinzione passa fra democrazie che consentono al corpo elettorale di "esprimere una volontà" o soltanto di "esprimere un'opinione". Ed esprimere un'opinione è votare per il desiderabile, mentre esprimere una volontà è votare per il possibile. Il primo comportamento è infantile, solo il secondo è adulto, dice ancora incisivamente Duverger.

Ora, mi pare difficilmente controvertibile l'affermazione secondo cui il favore per una democrazia immediata deve trovare un primo strumento fondamentale, anche se forse non sufficiente, nel sistema elettorale. Sottolineo subito che l'adozione di un sistema appropriato va vista non soltanto sotto il profilo dell'elezione dei rappresentanti nelle due camere, ma anche della designazione contestuale di una maggioranza all'interno di esse, e quindi del governo.

Presupposto essenziale per l'abbandono del parlamentarismo è l'abbandono delle leggi proporzionali: abbandono tout court, dato che gli adattamenti della proporzionale (si pensi alla famosa legge-truffa del 1953) sono arbitrari e sgraditi. Va premesso che la legge elettorale politica proporzionale non figura nella Costituzione, che mostra una tendenza solo alla protezione della rappresentanza delle minoranze.

Anzi, un ordine del giorno votato in Assemblea costituente indicava una precisa preferenza per un Senato da eleggere in collegi uninominali, sul presupposto implicito della non presenza della proporzionale.

In un'intervista del 1987, il non dimenticato Roberto Ruffilli aveva sottolineato come "non si può continuare con un sistema nel quale i partiti si presentano nell'arengo elettorale sostanzialmente per chiedere delle deleghe in bianco, da usare come meglio credono nei rapporti con gli altri partiti. Bisogna invece che ai cittadini sia chiesto di scegliere una maggioranza". E tre anni fa Aldo Buozzi si era lucidamente posto, come "problema nuovo", quello di "prospettare anticipatamente al corpo elettorale una o piú ipotesi di coalizione, in modo che al momento del voto ciascun elettore possa esprimersi non solo sul partito, ma anche sul governo che preferisce". In Italia, invece, "gli elettori distribuiscono soltanto le carte tra i giocatori, che sono i partiti, i quali poi restano liberi di giocarle come vogliono, magari con comportamenti o alleanze assai diversi da quelli che i loro stessi elettori di attendevano".

Il modo per costringere i partiti a prendere posizione sulle future coalizioni, prendendo l'impegno preventivo con l'elettorato, è quello classico del sistema maggioritario a due turni con ballottaggio: al secondo turno le alleanze sono inevitabili. Dice Salvatore Sechi: "I partiti coalizzati sarebbero costretti, al secondo round, a privilegiare i rappresentanti della società civile". Lo scopo primario è sempre quell'"esigenza di valorizzazione della sovranità popolare… che deve essere chiamata a pronunciarsi su programmi, schieramenti e governi alternativi" (Barbera).

Naturalmente, accanto ai sistemi elettorali a scrutinio uninominale con ballottaggio vi sono numerose opzioni che possono essere suggerite ed eventualmente adottate con risultati magari migliori: alludo in particolare al sistema tedesco e a quello spagnolo, che molte voci autorevoli propongono. Tempo fa, i socialisti sembravano orientati a sostenere il mantenimento della proporzionale con l'introduzione di una clausola di sbarramento che impedirebbe l'ingresso in parlamento ai partiti che non raggiungessero un tetto, poniamo del 5%, ma l'introduzione di questa clausola incontrerebbe una strenua e fondatissima opposizione da parte di tutti i partiti minori.

Personalmente ritengo che il sistema dello scrutinio uninominale a doppio turno sia il sistema piú semplice e, quindi, piú facilmente comprensibile dall'elettore, al quale balzerebbe evidente il conferimento di un terzo potere che gli verrebbe affidato nell'ambito della sua decisione politica, il potere di votare, nel ballottaggio, per il rappresentante di una dichiarata coalizione che intende, se avrà la maggioranza, esprimere il governo.

L'esperienza a noi piú vicina (quella francese) dovrebbe convincere i partiti che col meccanismo appunto del ballottaggio il gioco non si ridurrebbe ai due partiti maggiori; ma che almeno i quattro partiti maggiori resterebbero tranquillamente in lizza. Ma la partecipazione al secondo turno dovrebbe essere aperta a tutti i candidati che abbiano partecipato al primo, salvo la presenza di una soglia minima di consensi (in Francia, ad esempio, è il 12,50%). Questo proprio allo scopo di far sí che al secondo turno non accedano soltanto i due candidati piú votati nel primo, penalizzando in tal modo le forze intermedie. […]

 

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