la Repubblica

Venerdì, 22 novembre 1991


Se la Corte dà il via a quei tre referendum
di Paolo Barile

Parliamo un poco distesamente dei referendum che in questi giorni vengono sottoposti alla firma dei cittadini: e soffermiamoci, per ora, solo su quelli "elettorali", promossi dal Comitato cui presiedono Mario Segni e Augusto Barbera.

Sono tre, ma in realtà i primi due tendono allo stesso scopo, cioè a modificare la legge elettorale per il Senato in modo da far sí che la maggioranza dei senatori siano eletti in ciascun collegio e solo una minoranza continuino ad essere eletti con il sistema proporzionale (non mi soffermo qui a spiegare i dettagli tecnici dell'operazione). Il terzo propone che venga esteso a tutti i comuni, nelle elezioni amministrative, il sistema maggioritario attualmente applicato solo a quelli fino a 10.000 abitanti: alla lista piú votata toccherebbero tre quarti dei seggi, l'altro quarto alle minoranze.

Il referendum del 9 giugno scorso ottenne un successo da capogiro: andarono a votare il 62,5 % degli aventi diritto e votarono "sí il 98%, cioè circa 27 milioni di cittadini. Si trattava di un referendum "residuale", l'unico che era passato dalle maglie strette della Corte costituzionale, un referendum che non tendeva a provocare un grande "strappo" nelle istituzioni (furono solo abolite le preferenze multiple alla Camera): come mai tanto successo in un elettorato stanco, scettico, che nelle ultime elezioni politiche tendeva sempre piú ad astenersi?

In un articolo apparso su questo giornale tre giorni prima del referendum del 9 giugno, si leggeva, tra l'altro, quanto segue: "Se, fino ad oggi, l'indifferenza-insofferenza verso i partiti ha portato all'aumento delle astensioni e delle schede bianche, nella votazione referendaria si voterà contro il piú marcio aspetto del nostro meccanismo elettorale. Non è un voto contro i partiti che viene sollecitato dai fautori del "sí", ma un voto contro le degenerazioni che ne sono nate. Quindi è un voto per ritrovare almeno su questo piano l'"integrità delle istituzioni". E' la prima volta dal 1946 che il popolo italiano è chiamato a partecipare in prima persona per affrontare una "questione istituzionale"; altri referendum furono storicamente assai importanti (divorzio, aborto), ma non attenevano al cuore dello Stato, come l'attuale.

Siete chiamati a votare per la prima volta sulla forma di governo, siamo chiamati a dichiarare che non vogliamo piú essere truffati "nella nostra sovranità"".

Gli elettori furono sensibili a questa esortazione che sottolineava l'efficacia dirompente che (sia pur limitatamente ad un profilo marginale) il voto diretto avrebbe potuto esercitare sulle istituzioni, cioè sulla vita associata di tutti noi e dei nostri figli. Ma il loro afflusso ed il loro voto davvero plebiscitario non fu sufficiente a provocare, nel Palazzo, una salutare reazione tendente a completare la riforma elettorale che chiaramente il corpo elettorale esigeva. Tutto è rimasto fermo: i veti incrociati dei partiti hanno bloccato anche i più timidi tentativi di novità in questo settore.

Con caparbietà, pari solo alla sua integrità, l'onorevole Segni ritorna sull'argomento e chiede alla Corte costituzionale che non frapponga ostacoli alla proposizione di nuovi quesiti al popolo italiano, e chiederà a quest'ultimo di dare una ulteriore e piú determinante spallata ai meccanismi elettorali parlamentare e comunale; dando peraltro molto tempo al nuovo Parlamento (dal luglio 1992 alla primavera 1993) per provvedere mediante le piú opportune riforme, tali da rendere inutili i referendum.

Alla Corte chiederemo di giudicare utilizzando tutto il potenziale di ragionevolezza e di discrezionalità del quale essa dispone. In occasione degli ultimi referendum, infatti, si ebbe la sensazione (questo giudizio è ovviamente politico, non strettamente giuridico) che la maggioranza della Corte stessa fosse pregiudizialmente avversa ad un uso cosí dirompente del referendum.

La Corte, è vero, in quell'occasione rifiutò l'ammissibilità di due referendum su tre non perché fossero "manipolativi" (cioè tendenti a trasformare, mediante sapienti cancellature, un sistema elettorale in un altro, anziché limitarsi ad essere "abrogativi", come vuole la Costituzione), ma motivò in altro modo il suo rifiuto. Questa volta - di fronte ai 27 milioni di "sí" del 9 giugno raccolti dall'unico referendum lasciato svolgere - vorrà dare la parola al corpo elettorale, il vero titolare della sovranità costituzionale piena, chiamato ad esprimere un suo giudizio definitivo sulla classe politica che lo governa nel modo che tutti vediamo? Significativa è l'indagine Doxa che ha accertato: a) che oggi il 78% degli italiani andrebbe a votare questi referendum; b) che i "sí" per il Senato sarebbero il 69%; c) che i "sí" per i Comuni sarebbero il 62%. Mi auguro davvero che le perplessità di Vanni Sartori e di Giuseppe Cotturri siano agevolmente superate; nessuno pretende di giungere ad un "completamento costituzionale" sensato e ben funzionante mediante "le mitragliate impazzite dei referendum" e nessuno, tanto meno, può pensare che "si possa governare" grazie allo strumento referendario. Noi diciamo soltanto che l'inerzia, lo stato di coma in cui si trovano i partiti in questo campo è tale da imporre l'unica azione diretta che la Costituzione ammette, sia pure nei limiti, di ammissibilità e di risultato, che ben conosciamo. "Bisognerà pur fare qualcosa per tentare (almeno tentare) di impedire che questo paese si trasformi in una specie di gigantesca casbah mediorientale" dice Angelo Panebianco. Questa "forza tranquilla" che si muove per firmare le proposte referendarie, dicono Giannini e Negri, dà "la piú serena risposta a quanti si lacerano le vesti per il "disordine referendario", giacché il disordine è purtroppo altrove: dall'immane debito statale alla criminalità dilagante, sino ai pubblici servizi nei quali l'inefficienza si accompagna al privilegio". Aggiunge Mario Segni: "Pure con tutti i limiti, i quesiti referendari hanno almeno il merito (che nessun'altra proposta avanzata in altra sede può avere) di farci uscire dalla sabbia in cui sono sepolti i tentativi di innovazione".

Auguriamoci che, come direbbe Lelio Basso, al popolo sia restituito lo scettro della sovranità.

 

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