La Stampa

Giovedì, 19 giugno 1997


Legge elettorale
Una riforma che non cambia niente

di Enzo Cheli

Se le indiscrezioni che stanno circolando in questi giorni sono fondate, dietro le quinte della Bicamerale si starebbe delineando un accordo su un sistema elettorale a turno unico "di coalizione" (già battezzato "Mattarellum Due") che dovrebbe, di massima, funzionare cosí: nel corso di un primo turno l'elettore vota due schede, una destinata a coprire, con metodo maggioritario, il 55 per cento dei seggi su liste concorrenti; segue un secondo turno dove entrano in gara soltanto le due coalizioni piú votate al primo turno nei collegi uninominali e dove si opera l'assegnazione in blocco, quale premio di maggioranza, del residuo 20 per cento.

La notizia, se esatta, induce a qualche riflessione.

La prospettiva di un accordo ampio sulla legge elettorale va certamente salutata con favore. Quest'accordo potrebbe, infatti, sbloccare l'impasse che si è venuta a determinare dopo il voto a sorpresa del 4 giugno sulla forma di governo ed aprire la strada per una conclusione positiva dell'intero lavoro sinora svolto in seno alla Bicamerale.

D'altro canto, va anche ricordato che nessun modello di forma di governo è in grado di assumere un significato preciso se il sistema dei rapporti tra gli organi di vertice dello Stato (Parlamento, governo, Capo dello Stato) non viene completato anche dalla definizione, alla base, del rapporto tra corpo elettorale e Parlamento, cioè dalle scelte connesse all'adozione di un determinato sistema elettorale. Per questo si dice comunemente che una forma di governo - qualunque essa sia - resta una scatola vuota fino a quando non viene riempita con la scelta di un preciso sistema elettorale. Questa osservazione non può non valere anche per quella particolare forma di semipresidenzialismo che la Bicamerale ha di recente adottato: anzi, direi che vale specialmente in questo caso, dato il carattere ancora approssimativo della bozza votata il 4 giugno.

Detto questo resta, peraltro, aperta una domanda. L'accordo che si va delineando e che sopra abbiamo richiamato nelle sue linee essenziali può considerarsi, allo stato delle cose, un buon accordo?

Per dare una risposta a questa domanda non basta, a mio avviso, misurare l'ampiezza dei consensi che il doppio turno "di coalizione" sembra, per il momento, suscitare all'interno dei vari schieramenti. Al contrario, questa risposta impone anche (e in primo luogo) di valutare quale sia il grado di coerenza che i congegni elettorali che si vorrebbero introdurre manifestano in relazione al modello di forma di governo cui tali congegni dovrebbero accedere.

Sappiamo che l'obiettivo primario che si è inteso perseguire attraverso l'adozione del modello semipresidenziale (ma il discorso potrebbe perfettamente valere anche in relazione al modello di premierato rimasto soccombente) è quella della costruzione di un governo stabile ed efficiente, in grado di garantire, per l'intero arco di una legislatura, l'espressione di una politica incisiva e coerente.

Per ottenere questo risultato, non basta rafforzare gli organi posti al vertice dell'esecutivo (nel modello adottato, del Capo dello Stato o del primo ministro): bisogna anche incidere sulle cause che hanno sinora impedito ai nostri governi di operare con continuità ed efficacia.

Queste cause precedono l'impianto dei poteri dello Stato e vanno ricercate - per giudizio comune - nello stato del nostro sistema politico, cioè nel fatto che, alla base di questo sistema, esiste oggi un numero troppo elevato di partiti grandi, medi e piccoli, molto conflittuali e legati tra loro da rapporti instabili.

È vero che la riforma maggioritaria del 1993 ha consentito la nascita di due poli, ma questo, alla fine dei conti, non ha condotto ad una vera semplificazione del sistema, perché i due poli, al loro interno, conservano tuttora un tasso molto elevato di conflittualità.

Per superare questo stato di cose - che è la vera causa dell'instabilità e della debolezza dei governi - occorre, dunque, puntando verso soluzioni in grado di favorire l'evoluzione del sistema politico dall'attuale situazione di "multipartitismo estremo" a forme di "multipartitismo temperato", o meglio, di "bipolarismo omogeneo".

La riforma elettorale che si va delineando consentirà di raggiungere questo obiettivo? È lecito dubitarne.

Il doppio turno "di coalizione" - se assumerà la connotazione di cui oggi si parla - è un doppio turno piú apparente che reale, dal momento che ricalca largamente, nei suoi tratti essenziali, il sistema attuale. L'unica variante risulta dal fatto che una parte (pari al 20 per cento) dell'attuale quota maggioritaria (pari complessivamente al 75 per cento) verrà, con il nuovo sistema, attribuita mediante un premio di maggioranza assegnato a coalizioni, che è agevole però immaginare composite e frammentate come quelle attuali. È, dunque, difficile ritenere che, dal nuovo sistema, possano derivare mutamenti significativi nelle distribuzioni attuali delle forze politiche, cosí da poter favorire un processo, per quanto graduale, di accorpamento tra le stesse.

Il risultato, ai fini della governabilità, sarebbe, dunque, inconcludente, almeno ove non si intendesse operare con una certa severità sulla clausola di sbarramento, che consente l'accesso alla quota proporzionale, elevando la soglia relativa ben al di là dell'attuale 4 per cento (in Francia questa soglia è spesso variata e oggi risulta attestata sul 12 per cento).

Per andare avanti dopo il voto del 4 giugno un accordo sulla legge elettorale appare, dunque, oggi assolutamente indispensabile. Quest'accordo non dovrebbe però trascurare quelli che sono i veri obiettivi della riforma: obiettivi che impongono non di attenuare, ma caso mai di incrementare, la dose di "maggioritario" sottesa al sistema adottato dopo il referendum del 1993.

 

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