Lo ammetto:
ho la fissa del formaggio.
Mi ha
sempre incuriosito il fatto che, con gli stessi ingredienti di base
(latte, sale e caglio), si possano ottenere formaggi tanto diversi di
gusto e caratteristiche.
Questo
pensiero, un paragone ardito tra storia, cultura e formaggio, mi venne
per la prima volta in una circostanza abbastanza particolare.
Mi trovavo
con mia moglie in una piccola cittadina del Laos, era la notte di
Capodanno ed eravamo un gruppo di sei europei incontratisi da poco (in
quelle circostanze si fa in fretta a fare amicizia). Decidiamo di
festeggiare assieme al "ristorante": tovaglie di plastica,
cucina locale, alla buona,…..e relativo bottiglione di champagne
cinese.
Io, voilà,
sfodero un pezzo di Parmigiano (si, con la maiuscola) che mi ero
portato dall’Italia….Festa Grande.
Italia –
Resto del Mondo 1 a 0.
Un
australiano che era lì da anni, a costruire strade con un progetto di
cooperazione, dal bancone dove stava bevendo una birra, letteralmente
si "fionda" al nostro tavolo e, pacche sulle spalle, con la
scusa di cementare l’amicizia tra i popoli, trangugia i nostri pezzi
di formaggio man mano che li taglio: poveretto, erano anni che non ne
mangiava .
E ho
pensato: come mai in Australia, Sudamerica, Africa, Arabia, Cina,
India ed in quasi in tutto il mondo, esistono pochissimi formaggi? Per
non parlare dell’Asia, dove parecchi paesi come Laos, Vietnam,
Cambogia, Birmania, Thailandia addirittura non esiste produzione
alcuna (non hanno gli enzimi per digerirlo). Il solo parco dell’Alto
Garda Bresciano produce più qualità di formaggi che tutti questi
paesi messi insieme.
E che dire
degli Stati Uniti, dove con tutti i pascoli che hanno e il latte che
producono, esiste un solo tipo di formaggio , da consumare (verbo
orribile, ma in questo caso giusto) fuso o dentro i famigerati "Cheese
Burger": il Cheddar, anch’esso di origine inglese, molto simile
alla nostra "fontina con la carta rossa".
Evidentemente,
per come la vedo io, in questi paesi, nessuno ha sentito la necessità
di un prodotto diverso, originale, non…."omologato".
Ho letto da
qualche parte che Charles De Grulle, ad una domanda sulle difficoltà
del governo di Francia abbia detto:"E’ difficile governare
un paese che produce più di 300 tipi di formaggio" (e l’Italia
non è da meno, aggiungo io).
Probabilmente
alludeva al fatto che, nelle decisioni di governo, come in tutte le
cose, è difficile mettere tutti d’accordo, perché ognuno ha le sue
preferenze; comunque salta all’occhio l’enorme differenza di
produzione tra l’Europa ed il resto del mondo.
Un recente
numero del periodico AB Atlante Bresciano, interamente sui formaggi,
mi ha dato la curiosità di approfondire la realtà gargnanese. Così
mi sono messo alla ricerca raccogliendo alcune informazioni sui
"nostri" produttori.
Ó GATA’
CÖL DEL FURMAI…..
Giacomo
Festa, sulla quarantina, da sempre agricoltore e allevatore, vive con
sua madre nella vallata della Costa. Con la siccità dell’anno
scorso e l’erba che scarseggiava, il latte ricavato dalle poche
"bestie" non ripagava il costo del fieno: per questo ha
dovuto abbattere le mucche più vecchie. Nonostante magri guadagni e
grandi sacrifici non si perde d’animo e continua nella sua dura
attività.
Grazie alla
sua pazienza e disponibilità abbiamo scoperto i primi rudimenti di
quella che è una vera e propria arte, e non è una cosa fatta da tot
temperatura, tot tempo, tot peso; ma tutta di ….naso e sensibilità.
Durante una
breve chiacchierata ci ha spiegato parecchie cose che non
immaginavamo; la differenza tra il latte fatto da mucche alimentate a
fieno, ad erba "soliva" (quella che cresce sui pendii che
prendono più sole) o a erba "del vacc" (meno soleggiata,
più umida, più amara) e che i pascoli in alta quota, sono più
pregiati perché lì l’erba prende il sole dalle 5 di mattina,
mentre in valle, molto più tardi. La quantità e la qualità del
latte possono essere molto differenti: una vacca può produrre, salvo
rare particolarità, dai 10 ai 20 litri di latte, più o meno grasso,
a seconda se è estate o inverno, se è pregna o no, di cosa e di
quanto mangia, se è in stalla o se pascola libera.
Poi ci ha
portato sul luogo dove produce il suo formaggio, non moltissimo, per
la verità, ad uso familiare e per gli amici. Nella stanza, oltre alla
zangola meccanica per fare il burro, troneggia il grande paiolo di
rame e gli attrezzi per la lavorazione. La stagionatura avviene in un’altra
stanza, fresca e buia, coi salami: un’atmosfera del passato. Ci
invita poi ad assaggiare il suo formaggio e, davanti al rituale
bicchiere di vino ci spiega con orgoglio il procedimento per
ottenerlo: cottura, salagione del siero (il trucco della patata che
galleggia solo se il "bagno" è salato al punto giusto),
temperature, attrezzi….gesti antichi.
Ci spiega
che per dare più gusto al suo formaggio, lui gli lascia parte della
panna di affioramento, "la grassina", che rende il
cacio più morbido, anche se più bisognoso di stagionatura.
Il tempo
scorre e penso a quanto sia dura ed incerta la sua vita, ma lui la
prende con filosofia: anche se lo sa che è una vitaccia, a lui va
bene così.
Fuori piove
e la mamma di Giacomo, con lo scialletto sulle spalle, fa la maglia,
ci ascolta parlare e ogni tanto interviene. Sono passate due ore
quando ci lasciamo. La promessa è quella di tornare, e lo faremo
sicuramente.
Il giorno
dopo torno "in quota" per visitare l’altro produttore, che
si chiama Cozzaglio detto "Brasì". Abita con la
famiglia nella grande casa circondata da macchinari agricoli, posta
sulla destra prima di arrivare alla chiesetta degli Alpini di Briano.
Fa formaggi di vacca, capra e misto, e li vende, tra gli altri, alla
Casa del Formaggio della Manuela, oppure a chi si ferma da lui.
Mi accoglie
la moglie, sorridente, e subito dopo, arriva lui. Attorno al tavolo ,
per cominciare, gli chiedo se ha avuto problemi, con la siccità
dell'anno scorso.
I suoi
occhi vivaci hanno un guizzo.....e parte la tirata sul fatto che
l'anno scorso, i contributi per la siccità li hanno ricevuti le aree
che avevano avuto pioggia, mentre a Gargnano........:" Va, va
a védèr èl boletino dela Comunità Montana.......". Ci
racconta anche delle sue difficoltà per la realizzazione del suo
caseificio, del prezzo del fieno :" .. Ma io non ne compro
tanto, ho il mio." Ritiene necessaria la costituzione di una
cooperativa che razionalizzi la commercializzazione del prodotto
locale, ma allo stesso tempo è disincantato, consapevole delle
difficoltà di far collimare gli interessi di tutti. Gli chiedo quale
è la sua produzione ma, comprensibilmente, non si scopre. Ci devo
arrivare da solo: ogni capra produce dai 5 ai 7 litri di latte al
giorno ma, mentre da 100 litri di latte di vacca si ricavano 7/8 kg di
formaggio, da quello di capra, più magro, se ne ottengono solo 5/6
kg. Ha circa trenta capi di bestiame e quasi cento capre, quindi una
produzione di tutto rispetto. Mi dice anche che le deve tenere in
stalla perché se gliele vedono nel bosco, prende la multa.
Apprendo
così, che un Regio Decreto di cento e passa anni fa, impediva il
pascolo delle capre nei boschi, perché mangiavano le smérse,
i germogli delle piante in crescita, ma ora, mi dice, farebbero solo
bene al bosco, perché lo terrebbero pulito, mangiando i rovi e le
erbacce.
Anche il
calpestio delle mucche nei prati ha la sua funzione:
"rompendo" il terreno, fanno sì che l'acqua piovana non
formi rigagnoli e, scorrendo troppo velocemente a valle, provochi
danni.
Il locale
di produzione del formaggio appare meno legato al passato, il
pentolone del latte è in alluminio e viene scaldato a gas, più
costante e senza le impurità della cenere; gli attrezzi sono in
plastica o in metallo. A differenza del Festa, lui i formaggi li sala
direttamente, su entrambe le facce; dopo un lasso di tempo variabile a
seconda dello spessore e del tipo di formaggio, la forma va lavata per
eliminare l'eccesso di sale, poi viene messo a stagionare: 2/3 mesi,
quello di capra; quello di vacca anche di più.
Il tempo di
fare due foto ed è già ora di ritornare.
Compero
anch'io una formaggella di capra e appena arrivo a casa faccio
merenda.
Però,........mica
male questo formaggio.