La Statua marmorea di Mozia - scheda tecnica di Gioacchino Falsone

Note sulla statua di Sabatino Moscati

 

 

 

 

La statua de "Il giovane di Mozia"

 

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La statua nel luogo e al tempo del ritrovamento

 

 

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LA SCOPERTA, LO SCAVO E IL CONTESTO ARCHEOLOGICO

(saggio di Gioacchino Falsone tratto da "La statua marmorea di Mozia e la scultura di stile severo in Sicilia", atti della giornata di studio, Marsala 1 giugno 1986, ed. "L'Erma" di Bretschneider, Roma 1988)

Sono molto lieto e onorato di prendere per primo la parola a questa «Giornata di studio» per riferire sulla scoperta eccezionale della statua marmorea di Mozia. Non solo essa ha suscitato tanto interesse e ammirazione nel vasto pubblico, ma anche ha provocato un ampio dibattito nel mondo scientifico per i numerosi problemi che la scultura comporta sul piano storico-artistico. A giudizio di molti l'opera è infatti di eccellenti qualità stilistiche e ormai si può annoverare tra i capolavori dell'arte greca in Occidente. La scoperta costituisce quindi uno dei fatti più notevoli della recente ricerca archeologica in Sicilia.

Se non sono mancati i primi studi e i pareri autorevoli sulla scultura moziese da parte di illustri studiosi (1), è però da rilevare il fatto che i dati stratigrafici non sono stati finora pubblicati integralmente. Questo è appunto il compito che si prefigge la mia relazione. Al di là di qualsiasi considerazione stilistica e iconografica mi limiterò in questa sede a illustrare brevemente le circostanze della scoperta e a presentare i risultati dello scavo finora raggiunti per poter meglio inquadrare il monumento nel suo contesto archeologico e storico.

Gli scavi che hanno permesso la scoperta della statua iniziarono nell'isola di Mozia nell'autunno del 1977 ad opera di una missione archeologica dell'Università di Palermo (2). Essi furono condotti in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Sicilia Occidentale, grazie a finanziamenti dell'Assessorato P.I. e BB.CC.AA. della Regione Sicilia. La missione era composta in massima parte da un gruppo di ricercatori legati in vario modo all'insegnamento di Antichità Puniche afferente all'Istituto di Archeologia della Facoltà di Lettere e Filosofia del nostro Ateneo. Oltre a questi Enti, che tra l'altro hanno promosso il presente Convegno, va ricordata la Fondazione Giuseppe Whitaker, che ha ospitato la missione nei suoi locali sull'isola e ha sostenuto in varie occasioni la nostra indagine.

Furono partecipi della scoperta della statua i vari componenti dell'équipe che collaborarono alla campagna del 1979: la collega Antonella Spanò, la quale mi ha coadiuvato con la consueta competenza; Maria Luisa Famà, Adriana Fresina e Francesca Spatafora, oggi del personale scientifico della Soprintendenza di Palermo; Alba Gabriella Calascibetta, specializzanda in Archeologia all'Università di Roma; e i colleghi stranieri Robert Leighton dell'Università di Edimburgo e Samuel R. Wolff dell'Istituto Orientale dell'Università di Chicago (3).

Prima di entrare nel vivo del discorso, è necessario fare qualche precisazione. In primo luogo solo poche campagne sono state condotte a Mozia dalla nostra missione, le prime tre nel 1977-79 e una quarta nella primavera dei 1981 (1). L'esplorazione, di cui diremo più avanti, è quindi incompleta e molti sono i quesiti non ancora risolti.

In secondo luogo lo scavo fu eseguito secondo un metodo stratigratico già sperimentato per la prima volta in Sicilia dalla stessa équipe nella Valle del Belice (5). Esso si basa sulle unità della stratigrafia dette «loci». L'area di scavo è inoltre suddivisa in quadrati di m. 5 x 5 separati da diaframmi che consentono una più facile lettura della stratificazione. Tale schema a scacchiera si evince dalla planimetria dello scavo aggiornata alla campagna dei 1981, che qui si presenta alla figura 1.

1. La scoperta

La scoperta della statua di Mozia avvenne la mattina del 26 ottobre 1979 verso le ore 10:00 circa, nel corso della terza campagna. Quella mattina il lavoro ferveva nel cantiere di scavo e nelle varie aree si seguivano le ultime operazioni prima della chiusura stagionale. Era infatti l'ultimo giorno della campagna e il caso volle che si facesse una grande scoperta.

Nel quadrato 56, l'area sud-orientale dello scavo (fig. 1), si erano prese due diverse decisioni di comune accordo col supervisore di settore (6). La prima riguardava un piano in terra battuta che si estendeva per quasi tutto il quadrato e nelle aree adiacenti e che bisognava liberare di uno strato sovrastante costituito da materia sabbiosa molto compatta mista a una enorme quantità di frammenti ceramici. Era questo chiaramente il piano d'uso del pavimento. Il taglio di questo strato era stato eseguito a punta di picozza e cazzuola durante la prima parte della mattinata. L'operazione risultava abbastanza faticosa e richiedeva una certa cura onde evitare di intaccare la superficie originaria.

L'altra operazione, assai più facile, fu messa in atto molto più tardi e riguardava l'asportazione di un mucchio di pietrame situato nell'angolo NE del quadrato. Questo faceva parte di un enorme deposito di detriti, che era stato scavato precedentemente e che, come vedremo, si estendeva in tutto il settore meridionale della Zona K. Il mucchio di pietrame si addossava a uno spezzone di diaframma (7) che era stato lasciato in situ per vari giorni poiché permetteva un accesso più comodo allo scavo.

Sotto il cumulo di pietre si nascondeva però una sorpresa del tutto inaspettata. Quando il piccone si levò in aria, un urlo risuonò per tutto il cantiere. La statua, la statua, gridò un esperto operaio selinuntino che lavorava nei pressi mentre fermava l'incauto compagno col piccone alzato che stava per dare un secondo colpo al cumulo di pietre. Tutti accorremmo sul posto. Tra lo stupore generale si poteva osservare una materia bianca come la neve che spiccava tra alcune pietre smosse e terra scura. Il nitore dei marmo splendeva sotto i raggi dei sole autunnale. Si poteva vedere parte di una gamba rotta alla caviglia e un intricato ma morbido panneggio che evidentemente facevano parte di una figura scolpita in marmo a tutto tondo.

Successivamente si procedette a rimuovere interamente lo strato di pietre e il tratto del diaframma nord. Alla fine del giorno si era messa a vista solo la metà inferiore della scultura, dalla cintola in giù (Tav. XV, 1). La metà superiore giaceva invece al di fuori del limite est della trincea, sicché si dovette procedere a un piccolo taglio dal piano di campagna che assunse l'aspetto di una nicchia ricavata nella parete (Tav. XVI, 1; fig. 1). Il lavoro fu purtroppo interrotto a causa delle cattive condizioni atmosferiche. La mattina dei 31 ottobre, ben cinque giorni dopo il primo momento della scoperta, fu possibile liberare interamente la scultura che ora si poteva ammirare nella sua totalità. Era un'opera di straordinaria bellezza.

La statua era alta circa m. 1,80 e stava in posizione supina con la testa rivolta verso Est a una profondità di circa m. 1,60 dal piano di campagna, a una quota di m. 4,29 s.Lm. (Tavv. XV - XVI). Essa rappresentava una figura virile stante vestita di una lunga tunica che era a sua volta trattenuta sul petto da una larga banda orizzontale. Le braccia e i piedi mancavano, ma la testa, sia pur staccata dal collo, si conservava fortunatamente sul posto.

Una volta eseguita la documentazione grafica e fotografica, la scultura venne rimossa e poi trasportata in un magazzino del Museo locale. Fu così che venne portata alla luce la statua marmorea di Mozia.

2. Lo scavo

Il sito ove si è svolta la nostra esplorazione è situato sul lato nord-orientale dell'isola di Mozia, a poca distanza dal complesso monumentale di «Cappiddazzu» (Tavv. XIII - XIV, fig. 1). Questo complesso, che è stato in passato interpretato come santuario di tipo punico (8), fu indicato in pianta dal Whitaker - l'archeologo che lo scoprì - con la lettera K (9), sicché il sito da noi prescelto venne definito per ragioni topografiche come «Zona K». L'obiettivo principale dello scavo era infatti quello di indagare nell'area adiacente a questo complesso e di collegarlo così alla cinta delle fortificazioni urbane: queste ultime non erano mai state esplorate in questo punto (10) e, come indicava chiaramente la morfologia dei terreno, delimitavano a Nord la Zona K, tanto è vero che, fungendo la cinta muraria di contenimento naturale, si registra proprio qui uno dei punti topografici più alti dell'isola.

Il settore sud

In questa area, all'inizio dello scavo nel 1977, si potevano vedere due vecchi sondaggi, in uno dei quali emergevano dei grossi blocchi squadrati disposti senza alcun ordine preciso. Avevo potuto appurare che questi sondaggi erano stati fatti nel maggio 1924 dal Whitaker il quale mai li pubblicò ma fortunatamente lasciò un Giornale di scavo autografo (12). In esso egli afferma di aver trovato, oltre ai blocchi sporadici, resti di un pavimento e di un acciottolato, parecchi vasi capovolti e altri blocchi in situ (12). Tutti questi elementi vennero ben presto identificati nel corso della prima campagna (Tav. XVII, 4; fig. 2).

L'esplorazione successiva dei quadrati contigui (Aree 45-46, 55-56 e 35-36: fig.1) ci permise di comprendere che il pavimento si estendeva per una vasta area i cui limiti non sono stati ancora definiti (Tav. VII, 1 - 2): l'area finora è larga almeno 23 metri in senso est-ovest e 15 in senso nord-sud, e in pratica comprende tutto il settore meridionale dello scavo. Inoltre, dato che non c'è traccia di costruzioni, è chiaro che si tratta di un'area a cielo aperto, forse una piazza. Il pavimento era ovunque ricoperto da uno spesso strato di uso, al quale in qualche punto era anche aggiunto un acciottolato (14). Ciò sta a significare che il pavimento ebbe più fasi di vita e che l'area a cielo aperto fu in uso per un lungo periodo di tempo. Al di sopra del piano d'uso si trovarono altri blocchi squadrati gettati alla rinfusa che facevano parte di una enorme massa di detriti costituita per lo più da cumuli di pietrame bruto e mattoni crudi (Tav. XVII 1, 2 e 3). Tra questi detriti come pure sopra il piano d'uso si rinvenne una gran quantità di punte di frecce bronzee (15), che evidentemente si riferiscono a un episodio bellico (Tav. XVIII, 3).

Altri elementi interessanti si raccolsero nello scavo delle Aree 45 e 55 (fig. 1). Tra queste due aree c'è una sorta di piattaforma composta da una fila di sette blocchi disposti longitudinalmente per testa, che appartengono a una fase più tarda e che erano già stati in parte identificati dal Whitaker (Tav. XVII, 2). Nei pressi di questa piattaforma si è scoperto un ripostiglio di armi, comprendente tra l'altro oltre 200 ghiande missili di piombo (16). Immediatamente a Sud della stessa piattaforma risultò che il Whitaker aveva scavato una piccola trincea che taglia il pavimento fino alla roccia (Tav. XVII 4) e che al di sotto di quest'ultimo c'era soltanto uno spesso strato di preparazione (17). A Est della trincea furono identificate due file di anfore puniche capovolte, che appartengono a due diverse fasi ed erano a contatto o poggiavano sul pavimento. Le due file continuavano nell'Area 65 (Tav. XX, 1, figg. 1, 4). Le anfore, che sono del tipo a siluro ed erano tronche al di sotto delle anse, contenevano argilla piuttosto depurata e costituivano quindi delle istallazioni per la lavorazione ceramica (18). Una simile attività venne anche alla luce verso Ovest (Area 45) ove, al limite dei pavimento, c'era una larga fossa che raggiunge la roccia vergine e che era riempita da straterelli di argilla e di terra contenenti una notevole quantità di cocci.

Accanto alla fossa, ma sul bordo dei pavimento, fu scoperto un ceppo di ancora litica di straordinarie dimensioni a sua volta adiacente a una buca circolare (19). Come si è visto, la statua marmorea giaceva anch'essa sopra il pavimento nell'area 56, in prossimità dei blocchi squadrati del sondaggio del 1924 e delle file di anfore da noi scoperte (fig. 1). La maggior parte degli elementi descritti (blocchi sporadici, ripostiglio di armi, anfore, ceppo di ancora e statua) erano ricoperti dallo strato superiore di detriti: ma mentre le anfore capovolte sono comprese o sigillate dal piano d'uso e quindi appartengono a una fase di occupazione più antica, i blocchi come pure la statua e il ceppo poggiano sul piano d'uso e appartengono alla stessa fase dei detriti da cui sono sormontati (20).

Al di sopra dello strato di detriti che in alcuni punti era considerevole (fino a m. 1,20 di altezza circa), e sotto lo strato di humus superficiale, furono identificati resti di una o talvolta due diverse superfici sovrapposte in terra battuta, che erano anch'esse prive di costruzioni e che documentano altrettante fasi di occupazione piuttosto effimera in un periodo posteriore alla distruzione del 397 a.C. A queste superfici erano talora associati in qualche punto gruppi di frammenti di vasi schiacciati e, in un caso, una sepoltura in nuda terra (21). A Sud-Ovest nell'Area 56 e in quelle adiacenti, si scoprì inoltre uno strato si rideposizioni arcaiche connesso a questo livello più tardo che ho già discusso ampiamente in altra sede (22). Si trattava cioè di una sorta di strato di «riporto» (Locus 5615) che conteneva una grande quantità di ceramiche dell'Età dei Bronzo e ceramiche puniche arcaiche e di importazioni risalenti per lo più al VII secolo a.C. Tale cronologia come pure la presenza piuttosto cospicua di frammenti di ossa umane suggerivano che questi materiali provenissero originariamente dalla vicina necropoli arcaica dell'isola ove prevale il rito della cremazione (23). In ogni caso, trattandosi di un deposito secondario contenente resti di natura funeraria e quindi di terra di riporto, è evidente che in quest'ultima fase la Zona K era in stato di abbandono.

Passando alla cronologia assoluta di questa fase, va detto che la ceramica punica di produzione locale è molto abbondante, mentre quella greca di importazione è molto scarsa ma permette una datazione più precisa. Nell'Area 35, sopra una delle superfici più recenti, si rinvenne la base di uno skyphos a figure rosse (Tav. XVIII, 1) che si può datare al secondo quarto del IV secolo a.C. (24) . Nell'Area 45, ma immediatamente sotto alla stessa superficie, si è inoltre recuperata una manciata di frammenti di coppe skyphoidi a vernice nera, la cui tipica forma indica una datazione verso il 400-375 a.C.: esse sono a pareti sottili e con risega interna sotto l'orlo e presentano una decorazione a palmette impresse sul fondo (Tav. XVIII, 2) (25). Questi reperti ceramici sono pertanto abbastanza significativi sul piano cronologico.

Riassumendo, nel settore meridionale della Zona K il quadro cronologico che emerge dai dati finora descritti comprende due periodi principali. Nel primo periodo c'è un vasto spiazzo a cielo aperto la cui data iniziale non è ancora possibile precisare ma che fu certamente in uso durante il V secolo fino al momento della storica distruzione di Mozia nel 397 a.C. A questo periodo appartiene il piano d'uso con le istallazioni limitrofe per l'industria ceramica situata sul lato nord dei pavimento.

Al secondo periodo appartengono tre fasi ben distinte. La più antica è rappresentata dai blocchi e dalla massa di detriti che ricoprono l'intera area; questi sono evidentemente connessi alla distruzione della città e, come vedremo, si possono collocare negli anni immediatamente successivi al 397. Le altre due fasi più tarde comprendono le superfici superiori appena descritte e si datano alla prima metà del IV secolo a.C. Infine, poiché in tutto lo scavo della Zona K non si è finora raccolto alcun elemento cronologico posteriore a queste ultime fasi (è da notare, ad esempio, l'assoluta assenza di ceramica campana A), si può senz'altro affermare che la Zona K era già definitivamente abbandonata negli ultimi decenni del IV secolo.

Il settore nord

Passando a descrivere brevemente il settore settentrionale dello scavo, va subito detto che qui è venuta alla luce una officina di vasai. Essa comprende principalmente un edificio a pianta rettangolare, di cui si è messo a vista solo il lato occidentale e che si addossa a Nord al muro delle fortificazioni urbane (Tav. XIX 1-2; fig. 1). L'edificio è delimitato a Ovest da un lungo muro a forma di L, costruito in mattoni crudi e con un alto zoccolo interno in tecnica lapidea a «telaio». Esso ha l'ingresso principale sul lato sud e si suddivideva in due ambienti separati da un tramezzo interno: quello più piccolo (Arca 52) è adiacente al muro di cinta ed è caratterizzato da una fila centrale di due pilastri che dovrebbe continuare verso Est nel tratto non ancora scavato (Tav. XIX 2 - 3) (16). Esso conteneva all'interno un notevole riempimento di ceramiche e tegole (fase di abbandono); all'esterno c'era invece un enorme crollo dovuto alla distruzione del muro di cinta. Il sommo dei muri e di tutti gli altri elementi dell'Area 52 appena descritti erano sormontati da un piano di calpestio, a sua volta sottostante al piano di campagna, che evidentemente appartiene a una fase posteriore al 397 a.C.

L'ambiente meridionale dell'edificio comprende invece una serie di istallazioni adibite all'industria ceramica: (a) un piccolo forno di tradizione fenicia a pianta bilobata che è situato a Sud-Ovest e di cui si conserva la camera di combustione (Tav. XIX, 4) (27); (b) una larga «fossa di alimentazione» che serviva all'attizzaggio del forno e che taglia il pavimento dell'ambiente, essendo essa a una quota più bassa; (c) un pozzo profondo scavato nella roccia; (d) un grande pithos adiacente al pozzo (Tav.XX, 2). Più a Est, nell'area 63, c'erano: (e) un notevole deposito di argilla pura pronta per la lavorazione che si estende su gran parte del pavimento e che comprendeva anche (f) due file di anfore puniche capovolte (28). Si sono inoltre messi a vista parti di strutture murarie con pilastri che probabilmente si collegano al tramezzo interno che separa i due ambienti (29). Si deve anche precisare che in una fase più tarda il forno piccolo venne distrutto e sigillato da un acciottolato che prosegue verso l'ingresso dell'edificio: la sezione alla fig. 3 mostra appunto le due diverse fasi di occupazione, di cui quella superiore di distruzione è caratterizzata da detriti di mattoni crudi crollati dai muri circostanti. Sull'acciottolato all'interno dell'edificio come pure sul pavimento esterno di argilla (Area 54) giaceva una gran quantità di punte di freccia di bronzo. Proprio in questo quadrato, sia dai pavimenti che dai detriti di distruzione, si potè recuperare oltre un centinaio di punte di freccia e, se si considera che una abbondante quantità si è riscontrata anche in altri punti dello scavo, è evidente che esse si riferiscono molto probabilmente all'assedio di Mozia nel 397 a.C.; simili punte di freccia in notevole quantità sono state rinvenute a Mozia in altri punti dell'isola, soprattutto a Porta Nord, e sono state generalmente interpretate come evidenza di questo avvenimento bellico (30).

Va ricordata infine una imponente struttura circolare, profonda quasi 4 metri, che si rinvenne nella campagna del 1981 nel quadrato 64. Si tratta di un grande forno a pianta bilobata dello stesso tipo di quello già descritto, di cui oltre alla camera di combustione inferiore si conserva il camino cilindrico in mattoni crudi. Esso costituisce quindi uno dei migliori esempi di forni fenici trovati in Oriente e nell'Occidente punico (Tav.XX, 3 - 4).

La successione cronologica dei vari elementi emersi nel settore nord dello scavo è la seguente. In un primo periodo, certamente nel corso del VI secolo, il muro di cinta era già costruito e ad esso venne successivamente aggiunto l'edificio dei vasai. Questo ebbe almeno due diverse fasi di vita e fu in uso fino al 397 a.C. In un periodo più tardo, posteriore a questa data, quando l'edificio venne abbandonato, seguì una fase di occupazione piuttosto povera di cui restano poche tracce: una delle superfici del settore meridionale, che come si è visto appartengono a questa fase, prosegue infatti fino alla fronte dell'edificio (Area 54); inoltre, un simile piano battuto viene a ricoprire a Nord l'ambiente a pilastri e il muro di cinta urbano.

3. Il contesto della statua

Tornando al settore meridionale dello scavo, ora è tempo di esaminare più da vicino il contesto stratigrafico a cui appartiene la statua. Come già detto, essa fu rinvenuta in questo settore e precisamente nell'angolo nord-est del quadrato 56 ove cadeva in sezione. La successione stratigrafica in questo quadrato e in quello adiacente (q. 55) è abbastanza leggibile se si osserva la sezione illustrata alla fig. 4. Nel disegno i detriti di mattoni crudi sono indicati a tratteggio per distinguerli dalle pietre. La sequenza relativa, a partire dal piano di campagna, è la seguente:

Fase 1. Comprende il terreno agricolo moderno (Locus 5601) e una decina di fosse (Loc. 5605 A-L) scavate per l'impianto di un vecchio vigneto che talora tagliano lo strato sottostante (31).

Fase 2. Ad essa appartiene il Locus 5615, lo strato di riporto già discusso con rideposizioni arcaiche e altre ceramiche di destinazione funeraria. Questo poggiava su una superficie di sabbia sterile (Loc. 5619), che a sua volta copriva uno spesso strato (Loc. 5620), costituito da un suolo color marrone rossiccio misto a glomeruli calcarei, a frequenti inclusi di mattone crudo e qualche ciottolo.

Fase 3. Anche questa è una fase povera di occupazione, caratterizzata dal piano battuto 5622 su cui era sparso un sottile sedimento alluvionale di sabbia sterile (Loc. 5621). In un punto su questa superficie giacevano vari frammenti di una grossa anfora e, a Sud-Est, alcune lastre forse facenti parte di un lastricato (Loc. 5623) (32).

Fase 4. Il battuto 5622 sigillava lo strato 5624, che era color marrone chiaro e conteneva inclusi di mattoni crudi. Questi divenivano molto più consistenti alla base dello strato sul lato sud dei quadrato, mentre a Nord c'era un livello di pietre brute (Loc. 5625) talora di grandi dimensioni che venivano a formare verso Est un vero e proprio cumulo sotto al quale giaceva la statua marmorea (Tav. XV, 1 e 2): nella sezione si può notare che un grosso masso di enorme spessore poggiava proprio al di sopra della scultura. A questo locus appartengono anche i grandi blocchi vicini già scavati nel 1924. I detriti di questa fase indicano chiaramente che si tratta di una fase di distruzione.

Fase 5. Lo strato di detriti poggiava su un piano battuto (Loc. 5628), su cui erano sparsi a tratti dei ciottoli che erano probabilmente i resti di un acciottolato molto sconnesso (Loc. 5627). Lo strato 5628 a cui appartiene il piano era composto da un suolo compatto di consistenza sabbiosa misto a una gran quantità di frammenti ceramici. Questo non era altro che il piano d'uso del pavimento (qui Loc. 5629) dell'area a cielo aperto che si estende in tutto il settore meridionale della Zona K.

La stratigrafia dei quadrato 56 riflette in pratica la sequenza già descritta per il settore meridionale dello scavo. C'è il pavimento con i resti di occupazione, risalente al V secolo (Fase 5); segue lo strato di detriti (Fase 4 ) e poi i livelli superiori di occupazione (Fasi 3 e 2) che, come si è visto, appartengono al pieno IV secolo a.C.

Una simile sequenza si riscontra del resto nella stessa sezione nel quadrato 55 (fig. 4). Qui lo strato di detriti e i livelli superiori concordano perfettamente con quelli dell'area 56, ma quello inferiore della Fase 5 diverge in quanto comprende una serie di straterelli'di argilla e sabbia nei quali sono infisse le due file di anfore capovolte (Loc. 5521). La sezione mostra infatti una netta cesura o, come si suol dire nel gergo archeologico, una «rottura stratigrafica»: da un canto la Fase 5 di occupazione, quando l'atelier dei vasai era ancora in piena attività; dall'altro quella di distruzione con la massa di detriti che la caratterizza. La presenza di parecchie punte di freccia conferma che lo strato di detriti fu un effetto della distruzione dionigiana del 397 a.C.

Sulla base dell'evidenza archeologico va fatta a questo punto qualche ulteriore riflessione. Anzitutto la completa assenza di edifici nella vasta area a cielo aperto della Zona K indica che i detriti dello strato di distruzione non possono riferirsi a crolli avvenuti in situ, ma che furono qui trasportati da ruderi vicini e stanno quindi in «giacitura secondaria». Nelle vicinanze cioè dovevano esserci una o più costruzioni andate in rovina, e forse un edificio di imponenti proporzioni costruito in opera quadrata.

Non si spiegherebbe altrimenti la presenza dei numerosi blocchi squadrati e talora sagomati, che insieme alla statua sono disposti secondo un asse all'incirca est-ovest e che in tempi normali sarebbero stati reimpiegati. Si dovette evidentemente trattare di una grande operaione di liveliamento e di risistemazione di un'ampia area urbana, che comportò quella che ormai si può definire la grande «colmata» della Zona K. Questa zona, essendo libera di edifici, era infatti adatta all'ammasso di detriti ingombranti. E' chiaro altresì che la colmata avvenne non durante l'assedio e il sacco delle truppe di Dionisio, ma subito dopo, in un momento immediatamente successivo.

Conseguentemente la statua marmorea fu partecipe di questa operazione. Come i blocchi sporadici, essa giaceva sul pavimento sotto un cumulo di pietre e pertanto appartiene allo strato di detriti che formano la colmata. Essa pertanto venne deposta in questo punto qualche anno dopo il 397 a.C. Ciò vuol dire che non era questo il punto in cui la statua stava originariamente eretta. Essa doveva essere situata altrove e venne poi definitivamente deposta nel sito in cui l'abbiamo rinvenuta. Tutto questo spiega la ragione per la quale non si è trovata finora alcuna traccia della base e degli arti mancanti, né del podio su cui era collocata. All'atto della deposizione le braccia e i piedi già mancavano, ma la testa era certamente ancora attaccata al corpo. E' vero che al momento della scoperta era rotta sul collo , ma la sua posizione era perfettamente aderente alla linea di frattura e alcune schegge della frattura sotto la nuca erano in situ e perfettamente combacianti. Evidentemente la rottura della testa sarà avvenuta dopo la sua deposizione sotto al cumulo di pietre, nel corso dei tempo, a causa della pressione esercitata dallo spesso deposito archeologico che la ricopriva. La scultura doveva essere inoltre originariamente dipinta in alcune sue parti come suggeriscono le tracce di colore che erano nel suolo a contatto col marmo. L'assenza del naso e la forte abrasione delle labbra suggeriscono che il volto venne molto probabilmente sfregiato in antico prima ancora che la statua venisse deposta nella colmata della Zona K.

Infine, la sua posizione supina sta a indicare che la scultura non venne gettata a casaccio, ma venne deliberatamente seppellita sotto al pietrame per preservarla da ulteriori danni e quasi per conservarne la memoria.

4. Qualche ipotesi di interpretazione storica

Le osservazioni e le deduzioni finora esposte si basano esclusivamente sui dati stratigrafici e contestuali dello scavo, che costituiscono in pratica i «fatti archeologici» identificati sul terreno. Uno di questi eventi fu la deposizione della statua sotto a un cumulo della colmata, evento che - se non andiamo errati - appartiene a un contesto di poco posteriore alla distruzione di Mozia e che si può presumibilmente collocare verso il 396/5 e comunque non oltre il 390 a.C. Se questo è il terminus ante quem, la statua è indubbiamente un'opera originale dei V secolo.

E' ovvio che sul piano metodologico l'analisi del contesto deve precedere qualsiasi considerazione storico-artistica. Ma alcuni autori hanno assegnato la scultura a periodi più tardi: qualcuno ha proposto una data non anteriore al III secolo (33), qualcun altro lo ha definito un pastiche tardif (34). Queste attribuzioni cronologiche non sono possibili alla luce dei fatti archeologia già discussi. Abbiamo visto come le fasi di occupazioni più tarde non vanno oltre il 350-330 a.C. e abbiamo già detto che la Zona K era già abbandonata negli ultimi decenni dei IV secolo.

Qualche altro autore ha proposto che, data la vicinanza dei forni, la statua sarebbe stata qui portata per farne calce (35). Questa ipotesi non convince per due ragioni ben precise. Anziutto, l'attività dei vasai e quindi dei forni era già cessata quasi certamente nel momento in cui fu operata la colmata. Bisognerebbe provare che la scultura non è associata al cumulo di pietrame ma allo strato d'uso del pavimento della fase precedente, cosa che mi sembra si possa escludere. In secondo luogo le strutture scoperte nella Zona K sono certamente dei forni di ceramica (36) e non vanno quindi confuse con le fornaci per calce, che sono ben diverse sul piano tecnologico e struttivo e non prevedono né una suola né un laboratorio per la cottura dei vasi (37).

Avviandoci alla conclusione, resta un ultimo problema da chiarire. Se il contesto della statua è connesso alla distruzione del 397, quali furono le sue ultime vicissitudini alla luce degli avvenimenti storici che portarono alla caduta di Mozia? Se la statua è indubbiamente un'opera di arte classica, quale fu la sua origine e perché è stata scoperta in una città punica di Sicilia? Per dare una risposta a questi quesiti è necessario far concordare i fatti archeologia con quelli storici e, in tal senso, due sono le ipotesi possibili da considerare.

La prima è quella che la scultura sia una preda bellica. Essa può certamente aver fatto parte dei bottino preso dai Cartaginesi a una delle colonie greche di Sicilia distrutte alla fine del V secolo e poi portata a Mozia. Sappiamo infatti che durante quelle guerre parecchie opere d'arte furono portate'a Cartagine e alla fine della terza guerra punica furono restituite dai Romani alle città siceliote o servirono a Scipione Emiliano per celebrare il suo trionfo a Roma (38). In questo caso la statua poteva appartenere originariamente a Selinunte, Himera, Gela o Agrigento e finì per essere portata in una città punica alleata di Cartagine. Ad essere sinceri, questa fu la prima ipotesi che a suo tempo presi in considerazione, ma mi lascia ancora perplesso se si considera il contesto archeologico. C'è da pensare che le truppe di Dionisio avrebbero quasi certamente ripreso e restituito la scultura alla città di origine. O se questa era ormai rovinata e avessero deciso di lasciarla sull'isola appena conquistata, avrebbero più semplicemente scavato una fossa per seppellirla e non avrebbero mai fatto una colmata come quella della Zona K. Un'operazione di tale portata da parte dei vincitori non avrebbe alcun senso e si deve quindi pensare che le cose siano andate diversamente.

E' infatti più logico supporre che gli autori della colmata e quindi della deposizione della statua siano stati gli stessi abitanti di Mozia. Si potrebbe allora erroneamente pensare che questo evento abbia avuto luogo durante e non dopo l'assedio della città e che i moziesi abbiano cercato di nascondere la scultura nell'ora dei pericolo. Ma se si fosse trattato di un trofeo di guerra, essi certamente non si sarebbero presi la briga di andarlo a deporre sotto un cumulo di pietre; lo avrebbero fatto soltanto se si trattava di un'opera propria della cultura e cara alla patria. Ma in questo caso la statua sarebbe stata deposta integra insieme alla base e non si spiegherebbe l'assenza di alcune sue parti. Questa possibilità è quindi da scartare. Anzi le mutilazioni ricevute prima della deposizione costituiscono un ulteriore indizio che corrobora la nostra interpretazione già espressa sopra secondo la quale la colmata della Zona K avvenne dopo la caduta di Mozia.

Sulla base di queste considerazioni viene a cadere l'idea della preda bellica e sorge l'altra ipotesi che la statua - pur essendo di fattura greca - sia di origine moziese. Il che implica che sia stata commissionata da genti puniche e che in essa sia effigiato un personaggio punico piuttosto che greco.

Per poter meglio ricostruire questi fatti, è necessario a questo punto ricordare brevemente le ultime vicende della storia di Mozia che racconta Diodoro Siculo (XIV, 51-53). Dopo il lungo assedio, le truppe di Dionisio aprirono una breccia nelle mura e la battaglia divampò tra le vie e le case della città in un furioso corpo a corpo, e, una volta sopraffatte le forze nemiche, la ferocia dei vincitori sicelioti non risparmiò neanche le donne e i bambini e pochi degli abitanti scamparono all'eccidio. Finita la strage, i soldati si diedero al saccheggio:

A questo punto si può facilmente immaginare quanto può essere successo. Vista la statua sul podio su cui era eretta, i soldati vincitori la abbatterono, probabilmente la sfregiarono sul volto e si impadronirono degli ornamenti di bronzo che la adornavano (39). Nella caduta si dovette rompere nei punti più deboli, cioè le braccia e le caviglie. Se la statua fosse stata interamente di bronzo, essa sarebbe stata portata via e non ci sarebbe più traccia: ma essendo il marmo di poco interesse per le truppe avide di ricchezze, essa venne abbandonata sul posto.

Dopo il saccheggio della città, Dionisio lasciò a Mozia una guarnigione composta per lo più di Siculi con a capo il siracusano Biton (DIOD. XIV, 53,5). E così si concluse la campagna del 397. Ma l'anno seguente (396 a.C.), riferisce sempre Diodoro (XIV, 55,4), il generale cartaginese Imilcone intraprese una nuova campagna in Sicilia. Sbarcò a Panormo con una flotta, marciò prima verso Erice e se ne impadronì; poi si accampò presso Mozia e la riprese per assedio. Il ritorno di Imilcone comportò ovviamente anche il ritorno degli antichi abitanti superstiti nella loro patria. Ed è molto probabile che questi, una volta ritrovata la loro statua abbattuta e mutila tra le rovine ancora fumanti della città, l'abbiano deposta in luogo vicino sotto a un cumulo di pietrame, nel punto in cui avevano deciso di effettuare uno sgombero di detriti.

Se, fino a prova contraria, questa sembra la ricostruzione più plausibile dei fatti archeologici, c'è un ultimo quesito al quale non si può dare per il momento una risposta. Da dove provengono infatti i detriti che formano la colmata? E qual'era il sito originario della statua?

Si è già visto sopra che la presenza dei blocchi squadrati fa sospettare la presenza di un edificio in opera quadrata situato nelle vicinanze. Si può altresì escludere che i blocchi possano provenire dalle vicine fortificazioni, dato che queste sono costruite in una diversa tecnica materiale lapideo (40). C'è poi il grande ceppo di ancora litica trovata nello stesso contesto della statua e che probabilmente dovette avere una destinazione votiva. C'è anche un capitello unico a doppia gola egizia, finora inedito, che fu probabilmente scoperto dal Whitaker nel saggio del 1924 e che probabilmente faceva parte della colmata. Dagli scavi della Zona K provengono inoltre due matrici fittili di terracotte votive. Infine, la stessa statua potrebbe essere una statua di culto.

Tutti questi indizi suggeriscono che nelle vicinanze della colmata vi fosse un edificio di culto, al quale poteva appartenere in origine la scultura. Questo potrebbe essere senz'altro il vicino santuario di Cappiddazzu, il cui edificio a tre navate fu evidentemente ricostruito in epoca posteriore alla distruzione del 397 a.C. come indicano dei resto i blocchi di cornice a gola egizia reimpiegati nelle fondazioni (41). Ma non si possono escludere altre possibilità. Altri elementi, che sarebbe qui troppo lungo spiegare, mi spingono a credere che tutta l'area che va dalla via di Porta Nord fino alla Zona K fosse una grande piazza che un tempo circondava il complesso monumentale di Cappiddazzu. Oltre a questo complesso potevano sorgere in quest'area altri edifici pubblici o religiosi non ancora identificati, altri monumenti come un sacello o un Heroon a cui la scultura poteva essere associata. Non resta quindi che proseguire ricerche sul terreno per tentare di svelare i segreti che Mozia nasconde ancora nel suo grembo e il mistero che oggi avvolge la sua splendida statua marmorea.

NOTE

(1) Per la bibliografia aggiornata sulla statua moziese si rimanda alla scheda tecnica allegata in appendice. Le fotografie e i disegni acclusi al presente lavoro, quando la fonte non è indicata, sono a cura dell'autore.

(2) Per le notizie preliminari sullo scavo, cfr. G. FALSONE, I nuovi scavi di Mozia, in BCA Sicilia I, 1980, pp. 100-3; ID. F. SPATAFORA - A. GIAMMELLARO - SPANÒ - M. L. FAMA, Gli scavi della Zona K a Mozia e il caso stratigrafico del locus 5615, in Kokalos 26-27, 1980-81, pp. 877-930; G. FALSONE, Mozia, Zona K, la quarta campagna di scavo, in BCA Sicilia 6, 1985, in stampa.

(3) Tra le varie persone che ci hanno aiutato, desidero ricordare con particolare gratitudine il Soprintendente Prof. Vincenzo Tusa, nonché Docente di Antichità Puniche, il Prof. Bruno Lavagnini, già Presidente della Fondazione Whitaker, il Preside della Facoltà Prof. Antonino Buttitta e il Direttore dell'Istituto di Archeologia Prof. Nicola Bonacasa, l'Assistente della Soprintendenza Sig. Vincenzo Colletta, e il Geom. Rosario Vella della stessa Soprintendenza, e altri giovani laureati che hanno collaborato più saltuariamente alla ricerca, tra cui Rossella Giglio, Francesca Oliveri, Maria Grazia Affatigato e Aldo Fresina.

(4) Dopo il 1981 lo scavo fu sospeso. Un'ultima campagna diretta da A Giammellaro Spanò è stata condotta nell'autunno 1985 in un'area vicina.

(5) Cfr. G. FALSONE, Archeologia a Poggioreale. Un esempio di ricerca sperimentale sul campo, in Sic.A 30, 1976, p. 61 ss. e particolarmente pp. 62-66; G. FALSONE - A. LEONARD JR., Missione archeologica a M. Castellazzo di Poggioreale, ibid 37, 1978, p. 41.

(6) La supervisione del quadrato 56 era stata affidata alla Dott. A G. Calascibetta.

(7) La parte nord del quadrato 56 rientrava in un vecchio saggio scavato dal Whitaker, di cui si dirà più avanti (fig. 2): del diaframma nord di questo rimaneva pertanto solo una piccola porzione sul lato est.

(8) Per i recenti scavi di Cappiddazzu, condotti da V. Tusa, si rimanda ai rapporti preliminari in Mozia I, Roma 1964, pp. 21-40; Mozia II, Roma 1966, pp. 7-24; Mozia III, Roma 1967, pp. 7-10; Mozia IV, Roma 1968, pp. 7-23; Mozia VI, Roma 1970, pp. 7-47; Mozia VIII, Roma 1972, pp. 7-31; Mozia IX Roma 1978, p. 90. Per la tipologia dell'edificio si rimanda anche alle interessanti osservazioni di B. S. ISSERLIN, Miscellanea Punica, in StMagreb 6, 1974, p. 37 ss. e particolarmente pp. 40-44.

(9) J. I. S. WHITAKER, Motya A Phoenician colony in Sicily, Londra 1921, pp. 202-5 e la pianta topografica alla fine del volume, ove sono indicati con lettere maiuscole i vari siti da lui scavati tra cui Cappiddazzu (K).

(10) Prima dell'inizio del nostro scavo nel 1977 il tratto già scavato delle fortificazioni più vicino alla Zona K era il lungo muro in bella tecnica isodoma scoperto dal Whitaker (op. cit., p. 146, fig. 9), situato più a Ovest nei pressi della necropoli arcaica.

(11) La Zona K supera verso Nord la quota di m. 6 s.l.m. ed è stata definita come «High Ground near Cappiddazzu»: cfr. B. S. J. ISSERLIN - J. Du PLAT TAYLOR, Motya A Phoenician and Carthaginian City in Sicily I. Fieldwork and Excavation, Leida 1974, p. 31 ss., fig 6.

(12) Per alcuni cenni su questi saggi cfr. anche G. FALSONE, Per una storia degli studi e degli scavi di Mozia, in Sicilia n. 88, 1981, pp. 42-53 e in particolare p. 49.

(13) Per una più ampia descrizione di questi ritrovamenti cfr. FALSONE ET AL., cit. n. 2, pp. 877-9.

(14) L'acciottolato, che era stato già identificato dal Whitaker nel 1924, era spesso assai sconnesso ma era meglio conservato verso Ovest (quadrati 36, 37 e 46).

(15) Le punte di freccia bronzee sono di due tipi: quelle piccole a cuspide piramidale, note come del tipo «scita»; e quelle più lunghe di tipo foliato qui illustrate. Un terzo tipo simile a quest'ultimo ma in ferro ricorre anche negli scavi della Zona K. Tutti questi tre tipi sono ampiamente attestati negli scavi di Mozia: cfr. A SNODGRASS, The metalwork, in B. S. J. ISSERLIN ET AL, Motya, a Phoenician-Punic site near Marsala, in AnnLeedsUnOrSoc 4, 1962-63, pp. 127-130 e tav. 14c; e anche Mozia VII, tav. XI, 2.

(16) Per simili ghiande missili Cfr. WHITAKER., Op. cit, p. 344. Lo strato sotto al pavimento non è stato ancora scavato, ma è visibile nella sezione del saggio del 1924. Esso contiene una gran quantità di ceneri e di scorie di lavorazione e pertanto indica che l'attività di vasai (v. infra) ebbe inizio in una fase precedente alla costruzione del pavimento dell'area a cielo aperto.

(17) Le anfore di questo tipo sono di produzione locale e sono abbastanza diffuse a Mozia. Cfr. ISSERLIN ET AL., loc. cit., nota I 5, fig. 15: 7.

(19) Solo una metà del ceppo di ancora è stata finora messa a vista nell'Area 45 (l'altra metà giace oltre il limite ovest dei quadrato) e presenta una lunghezza di circa m. 1,60. Il ceppo, se integro, dovrebbe quindi essere lungo almeno 3 m.

(20) La sezione alla fig. 4, discussa più sotto, mostra chiaramente come gli straterelli con le anfore capovolte (Loci 5515 e 5517) nel quadrato 55 appartengono a una fase precedente a quella cui appartiene la statua.

(21) Area K 65, Loc. 6517 (campagna 1981). Non si tratta di una deposizione originaria in quanto lo scheletro è assai lacunoso, come pure la calotta cranica che è priva della mandibola e di altre sue parti. E' altresì curioso il fatto che non fu scavata alcuna fossa per il seppellimento in quanto le ossa erano sparse senza un ordine preciso a parte un gruppo di tre vertebre. L'analisi paleo-osteologica ha dimostrato che si tratta di un adulto di sesso femminile avente un'età di circa 30 anni. M. J. BECKER, Metric and non-metric data from a series of skulls from Mozia, Sicily and a related site, in Antropologia Contemporanea 8, 1985, pp. 211-28 e particolarmente p. 226.

(21) FALSONE ET AL., loc. cit. nota 2, p. 883 ss. e fig, 2, pianta.

(23) Per la necropoli arcaica di Mozia, cfr. J.I. S. WHITAKER op. cit., pp. 206-31, Mozia VII, pp. 34-79, Mozia IX pp. 7-65.

(24) Per un esemplare della stessa forma ma di stile un po' diverso, cfr. Mozia V, p. 32 e tav. 38 d. Secondo il Prof. A D. Trendall, che qui ringrazio per la cortese informazione, lo skyphos della Zona K è databile al secondo venticinquennio del IV sec. e, più particolarmente, verso il 360 a.C. Il pezzo è di fabbrica siciliana e prelude alla fase iniziale della produzione campana e pestana («Early Campanian» e «Early Paestan»).

(25) Per simili coppe con palmette impresse rinvenute a Mozia, cfr. J. N. COLDSTREAM, The Greek postery, in ISSERLIN ET AL, loc. cit., nota 15 p. 121, tav. 13: 5-6, fig. 7: f-g.

(26) Nella planimetria alla fig. 1 i muri e i pilastri di questo ambiente sono ipoteticamente ricostruiti e indicati a tratteggio in quanto non ancora scavati.

(27) G. FALSONE, Struttura e origine orientale dei forni da vasaio di Mozia, Palermo 1981.

(28) Queste file di anfore del quadrato 63 sono dello stesso tipo di quelle scoperte nel settore meridionale (Aree K 55 e 65) e dovevano svolgere la stessa funzione.

(29) Per queste strutture, emerse lungo il lato nord dei quadrato 63, vale quanto detto alla nota 26.

(30) Supra, nota 15: e anche WHITAKER, op. cit., pp. 168 e 340.

(31) Per la planimetria di questa fase e di quella seguente, cfr. FALSONE ET AL., cit., in Kokalos 26-27, fig. 2.

(32) Le lastre sono visibili nella sezione est e sembrano quindi continuare nell'area non ancora scavata.

(33) P. ZANCANI MONTUORO, Hnìoxoi, in PP 216, 1984, p. 225.

(34) B. HOLTZMANN, in RA 1985, p. 305.

(35) V. TUSA, La statua di Mozia, in PP 213, 1983, p. 445 e nota 1.

(36) Ciò è anche suggerito dalla maggioranza dei rinvenimenti: varie istallazioni, depositi di argilla, scarti e rifiuti di lavorazione, scarichi di frammenti ceramici, matrici fittili, manufatti di argilla cruda, etc. Per i forni, v. sopra alla nota 27.

(37) Per qualche esempio di fornace per calce nel mondo punico, cfr. S. Moscati, I Fenici e Cartagine, Torino 1972, p. 490 e figura a p. 492 (fornce da Kerkouane); e nell'area siro-palestinese, S. GIBSON, Lime kilns in North-East Jerusalem, in PEQ 116, 1984, pp. 94- 102, fig.3.

(38) Le fonti sono raccolte in S. GSELL, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord, III, Parigi 1918, p. 402 e n. 4, v. anche il mio contributo sulla statua pubblicato in Mélanges Labarbe, Liegi/Louvain-La-Neuve 1987.

(39) Per tali ornamenti bronzei, v. infra (scheda tecnica).

(40) Il tratto di fortificazione emerso nello scavo della Zona K (Tav. XIX, 3) è costruito a grossi blocchi calcarei irregolari e talora un pò sbozzati.

(41) Cfr. Mozia VIII, tav. 6.