Comitato
Organizzatore
FANTÀSIA-Iniziative
Culturali
in
San
Marino.
PANEUROPA
SAN
MARINO
-
Osservatorio
stabile
sull'Integrazione
Europea
e
la
Sussidiarietà
della
Repubblica
di
San
Marino.
Associazione
Culturale
internazionale
IDENTITÀ
EUROPEA
IL
CERCHIO-INIZIATIVE
EDITORIALI,
Rimini.
Con
il
Patrocinio
di
-Segreteria
di
Stato
per
gli
Istituti
Culturali
della
Repubblica
di
San
Marino.
-Segreteria
di
Stato
per
il
Commercio
e
Turismo
della
Repubblica
di
San
Marino.
-Unione
Paneuropea
Internazionale.
Presentazione
Il
sesto
corso
sarà
dedicato
al
tema
della
Sussidiarietà
nell'ambito
delle
istituzioni
europee
sensibili
a
questo
principio
in
una
prospettiva
più
ampia
delle
sue
formulazioni
liberali
ed
economicistiche,
ovvero,
tenendo
presente
quelle
valenze
culturali
più
profonde,
di
identità,
di
meditazione
sui
valori
spirituali
ed
etici
che
possono
fondare
una
piena
affermazione
della
sussidiarietà
come
principio
unificante
di
una
coscienza
europea
rispettosa
della
varietà
storica,
e
quindi
dell'unicità,
di
ogni
singola
nazione.
I
Corsi
hanno
periodicità
annuale
ed
una
struttura
basata
su
Lezioni
e
discussioni.
Per
l'iscrizione
ai
Corsi
non
è
previsto
alcun
titolo
di
studio,
ma
un
preciso
impegno
di
puntualità
e
di
frequenza.
Programma
provvisorio
o
Venerdì
20
luglio
-
1ª
sessione
"Il
principio
di
Sussidiarietà"
Prof.
Francesco
Gentile,
Università
di
Padova;
prof.
Gianfranco
Morra,
Università
di
Bologna;
Miguel
Ayuso
Torres,
Fondazione
F.
Elias
de
Tejada,
Madrid;
prof.
Chantal
M.
Del
Sol,
Université
de
Marne. o
Sabato
21
luglio,
9,30
-
2ª
sessione
"Sussidiarietà
ed
istituzioni
europee"
Prof.
Luca
Antonini,
Università
di
Torino;
prof.
Ugo
Pagallo,
Università
di
Padova;
prof.
Lucio
Franzese,
Università
di
Trieste. o
Sabato
21
luglio,
15,00
-
3ª
sessione
"Il
ruolo
delle
istituzioni
culturali
per
la
promozione
del
principio
di
Sussidiarietà
all'interno
dell'Unione
Europea"
Prof.
Giuseppe
Forlani,
Università
di
Bologna;
prof.
Prof.
Franco
Cardini,
Università
di
Firenze
e
di
San
Marino;
Stefano
Taddei,
Responsabile
Ufficio
Economia
e
Cultura
di
"IDENTITÀ
EUROPEA" o
Domenica
22
luglio,
9,30
-
4ª
sessione
"Un
tema
cruciale:
la
Carta
dei
diritti
dell'Unione
Europea"
Relazione
introduttiva
di
S.E.
Mons.
Attilio
Nicora,
Commissione
Giuridica
della
C.E.I.;
Tavola
Rotonda;
sono
stati
invitati:
On.Giorgio
Lisi,
parlamentare
europeo;
S.E.
Yuri
Karlov
già
ambasciatore
della
CSI
presso
la
Santa
Sede;
On.
Enzo
Bettiza,
parlamentare
europeo.
Per
garantire
la
massima
efficienza
ai
Corsi,
la
partecipazione
è
limitata
ad
un
massimo
di
150
iscritti.
Le
iscrizioni
verranno
accolte
in
rigoroso
ordine
d'arrivo,
fino
a
copertura
dei
posti
disponibili.
Per
iscriversi
ai
Corsi
dell'Università
d'Estate
di
San
Marino
è
necessario
presentare
domanda
scritta
d'iscrizione
al
Comitato
Organizzatore,
accompagnata
dal
versamento
della
quota
di
iscrizione.
L'Iscrizione
consente
la
partecipazione
ai
corsi,
da'
diritto
all'invio
gratuito
di
copia
degli
Atti
del
Corso
e
ad
usufruire
delle
condizioni
speciali
concordate
con
ristoranti
ed
alberghi.
Il
Comitato
Organizzatore
si
riserva
il
diritto
di
valutare
e
di
accettare
a
proprio
insindacabile
giudizio
le
richieste
d'iscrizione,
impegnandosi
a
restituire
le
quote
relative
a
domande
eventualmente
non
accolte.
Borse
di
Studio
Il
Comitato
Organizzatore
riserva
50
posti
a
giovani
che
risultino
meritori
di
un'apposita
Borsa
di
Studio
riservata
a
studenti,
ricercatori,
disagiati
o
disoccupati.
La
Borsa
di
Studio
da'
diritto
alla
partecipazione
gratuita
a
un'edizione
annuale
dei
Corsi.
Le
richieste
di
Borse
di
Studio
vanno
indirizzate
al
Comitato
Organizzatore,
corredate
dai
dati
anagrafici,
dalla
fotocopia
del
Libretto
universitario
o
da
un
documento
che
attesti
la
condizioni
di
disoccupato,
entro
il
10
luglio
2001,
il
Comitato
Organizzatore
confermerà
direttamente
all'interessato
l'avvenuta
accettazione
della
domanda.
Iscrizioni
ed
Informazioni
La
quota
d'iscrizione
al
V
Corso
dell'Università
d'Estate
di
San
Marino
è
stabilita
in
£
100.000,
da
inviarsi
alla
Segreteria
dell'Università
d'Estate
di
San
Marino
nei
seguenti
modi:
a)
tramite
assegno
bancario
o
circolare
non
trasferibile,
intestato
a
"Fantàsia-
San
Marino".
b)
tramite
versamento
sul
conto
corrente
postate
n°10252476
intestato
a
"Adolfo
Morganti
-
Rimini",
specificando
nella
causale
del
versamento
"Iscrizione
Università
d'Estate
2001".
Per
iscrizioni
ed
ulteriori
informazioni
gli
interessati
possono
rivolgersi
alla
Segreteria
dell'Università
d'Estate
di
San
Marino,
c/o
Il
Cerchio,
via
dell'Allodola
8,
47900
Rimini,
utilizzare
l'e-mail
fantasia@iper.net
o
telefonare
allo
0541
775977.
Relazione di Francesco Gentile
"La Comunità Economica Europea costituisce un ordinamento
giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale a favore
del quale gli Stati membri hanno rinunziato, se pure in settori limitati,
ai loro poteri sovrani ed al quale sono soggetti non soltanto gli Stati
membri, ma pure i loro cittadini".
Non è uno storico né un teorico generale del diritto e
neppure un costituzionalista o un costituente a pronunciarsi così
ma un giudice: la Corte di giustizia delle Comunità Europee. Non
c'è dubbio però che questo testo, tratto da una delle prime
sentenze della Corte di giustizia CEE (c.26/62, Van Gend en Loos, sentenza
del 5 febbraio 1963), rappresenti un condensato di storia e di teoria
generale nonché di politica del diritto, individuando con forza,
benché con qualche lieve flessione teorica, quello che è
stato il nodo nevralgico dell'esperienza giuridica europea dopo l'entrata
in vigore dei Trattati CEE ed Euratom (1958) e giù giù sino
ai giorni nostri, passando per il Trattato sull'Unione Europea (Maastricht,
1992) e le sue modifiche in base al Trattato di Amsterdam (1997): la nascita,
perlomeno allo stato embrionale, di un ordinamento giuridico al di là
della sovranità.
L'ordinamento giuridico comunitario, invero, può dirsi nuovo
esclusivamente nel senso di diverso tanto rispetto a quello degli Stati
membri quanto rispetto a quello della Comunità internazionale,
perché esso nasce non dall'affermarsi della volontà di un
nuovo Sovrano ma dalla rinuncia alla sovranità da parte degli Stati
che hanno stretto l'accordo e d'altra parte esso ha valore cioè
è vincolante non solo per gli Stati, secondo gli schemi della Comunità
internazionale, ma anche per i loro cittadini risultando prevalente, in
caso di contrasto, sulla stessa legislazione interna degli Stati membri.
E' su questo primo fattore di novità che vorrei innanzitutto
fissare l'attenzione, sull'ordinamento giuridico "al di là
della sovranità", non prima però di avere ancora una
volta notato come il problema della "natura giuridica" della
Comunità e quindi dell'Unione europea si sia posto non all'astratto
creatore di geometrie legali, qual è inevitabilmente il legislatore
moderno, ma al concreto risolutore di controversie, qual è naturalmente
ogni giudice, ivi compresa la Corte di giustizia CEE.
Al di là della sovranità
Bisogna prendere atto di un fatto: l'Europa ha lasciato alle sue spalle
le sovranità.
Non senza difficoltà, manifestatesi sin dal Trattato di Roma,
e talvolta duri contrasti come ad esempio quello relativo alla concorrenza
legislativa tra regolamenti comunitari e leggi statali che, per rimanere
all'esperienza giuridica italiana, ha visto la nostra Corte Costituzionale
cambiare dal 1964 tre volte l'avviso sino a giungere nel 1984 all'accoglimento
dei criteri o meglio dei principi stabiliti dalla Corte di Giustizia CEE.
Anche se, come opportunamente mette in guardia Ugo Pagallo nel suo studio
su L'ordinamento comunitario, in Testi e contesti dell'ordinamento giuridico
del 1999, un "non sopito e profondo dissidio culturale e dottrinario"
permane tra "la dottrina monista della Corte di Giustizia europea
- imperniata sul primato del diritto comunitario sui singoli ordinamenti
nazionali - e la prospettiva dualista adottata dalla Consulta, che fa
leva invece sulla ripartizione di competenze tra i sistemi normativi nazionali
e comunitari, configurati come distinti, ancorché coordinati".
Per fissare tuttavia l'evento, arricchitosi di sfumature e di complessità
dopo il Trattato di Maastricht, mi servirei delle sottili argomentazioni
rinvenibili nel saggio di Giuseppe Guarino su La grande Rivoluzione: l'Unione
Europea e la rinuncia alla sovranità, apparso in "1989",
Rivista di Diritto Pubblico e Scienze Politiche (VIII, 1998/2).
Che cosa intende Guarino con l'espressione "grande rivoluzione"?
Testualmente: "Gli Stati membri dell'Unione Europea non sono più
Stati, né è Stato l'Unione Europea" perché gli
Stati membri hanno rinunciato alla sovranità relativamente a quelli
che vengono definiti come i "compiti fondamentali della normazione
di uno Stato sovrano".
Il primo compito è quello di sancire i principi fondamentali
dell'organizzazione dello stato, ivi compreso il rapporto tra stato e
cittadini.
Ora, l'art. F del Trattato dell'Unione, al n. 1, sancisce che il governo
degli stati membri "si fonda sui principi democratici" e, al
n. 2, che esso "rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti
dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali" e "quali risultano dalle
tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi
generali del diritto comunitario". In tal modo, osserva l'acuto geometra
delle leggi, l'autolimitazione del singolo stato, flessibile e sempre
superabile nella logica dello "Stato di diritto", si è
trasformata in eterolimitazione, imposta da una fonte costituzionale sovraordinata
e rigida. Risultato: la perdita della sovranità!
Il secondo compito è quello di regolamentare i rapporti economici.
Ora, il Trattato della Comunità europea come modificato dall'art.
G del Trattato dell'Unione, all'art. 2, sancisce che "la Comunità
ha il compito di promuovere, mediante l'instaurazione di un mercato comune
e di un'unione economica e monetaria e mediante l'attuazione delle azioni
comunitarie, uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività
economiche nell'insieme della Comunità, una crescita sostenibile,
non inflazionistica e che rispetti l'ambiente, un elevato grado di convergenza
dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione
sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita,
la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri".
Il che comporta tra l'altro, come precisa l'art. 3, l'abolizione dei dazi
doganali tra gli stati membri e delle restrizioni quantitative all'entrata
e all'uscita delle merci come pure di tutte le altre misure di effetto
equivalente, l'eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle
persone, dei servizi e dei capitali, il ravvicinamento delle legislazioni
nella misura
necessaria al funzionamento del mercato comune nonché, come precisa
l'art. 52, la soppressione di ogni restrizione alla libertà di
stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro
Stato membro, e per altro verso, come si legge agli artt. 92 e ss., il
divieto di sussidi statali alle imprese che falsino o minaccino di falsare
la concorrenza.
Tutto questo comporta l'arretramento, se non l'esaurimento, della sovranità
degli stati membri di fronte all'Unione. In realtà, avverte l'attento
geometra delle leggi, "l'ordinamento interno si ritrae man mano che
si espande il sistema comunitario. L'effetto di riduzione della sfera
interna è irreversibile. Una volta che un determinato oggetto abbia
formato materia di disposizione comunitaria, esso è sottratto definitivamente
al potere normativo dello Stato membro. La disposizione comunitaria va
intesa quale esplicitazione del Trattato, che è fonte costituzionale
sovraordinata e rigida.
Man mano che il contenuto ed i principi del Trattato si espandono, l'ordinamento
interno dello Stato membro inversamente si restringe".
Terzo tra i compiti fondamentali di uno stato sovrano è quello
di adottare leggi di spesa, e maliziosamente Guarino annota che negli
ultimi cinquant'anni la sovranità dello Stato italiano si è
manifestata soprattutto nell'adozione di leggi di spesa, come peraltro
è testimoniato dai due milioni e passa di miliardi del debito pubblico.
Orbene, il Trattato dell'Unione fissa un limite a quanto i singoli stati
membri possono spendere e collega l'ammontare delle somme spendibili al
risultato prodotto dal mercato. I limiti sono fissati dai rapporti quantitativi
tra prodotto interno lordo e indebitamento annuale dello stato (3%) e
tra prodotto interno lordo e debito totale dello stato (60%). Queste percentuali
costituiscono valori di riferimento fissi, inderogabili, perché
stabiliti nel Protocollo n. 5 sulla base dell'art. 104 C, e sono modificabili
con una procedura particolarmente complessa implicante il voto unanime
dei componenti l'Unione. D'altra parte, questi limiti sono resi, se possibile,
assolutamente rigidi dalla adozione della moneta unica, l'euro, in base
alla quale gli stati membri sono espropriati della sovranità monetaria,
cioè del potere discrezionale di battere moneta, perché
solo la Banca Centrale Europea può autorizzare all'emissione ed
è essa stessa a regolamentare il deposito obbligatorio. Guarino
ha un'espressione quanto mai efficace per rappresentare la situazione
in tal modo creatasi: "Prima era lo Stato attraverso il governo della
liquidità a determinare il volume del mercato, ora è il
mercato con la quantificazione del suo prodotto, il PIL, a determinare
il volume possibile dell'attività dello Stato".
Insomma, quello che fu lo Stato non sarebbe più tale, per la perdita
della sovranità. E nemmeno lo sarebbe l'Unione, perché è
stata concepita e si muove al di fuori del principio di sovranità.
A questo proposito il discorso di Guarino è più succinto,
e limitato al momento economico.
"Le condizioni fisiologiche di funzionamento del mercato, quale
si tende ad assicurare a mezzo dei valori di riferimento, come s'impongono
agli Stati membri, così a maggior titolo s'impongono all'Unione",
il cui bilancio deve essere in pareggio (art. 199) e deve essere finanziato
integralmente tramite risorse proprie (art. 201), consistenti in premi,
imposte supplementari e compensative, in dazi della tariffa doganale comune
e principalmente in una aliquota uniforme dell'imponibile IVA riscossa
dagli Stati membri e in una percentuale da applicarsi alla somma del PIL
di tutti gli Stati membri, per un importo globale che comunque non può
superare l'1,20% del totale del PIL comunitario (artt. 2 e 3, Decisione
24 giugno 1988). Alle stesse limitazioni è poi sottoposta la Banca
Centrale Europea il cui obiettivo primario è quello del mantenimento
della stabilità dei prezzi e le cui determinazioni in vista di
eventuali altre finalità congiunturali possono essere prese solo
se e in quanto l'obiettivo della stabilità dei prezzi sia fatto
salvo (art. 105).
Si può dire quindi che "l'Unione Europea, l'Europa, rinuncia
alla sovranità".
Prima di ritenere concluso questo primo capitolo, credo che si debbano
fronteggiare sia pure in modo sbrigativo alcuni equivoci in cui è
andata a parare la politica europea con la costituzione, progressiva e
convenzionale, dell'Unione europea.
Taluno, ma per la verità più d'uno e tra questi il nostro
geniale geometra del diritto, sostiene che con l'avvento dell'Unione in
Europa sarebbe finita la politica. Perché gli stati membri, non
essendo più veramente degli stati sovrani, non sarebbero più
dei veri soggetti politici e perché l'Unione, non avendo lo statuto
di uno stato sovrano, si sarebbe preclusa la possibilità di divenire
un vero soggetto politico. Tra le molte illusioni a cui in Europa si dovrebbe,
giunti a questo punto, rinunciare secondo Guarino, infatti, la prima e
più corposa sarebbe quella di "trasformare l'Unione monetaria
in Unione politica". Un equivoco si annida in questo assunto: l'equivoco
dell'assimilazione di politica e sovranità! Scrive, testualmente,
il geometra delle leggi:" La politicità è corollario
della sovranità o, ancor meglio, è un modo di esprimere
la sovranità". Insomma, la fine della sovranità dello
stato, cioè della pretesa teorizzata dalla geometria politico-legale
di non riconoscere al di sopra del sovrano né autorità né
legge alcuna, viene interpretata come fine della politica perché
si è pregiudizialmente e ingiustificatamente ridotta la politica
alla "ragion di stato", di cui la definizione più sottile
e significativa rimane, a mio avviso, quella del Cardinale Giovanni Battista
De Luca (1680), secondo la quale "alla parola ragione si accoppia
l'altra parola di stato per dinotare una ragione pubblica, singolare del
principe e della Repubblica in universale". Vengono in tal modo definite,
perentoriamente, l'assoluta arbitrarietà della "ragion di
stato", che è lasciata all'assoluta discrezione del principe,
quod principi placuit legis habet vigorem, e insieme la latitudine, ma
forse sarebbe più corretto dire la natura, della soggezione del
singolo alla "ragion di stato", a cui tutti sono soggetti per
tutto, come ad autorità divina, perciò in duplice senso
universale.
Di fronte alla crisi degli Stati membri, per l'avvento dell'Unione,
chi afferma la fine della politica in realtà rivela la propria
vocazione a ridurre la politica a "ragion di stato". Rimanendo
vittima di un equivoco che peraltro gli impedisce di vedere come, teoricamente
parlando, lo Stato membro sulla base della sovranità potrebbe sempre
recedere dall'Unione, denunciando i trattati, e lo distoglie da quello
che invece è, oggi in Europa, il primo e principale interrogativo
politico: perché gli Stati europei hanno scelto di rinunciare al
principio della sovranità per costituire l'Unione Europea?
D'altra parte, paradossalmente e contro tutte le apparenze, il riconoscimento
del fatto che nell'esperienza appena iniziata il mercato comunitario sembra
prevalere sulla sovranità dei singoli stati membri e della stessa
Unione, a ben vedere, potrebbe rivelarsi come indicativo della via da
praticarsi per un recupero della politica, che sulla base del principio
della sovranità è stato ridotto all'arbitraria "ragion
di stato". Per il recupero della politica nella sua originaria ed
autentica accezione d'intelligenza del bene comune quale intelligenza
in comune del Bene.
Benché il discorso sia per ora limitato al solo ambito delle
decisioni economiche, sulla base di criteri ovviamente utilitaristici,
esso introduce il principio generale del radicamento della politica nelle
cose, e in tal senso nella natura. Quando, infatti, si stabilisce quale
limite invalicabile delle decisioni politiche, in tema di leggi di spesa,
il prodotto interno lordo, che non è qualcosa d'astratto o di virtuale
ma corrisponde ad un fatto concreto, cioè a quanto sul mercato,
in condizioni fisiologiche, si è realmente prodotto nel tempo dato,
si riporta la decisione politica a fare i conti con delle regole naturali
che la precedono e inevitabilmente la condizionano. Evitandole, da un
lato, di partire per la tangente di una virtualità incontrollata
e incontrollabile, ma pericolosamente in grado di inquinare e corrompere
l'esistenza umana. Io credo davvero che la prima forma di polluzione sperimentata
dall'uomo sia quella da geometria politico-legale! E, d'altra parte, consentendo
alla decisione politica di basarsi su qualcosa di solido, perché
corrispondente alla natura delle cose e degli uomini.
Non mi nascondo, né intendo nascondere, la gracilità, la
precarietà, la fragilità della prospettiva che così
si apre. Per paradosso. Né sottovaluto la difficoltà, la
lunghezza, la faticosità del percorso che così si è
aperto, per giungere al riconoscimento della naturalezza della politica.
Ma ad un naufrago, credo, anche una tavola male galleggiante può
risultare strumento di salvezza. Soprattutto se non ha altro che quella!
Sul declino della sovranità il discorso può interrompersi
a questo punto, perché è un altro fenomeno ad attirare la
nostra curiosità: l'emersione nell'esperienza giuridica comunitaria
della sussidiarietà. Ché, infatti, la costruzione dell'ordinamento
giuridico comunitario, se muove dalla rinuncia alla sovranità,
deve poi fare leva su qualche cosa d'altro, appunto la sussidiarietà.
emerge la sussidiarietà. Che il principio di sussidiarietà
sia emerso prepotentemente nell'esperienza giuridica europea contemporanea,
nell'esperienza cioè dell'ordinamento giuridico delle relazioni
intersoggettive in Europa, è un altro dato di fatto incontrovertibile.
Almeno dal momento in cui esso è stato formalmente istituzionalizzato.
Innanzi tutto nel Preambolo del Trattato dell'Unione Europea, dove i
sottoscriventi dichiarano formalmente di essere "decisi a portare
avanti il processo di creazione di un'unione sempre più stretta
fra i popoli dell'Europa, in cui le decisioni siano prese il più
vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio di sussidiarietà".La
sottolineatura è nostra. L'impegno è ribadito nel Titolo
I. Disposizioni comuni, all'art. A, 2° comma, che recita: "Il
presente trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un'unione
sempre più stretta tra i popoli dell'Europa, in cui le decisioni
siano prese il più vicino possibile ai cittadini". Viene in
tal modo stabilito il principio generale del Diritto comune europeo, principio
del tutto nuovo e per certi aspetti "rivoluzionario", della
pluralità delle fonti normative, almeno nel campo degli interventi
pubblici in economia, sulla base non di competenze astrattamente e convenzionalmente
definite, cioè sulla base di competenze puramente formali, ma in
funzione dell'adeguatezza effettiva e reale dell'intervento ai fini del
conseguimento dell'obiettivo fissato. In altri termini, la competenza
delle istituzioni pubbliche è determinata in ragione della loro
reale capacità di raggiungere gli obiettivi di rilevanza comune.
Sicché l'istituzione "minore", nel senso di quella "più
vicina al cittadino", risulta accreditata del titolo originario ed
insindacabile dell'azione giuridica finché questa risulta adeguata
al raggiungimento dell'obiettivo; in caso contrario, cioè nel caso
della sua inadeguatezza, per sussidiarietà, in modo ausiliario
ed integrativo, è chiamata ad intervenire la "maggiore",
quella "più lontana dal cittadino", la cui competenza,
quindi, è determinata dalla reale capacità di conseguire
l'obiettivo meglio di quanto non fosse nelle possibilità della
prima. (Tra parentesi, la stessa definizione delle istituzioni, come "maggiori"
o "minori", in base al principio di sussidiarietà, dipende
non da parametri astratti o convenzionali, né emotivi o ideologici,
ma da quella che è testualmente definita come "dimensione"
e dagli "effetti" dell'intervento; qualcosa di estremamente
concreto, nel senso di sostanziale). Nel Titolo II. Disposizioni modificative
del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea in vista
dello stabilimento della Comunità Europea. Parte prima, Principi
all'art. 3/B, 2° comma, la cosa è precisata: "Nei settori
che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene,
secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura
in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere realizzati
dagli Stati Membri e possono, dunque, a motivo delle dimensioni o degli
effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario".
Va da sé notare, a questo punto, come ci si trovi agli antipodi
del formalismo giuridico proprio delle "geometrie legali". E
come il principio di sussidiarietà, introducendo ratione materiae
il criterio della pluralità delle fonti normative incrini e al
limite tenda ad annullare il monopolio normativo che ha costituito lo
zoccolo duro e il nodo nevralgico del sistema giuridico costruitosi in
base e intorno al principio di sovranità. Ma qui cominciano i problemi,
per i quali si spiegano anche le difficoltà che il principio generale
della sussidiarietà ha incontrato operativamente, nonostante tutti
i proclami solenni del Trattato dell'Unione Europea.
Proprio per una prima risposta a questi problemi, col Trattato di Amsterdam
è aggiunto ai protocolli del Trattato istitutivo della Comunità
europea uno specifico Protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà
e di proporzionalità, nel quale sono ribaditi gli impegni a "garantire
che le decisioni siano prese il più possibile vicino ai cittadini
dell'Unione", viene precisato che "ciascun'istituzione assicura,
nell'esercizio delle sue competenze, il rispetto del principio della sussidiarietà",
ribadendo in tal modo la natura generale del principio e la sua estensione
a tutti i livelli dell'esperienza giuridica comunitaria, precisa che "l'applicazione
del principio di sussidiarietà avviene nel rispetto delle disposizioni
generali e degli obiettivi del trattato, con particolare riguardo al completo
mantenimento dell'acquis comunitario e dell'equilibrio istituzionale",
significando in tal modo la volontà di "non ledere i principi
elaborati dalla Corte di giustizia relativamente al rapporto tra diritto
nazionale e diritto comunitario", e infine è proposto un primo
chiarimento concettuale: "La sussidiarietà è un concetto
dinamico e dovrebbe essere applicata alla luce degli obiettivi stabiliti
nel trattato. Essa consente che l'azione della Comunità
sia ampliata laddove le circostanze lo richiedano e, inversamente, ristretta
e sospesa laddove essa non sia più giustificata". Come sempre,
il legislatore è più astratto e ingessato del giudice ma
nonostante questo il "legislatore comunitario" riesce a rendere
il senso profondo della modalità operativa del principio. Anche
se di altri chiarimenti teorici si avverte ancora il bisogno.
Per concludere sull'emersione della sussidiarietà nell'esperienza
giuridica europea contemporanea, nell'esperienza cioè dell'ordinamento
giuridico delle relazioni intersoggettive in Europa almeno tre considerazioni
ci sembrano necessarie.
Prima considerazione. Taluno intende la sussidiarietà come una
formula burocratica di gestione del potere, preferisco questa definizione
a quella, che riconosco tuttavia come prevalente tra i cultori del Diritto
pubblico, di "sussidiarietà verticale". Tra questi potremmo
mettere quei negoziatori del Trattato di Maastricht che pensavano di difendere,
in tal modo, la sovranità del loro Stato nei confronti dell'ingerenza
dell'Unione Europea negli affari domestici. È noto che le disposizioni
normative dell'Unione, già peraltro quelle della Comunità
Economica, sono immediatamente e indifferentemente vincolanti negli Stati
membri, tanto che i giudici nazionali sono tenuti a farle valere anche
in difformità della legge nazionale. Contra legem. Sicché,
stabilendo che l'azione comunitaria si giustifica quando gli obiettivi
prefissati non possono essere sufficientemente realizzati con l'azione
degli Stati nazionali, nel quadro del loro sistema giuridico, mentre possono
essere conseguiti mediante quella comunitaria, i "commis d'Etat"
hanno creduto di difendere la sovranità degli stati nazionali,
peraltro ormai fortemente intaccata dalla "globalizzazione"
mercantile e dalla convenzioni internazionali, fronteggiando il crescente,
e sempre più capillare, potere dell'Unione. Insomma hanno preso
la sussidiarietà come strumento per mantenere la sovranità,
o quello che resta della sovranità, dello stato nazionale.
Ma tra costoro potremmo mettere anche quanti, politici, giuristi o amministratori
locali, sono impegnati ad ampliare il potere degli Enti locali minori
(Regioni, Province, Comuni) nei confronti di quello dello Stato nazionale,
sulla base della constatazione ineccepibile del cattivo funzionamento
dell'amministrazione centrale del potere. Per stare alla nostra esperienza,
così come s'è andata costituendo con la "piemontesizzazione"
burocratica dell'Italia dopo il 1861. E facendo leva sul convincimento
elementare, scusate la grossolanità, che "l'occhio del padrone
ingrassa la bestia". Per costoro, un più diretto controllo
dell'amministratore da parte degli amministrati viene visto come una garanzia
di migliore amministrazione, più economica e insieme più
adeguata alle esigenze degli utenti dei servizi pubblici. Ecco come leggono,
e non si può negare una certa verosimiglianza nella lettura, la
disposizione del Trattato di Maastricht, per la quale è compito
delle istituzioni "garantire che le decisioni siano prese il più
vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio di sussidiarietà".
Come negare che il comune sia più vicino al cittadino della provincia,
e la provincia della regione, e la regione dello stato? Sicché,
per costoro, secondo il principio di sussidiarietà, si tratterebbe
di dislocare il centro di gestione del potere dallo Stato alle Regioni,
dalla Regione alle Province, dalla Provincia ai Comuni e ... perché
no dal Comune ai Consigli di quartiere? La sussidiarietà, insomma,
viene invocata come strumento per la moltiplicazione dei centri di potere.
Ora, proprio il riferimento all'obiettivo di garantire che le decisioni
siano prese "il più vicino possibile ai cittadini" mette
in luce la povertà e insieme l'insufficienza di una concezione
meramente amministrativa della sussidiarietà. Perché non
si può non riconoscere come questa vicinanza non possa ridursi
ad una dimensione meramente burocratica, considerando altresì il
fatto che non è il "luogo", più o meno vicino,
in cui la decisione viene presa a garantire di per sé che questa
sia vicina, nel senso di opportuna, conveniente, adeguata alle esigenza
della comunità chiamata a darvi attuazione.
In altri termini, si pone così il problema di riconoscere come
la sussidiarietà costituisca uno strumento politico per superare
quella lontananza del "paese legale" dal "paese reale",
per superare la scissione tra "vita delle istituzioni" e "vita
dei cittadini" che ogni giorno di più ci appare come il segno
della crisi della vita sociale. E qui il discorso deve cambiare di registro,
perché non si tratta più di amministrazione, d'organizzazione
e gestione del potere, ma di politica, di definizione degli obiettivi
o meglio del riconoscimento dei beni aggreganti la comunità. Non
si tratta di alchimia o di meccanica o di ingegneria gestionale ma di
orientamento, di riconoscimento d'intelligenza del bene comune. Del Bene
cioè che accomuna una molteplicità di soggetti diversi facendone,
appunto, una comunità.
Seconda considerazione. Per intendere come il principio della sussidiarietà
costituisca lo strumento politico per riavvicinare la vita delle istituzioni
alla vita dei cittadini, il paese legale al paese reale, quello che per
lo più i cultori del Diritto pubblicano individuano con la formula
delle "sussidiarietà orizzontale", è necessario
riflettere sul concetto di sussidiarietà così come si è
andato definendo nell'ambito suo originario, cioè nel pensiero
sociale della Chiesa Cattolica degli ultimi cent'anni, per il quale, sono
parole del Pontefice Pio XI°, quello della sussidiarietà è
principio importantissimo, gravissimum. L'assunto è elementare:
"Come è illecito togliere ai singoli ciò che essi possono
compiere con le forze e l'industria proprie, per affidarlo al collettivo,
così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta
società quello che dalle minori e inferiori si può fare.
Perché la ragione naturale di qualsiasi intervento nella società
è quella di dare aiuto (subsidium donde sussidiarietà) alle
membra del corpo sociale non già distruggerle ed assorbirle"
(Quadragesimo anno, 1931). Ma già Leone XIII°, nella Rerum
novarum del 1892, aveva fissato la questione icasticamente: "Non
è giusto che il cittadino, che la famiglia siano assorbiti dallo
stato: è giusto invece che si lasci all'uno e all'altra tanta indipendenza
di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altri diritti".
Nel più importante saggio recente, dedicato a L'Etat subsidiaire.
Ingérence et non-ingérence de l'Etat: le principe de subsidiarité
aux fondaments de l'histoire européenne (1992), Chantal Million
Delsol mette in evidenza peraltro come l'idea di sussidiarietà
ispira la filosofia politica europea dalle sue origini aristoteliche.
Attirerei l'attenzione su due metafore, mediante le quali il magistero
papale rappresenta l'alternativa tra concezioni politiche. Quella dell'assorbire,
significativa di un'idea di politica come dominio, come controllo, al
limite, come riduzione del personale al tipico. Quella dell'aiutare, significativa
di un'idea di politica come sostegno, come incremento, al limite, come
integrazione, nel senso di piena realizzazione, del personale nel sociale.
Ora, la metafora dell'assorbire, con tutto quanto v'è implicito,
rappresenta efficacemente la concezione della politica e dell'ordinamento
giuridico canonizzati dalla Rivoluzione Francese e dal Codice Civile di
Napoleone, mediante la sovrapposizione della volontà sovrana del
collettivo sulla supposta inclinazione anarchica degli individui. E quindi
mediante l'assorbimento della persona reale dei singoli nella persona
virtuale dello Stato, come sola condizione di vita ordinata in società.
D'altra parte, la metafora dell'aiutare, con tutto quanto v'è
implicito, rappresenta efficacemente la concezione della politica e dell'ordinamento
giuridico della tradizione classica e cristiana d'Europa, di cui nell'ultimo
secolo il magistero papale si è fatto promotore in prima persona
attraverso la formula politica della sussidiarietà. Teorizzando
il carattere suppletivo e ausiliario dell'intervento dello Stato, e in
genere di ogni istituzione pubblica, nel regolamento delle relazioni interpersonali,
le quali affondano le radici, e quindi trovano il loro autentico fondamento,
ben prima che nelle leggi dello Stato, nelle consuetudini sociali, nel
costume domestico e tramite questi nella natura dell'uomo, nella sua originaria
autonomia.
A questo proposito debbo dire che condivido la considerazione critica
avanzata da Miguel Ayuso Torres a proposito del fatto che "la Chiesa,
dopo aver esplicitato e formulato il principio di sussidiarietà,
per difendere un certo ordine sociale rispetto ad un interventismo statale
oltranzista, per molto tempo non lo ha più sviluppato nella sua
integrità e nelle sue molteplici implicazioni". Tanto che
a far riemergere la sussidiarietà da uno stato di sonno sono stati
proprio i laici redattori dei trattati di Maastricht e di Amsterdam.
Terza considerazione. Nonché mera formula burocratica, la sussidiarietà
non è nemmeno solo un modello politico. Radicando l'ordinamento
giuridico nell'originaria autonomia dell'uomo, nella sua natura, la sussidiarietà,
o meglio con la sussidiarietà torna prepotentemente in gioco il
problema radicale dello statuto personale dell'uomo, caratterizzato dalla
sua attitudine ad essere "padrone di se stesso, mettendo la parte
migliore della sua anima sulla peggiore". Come hanno detto variamente
ma nel medesimo senso Platone e Aristotele, Cicerone e Sant'Agostino,
San Tommaso e Dante.
Ecco perché ciò di cui bisogna rendersi conto, quando
si cita la sussidiarietà, e di cui non tutti e non sempre ci si
rende conto, è che si tratta di un'alternativa radicale rispetto
al modo corrente d'intendere sia l'individuale che il sociale.
A questo proposito attirerei l'attenzione su di una semplice circostanza
cronologica. Il modo oggi predominante d'intendere l'individuale come
il sociale non ha più di duecento anni di storia. Essendosi affermato
nella temperie della Rivoluzione Francese, nei Circoli Giacobini, nel
Codice Civile di Napoleone. Che cosa sono duecento anni di fronte alla
bimillenaria tradizione politico-giuridica europea? Di questo bisogna
essere consapevoli per non patire complessi fuori luogo.
La radicalità dell'alternativa risulta scoperta se ci si rende
conto che la richiesta di riportare "il più vicino possibile"
ai singoli la decisione istituzionale, politico-giuridica, non può
non andare di pari passo con l'impegno di ciascuno di attuare la disposizione
personale all'autodisciplina, quella appunto per la quale, platonicamente
ma concretamente, "quando la parte per natura migliore dell'anima
ha il governo della peggiore, ecco che si usa l'espressione essere padrone
di sé che suona lode: e quando, invece, per colpa di una cattiva
educazione o di non buone compagnie, la parte migliore ma più debole
è vinta dalla peggiore, più forte, ecco allora che si usa
l'espressione essere schiavo di sé, che suona biasimo e rimprovero".
Non si può, infatti, sostenere la funzione suppletiva ed ausiliaria,
sussidiaria, dell'ente pubblico, della sua politica economica, del suo
diritto, sancito mediante la legge espressione della volontà sovrana,
se non si riconosce preventivamente che l'ordinamento economico e giuridico
delle relazioni interpersonali comincia prima e indipendentemente dalla
legislazione statale. E quindi, se non ci si affida per l'ordinamento
economico e giuridico, prima che allo stato alle innumerevoli società
naturali o, come sarebbe più corretto di dire, alle naturali forme
della associazione interpersonale. A scanso d'equivoci vorrei citare,
senza commenti, un passo della Gaudium et spes del Concilio Vaticano II°:
"Si guardino i governanti dall'ostacolare i gruppi familiari, sociali
o culturali, i corpi o istituti intermedi, né li privino della
loro legittima ed efficace azione, che al contrario devono volentieri
e ordinatamente favorire. Si guardino i cittadini dall'attribuire troppo
potere all'autorità pubblica, né chiedano inopportunamente
ad essa eccessivo vantaggi, col rischio di diminuire così la responsabilità
delle persone, delle famiglie, dei gruppi sociali". Ciascuno di per
se è in grado di trarre le necessarie conclusioni. Con vantaggio
per la dignità personale dei singoli, sulla cui autonoma responsabilità
si riconosce fondato l'intero processo dell'ordinamento delle relazioni,
a partire dalle comunità minori, definite dalla vicinanza familiare
o scolastica, aziendale o professionale, alla maggiore e più alta
comunità dello stato. Con vantaggio per la dignità istituzionale
dello stato che, liberato da funzioni minori seppur necessarie della vita
di relazione, può convenientemente far fronte al suo compito specifico
di direzione, di sostegno e di controllo; in tal modo recuperando il naturale
statuto di "società di società".
Tutte queste considerazioni non possono non stimolare la riflessione
su di una singolare circostanza, segnalata da Elvio Ancona in un bel saggio
su Problematiche e prospettive della sussidiarietà nell'ordinamento
comunitario (2000), quella per la quale il termine sussidiarietà
viene utilizzato dagli specialisti "per qualificare nel periodo della
sua maggior fioritura proprio quella non meno complessa esperienza di
integrazione tra ordinamenti giuridici diversi che fu il ius commune bassomedioevale
nelle sue relazioni con gli iura propria".
Per un diritto comune sussidiario. L'Europa ha conosciuto già
una stagione nella quale, per esplicita volontà politica, i giudici
vennero chiamati a dirimere le liti insorte tra i singoli membri della
comunità osservando innanzitutto le consuetudini e gli statuti
del luogo, ricorrendo al diritto comune soltanto his deficientibus. In
questa maniera, per usare le espressioni di Baldo degli Ubaldi riprese
da Francesco Calasso ne Il problema storico del diritto comune (1939),
"non si rinnegava l'unità ideale dell'impero, ma si infrangeva
l'unità dogmatica della ratio imperii, piegandola alla naturalis
ratio degli ordinamenti particolari. Il diritto imperiale è sempre
commune ius, ma esso vige soltanto ubi cessat statutum".
Non sfugge, a chi la osservi, la specularità delle due situazioni
che ci proponiamo di accostare. Posto che all'alba dell'Evo moderno stava
maturando il processo di scissione dell'unità imperiale nelle molteplici
entità politiche particolari che avrebbero data vita, in virtù
del principio di sovranità, agli Stati nazionali; mentre oggi,
all'alba del Terzo millennio, rinunciando come abbiamo visto alla sovranità
e affidandosi in qualche modo al principio di sussidiarietà, gli
Stati membri stanno avviando il processo della ricomposizione dell'unità
europea, mediante la istituzionalizzazione della Comunità Economica
Europea prima e poi della Unione Europea, e chissà come in futuro!
Sarebbe un errore goffo confondere, per la loro specularità, i
due processi e intendere semplicisticamente il secondo come un reditus
all'Impero originario. Ma sarebbe altresì miope il rifiuto di utilizzare
nelle difficoltà del presente un'esperienza passata, grandiosa
e felice, solo per non volerne intendere le affinità.
Proprio gli studi più recenti sul diritto nella storia medioevale
attirano l'attenzione sulla presenza della sussidiarietà nel sistema
del ius comune, mettendo però in guardia dal considerarla nei termini
legalistici di una semplice "graduazione" dei poteri o di una
positivistica "gerarchia delle fonti" normative. In tal modo,
scrive Mario Bellomo ne L'Europa del diritto comune (1998), si perderebbe
di vista "l'altra prospettiva, che consente di guardare al diritto
comune non come ad un diritto positivo ma come a una diritto da cui eternamente,
come si credeva, si irradiano la logica giuridica, le figure giuridiche,
la terminologia, i meccanismi del ragionamento giuridico: in breve, il
modo stesso d'essere giuristi, e quindi giudici". Evidente il riferimento
al problema che investe il giudice chiamato a risolvere la lite facendo
riferimento ad una pluralità di fonti normative, nel caso specifico
il giudice bassomedioevale con gli statuta e il ius commune ma per analogia
anche il giudice europeo di oggi con le leggi nazionali e le direttive
comunitarie.
E' tuttavia Paolo Grossi a stimolare, forse senza volerlo ma certamente
con una sottile malizia, il confronto, quando ne L'ordine giuridico medioevale
(1995) fa notare che gli iura propria, "queste fioriture particolaristiche,
non hanno pretese totalitarie (chi conosce la produzione dello storico
fiorentino riconosce fra le righe il riferimento alla vocazione totalitaria
dell'assolutismo giuridico posto in essere dal monopolio legale del Principe),
non si pongono in antagonismo frontale al diritto comune; piuttosto, nel
loro ambito e ordine, lo integrano, lo specificano, arrivano anche a contraddirlo
con variazioni particolari; non arrivano mai, né voglio arrivare
mai, a smentirlo. Al contrario lo presuppongono, collocandosi in posizione
dialettica - ossia in relazione patente o latente - con questo immenso
patrimonio che circola per ogni dove e che costituisce lo ius, lo ius
per eccellenza: statuti comunali, consuetudini locali, prima legislazione
principesca nelle ormai forti monarchie, diritto feudale, diritto mercantile,
si affermano e vivono entro il grande respiro del ius comune: quasi come
delle correnti che si inseriscono con vivacità nell'aria generale
di un ambiente, l'arricchiscono e la variano, ma vivono pur sempre in
essa e grazie ad essa". Quale straordinario contributo ermeneutico,
per una corretta lettura del Protocollo sull'applicazione dei principi
di sussidiarietà e di proporzionalità! Solo a titolo esemplificativo
attirerei l'attenzione sui paragrafi 5, 6 e 7 del Protocollo. Par. 5 "Affinché
l'azione comunitaria sia giustificata, devono essere rispettati entrambi
gli aspetti del principio di sussidiarietà: gli obiettivi dell'azione
proposta non possono essere sufficientemente realizzati con l'azione degli
Stati membri nel quadro dei loro sistemi costituzionali nazionali e perciò
possono dunque essere meglio conseguiti mediante l'azione da parte della
Comunità. Per valutare se la condizione di cui sopra è soddisfatta
dovrebbero essere applicati i seguenti principi guida: il problema in
esame presenta aspetti transnazionali che non possono essere disciplinati
in maniera soddisfacente mediante l'azione degli Stati membri; Le azioni
dei soli Stati membri o la mancanza di un'azione comunitaria sarebbero
in conflitto con le prescrizioni del trattato ( ) o comunque pregiudicherebbero
in modo rilevante gli interessi degli Stati membri; l'azione a livello
comunitario produrrebbe evidenti vantaggi per la sua dimensione o i suoi
effetti rispetto all'azione a livello degli Stati Membri". Par. 6
"La forma dell'azione comunitaria deve essere quanto più possibile
semplice, in coerenza con un soddisfacente conseguimento dell'obiettivo
della misura e con la necessità di un'efficace applicazione. A
parità di altre condizioni, le direttive dovrebbero essere preferite
ai regolamenti e le direttive quadro a misure dettagliate. Le direttive
di cui all'articolo 189 del trattato, mentre sono vincolanti per lo Stato
membro al quale sono indirizzati per quanto concerne il risultato da raggiungere,
lasciano alle autorità nazionali facoltà di scelta riguardo
alla forma e ai metodi". Par. 7 "Riguardo alla natura e alla
portata dell'azione comunitaria, le misure comunitarie dovrebbero lasciare
il maggior spazio possibile alle decisioni nazionali, purché sia
garantito lo scopo della misura e siano soddisfatte le prescrizioni del
trattato. Nel rispetto del diritto comunitario, si dovrebbe aver cura
di salvaguardare disposizioni nazionali consolidate nonché l'organizzazione
ed il funzionamento dei sistemi giuridici degli Stati membri. Se opportuno,
e fatta salva l'esigenza di un'effettiva attuazione, le misure comunitarie
dovrebbero offrire agli Stati membri vie alternative per conseguire gli
obiettivi delle misure".
Quella che si profila, riflettendo sulle analogie simmetriche, se è
consentita questa formula paradossale, tra bassomedioevo e nuovomillennio,
è un'accezione di sussidiarietà non formalistica per la
quale, come scrive Ancona, "non vi sono giuridicità di grado
inferiore e di grado superiore che si integrano secondo una ripartizione
puramente formale di competenze, ma vi è il diritto, il ius, comune
perché, restando lo stesso, si riflette in ordinamenti diversi
e si determina ad un livello della vita sociale piuttosto che ad un altro
in relazione alla specificità dei casi". Ma perché
questo si dia bisogna riconoscere come all'origine di ogni ordinamento
stia qualcosa che oggi è difficile riconoscere ma che bene conoscevano
i nostri padri dell'evo medio. Qualcosa che noi oggi dobbiamo riscoprire
per sopravvivere: il senso originario dell'autonomia.
E' ancora Grossi, con le sue acute riflessioni sull'ordine giuridico
medioevale, su questo "ordine complessivo che si sfaccetta, si complica
in autonomie, si articola in una pluralità di ordinamenti conviventi",
ad attirare la nostra attenzione sul nodo problematico.
"Se il medioevo giuridico è un mondo di ordinamenti, cioè
di autonomie - scrive Grossi - di societates perfectae, direbbe san Tommaso,
corifeo a fine Dugento dell'antropologia medioevale, non dobbiamo dimenticare
che il carattere essenziale di ogni autonomia è la relatività;
si tratta cioè di indipendenze relative, relative ad alcuni ordinamenti
ma non ad altri. L'entità autonoma non appare mai come qualcosa
che per se stat, avulsa da tutto il resto; anzi è pensata, al contrario,
come ben inserita al centro di un fitto tessuto di relazioni che la limita,
la condiziona, ma anche le dà concretezza, perché mai pensata
come solitaria, bensì immersa nella trama dei rapporti con altre
autonomie. Il mondo politico-giuridico è un mondo di ordinamenti
giuridici perché mondo di autonomie". Sin qui lo storico del
medioevo. Simmetricamente rispetto all'esperienza tardo medievale o alto
moderna, andante dall'unitario, l'Impero, al particolare, gli Stati nazionali,
in forza del principio di sovranità, nell'esperienza giuridica
europea di oggi, che invece va dal particolare, gli Stati membri, verso
l'unitario, l'Unione Europea, si percepisce come sia necessario recuperare
la nozione di autonomia quale la storia delle societates perfectae della
definizione tomistica più sopra ricordata ci ha trasmesso, perché
indispensabile al fondamento stesso della sussidiarietà, che del
"nuovo ordinamento giuridico europeo" costituisce l'autentico
motore. Tanto solidale con essa, la nozione di autonomia, quanto opposta
al presupposto anarchico, o più esattamente anomico, della sovranità,
cardine dello Stato moderno, che poi altro non è se non l'assolutismo
recepito e metabolizzato dal giacobinismo della Rivoluzione Francese.
Infatti, l'autonomia, nella misura in cui designa la capacità
di autoregolamentarsi a tutti livelli della vita sociale, a partire dal
livello originario della persona umana, pone un limite all'azione normativa
del livello superiore, che intanto sarà consentita in quanto funzionale
e non sostitutiva al più compiuto esplicarsi di essa. Senza peraltro
che questa possa farne a meno perché, non avendo pretese di assolutezza
ed esaustività, ogni singola autonomia è consapevole di
non poter sussistere al di fuori di un contesto che la sostenga e la integri,
in relazione al quale, a sua volta, determinare la propria azione e orientarla
al suo specifico scopo. Non si può, a questo proposito, non ricordare
il passo della Repubblica platonica in cui il Maestro definisce la disposizione
naturale dell'uomo, di ciascun uomo, all'autonomia. Per essa, avendo consapevolezza
che "nella stessa anima di ciascuno vi sono due aspetti, uno migliore
ed uno peggiore, (...) quando la parte per natura migliore ha il governo
della peggiore ecco che si usa l'espressione essere padrone di sé
che suona lode; quando invece, per colpa di una cattiva educazione o di
non buona compagnia, la parte migliore, ma più debole, è
vinta dalla peggiore, più forte, ecco allora che si usa l'espressione
essere schiavo di se stesso, che suona biasimo e rimprovero".Né
si può dimenticare che la virtù della temperanza, poiché
in questa si concreta per Platone l'attitudine all'autonomia, a differenza
di quelle del coraggio e della prudenza, proprie solo di alcuni tra i
componenti della comunità, "si estende senz'altro a tutta
la polis facendo che tutti ad una voce cantino la stessa canzone, i più
deboli, i più forti e quelli di mezzo, o che tu li voglia tali
per intelligenza o per forza, o per numero, o ricchezza, o per qualsivoglia
altro carattere simile".
Sull'argomento il Maestro tornerà nelle Leggi, il dialogo in cui
si tratta specificamente dell'ordinamento giuridico della comunità,
per affermare testualmente che dalla "vittoria su se stessi, fra
tutte la suprema e la più bella", dipende ogni ordinamento
delle relazioni umane, "nella casa, come nel borgo o nello stato".
Proprio così, nella sequenza "casa, borgo stato". Quasi
la prefigurazione dell'ordinamento giuridico concepito nello spirito della
sussidiarietà: a far leva sull'autonomia dei singoli ed esplicantesi,
successivamente e per integrazione, attraverso il diritto domestico, il
diritto comune e il diritto legale. Secondo la naturale concatenazione
delle cose.
Sulla intrinseca connessione tra sussidiarietà e autonomia è
ancora un riferimento all'ordine giuridico medioevale che risulta illuminante,
anche per noi all'alba del Terzo millennio. Dalla Summa contra Gentiles
di Tommaso d'Aquino. "Optimum in gubernationem qualibet est ut rebus
gubernatis secundum moduum suum provideatur: in hoc enim regiminis iustitia
consistit. Sicut igitur esset contra rationem umani regiminis si impedirentur
a gubernatore civitatis homines agere secundum sua officia - nisi forte
quandoque ad horam, propter aliquam necessitatem - ita esset contra rationem
divini regiminis si non sineret res creatas agere secundum modum propriae
naturae".
Ogni commento sarebbe di troppo, forse si potrebbe ricordare il libro
del Deuteronomio (30, 10/14): "Questo comando che oggi ti ordino
non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è
nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo,
per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non
è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà
per noi il mare per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo
eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella
tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica".
A conclusione di questo lungo discorso sull'ordinamento giuridico "di
nuovo genere" facente leva sul principio di sussidiarietà
fatto proprio dall'Unione Europea vorrei svolgere alcune considerazioni
sui problemi incontrati nell'ambito dell'ordinamento giuridico italiano,
in ordine al recepimento del principio di sussidiarietà nella Carta
costituzionale ma anche negli Statuti regionali e comunali nonché
alla operatività dello stesso nell'attività giurisdizionale,
posto che, come ha scritto anche Guido Alpa, un giurista che ci tiene
ad essere considerato positivista, nel saggio su I principi generali nel
diritto italiano e nel diritto comunitario (2000), "i principi si
candidano a diventare la guida e la struttura portante del nuovo diritto
comune".
È noto che il principio di sussidiarietà non ha trovato
un'espressa enunciazione nella Costituzione repubblicana del 1948, ma
soprattutto che esso è rimasto fondamentalmente estraneo al dibattito
sviluppatosi nell'Assemblea Costituente. Qualcosa di attinente al principio
di sussidiarietà si trova nell'ordine del giorno che l'on. Dossetti
sottopose alla Prima Sottocommissione, nel quale, affermata "la precedenza
sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori
e dei suoi bisogni, non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo
Stato e la destinazione di questo a servizio di quella", veniva altresì,
formalmente riconosciuta "la necessaria socialità di tutte
le persone, le quali sono destinate a completarsi e a perfezionarsi a
vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale:
anzitutto in varie comunità intermedie, disposte secondo una naturale
gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali,
religiose, ecc.), e quindi, per tutto ciò in cui quelle comunità
non bastino, nello Stato". Come si sa, la Sottocommissione non prese
in considerazione l'ordine del giorno Dossetti né questi si attivò
affinché lo facesse, e preferì passare senz'altro all'esame
degli articoli proposti dai relatori.
Un raffinato cultore del Diritto pubblico, ed amministrativo in particolare,
quale è stato il professor Feliciano Benvenuti, ha sostenuto che
"seppur non nominandolo, l'art. 5 della Costituzione lo sottintenderebbe"
là dove recita che "la Repubblica, una e indivisibile, riconosce
e promuove le autonomie locali", alle esigenze delle quali, così
come a quelle del decentramento amministrativo "adegua i principi
e i metodi della sua legislazione". Non credo si possa negare che
la formula di Benvenuti sembra piuttosto porsi come una suggestione di
politica legislativa avvenire che come una interpretazione rigorosa del
dato legislativo presente, come ha messo efficacemente in evidenza Lucio
Francese nel suo bel volume su Feliciano Benvenuti. Il diritto come scienza
umana (1999).
È altresì noto che l'enunciato del principio di sussidiarietà
ha cominciato a trovare formalmente spazio nel sistema delle leggi italiane
solo sotto la pressione delle Carte europee. La Legge 439/89, che ha reso
esecutiva la Carta europea delle autonomie locali, firmata a Strasburgo
nell'ottobre del 1985, all'art. 4, comma 3, enuncia, infatti: "L'esercizio
delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere
di preferenza sulle autorità più vicine ai cittadini".
Con la conseguenza che "l'assegnazione di una responsabilità
ad altra autorità (rispetto a quella più vicina ai cittadini)
deve tener conto dell'ampiezza e della natura del compito e delle esigenze
di efficacia e di autonomia". In tal senso si è mossa anche
la Legge 142/90, che ha sostituito la vecchia disciplina dei poteri locali,
risalente al lontano 1934.
Per inciso, e riservandomi, di tornarvi sopra più avanti, farei
notare come in queste leggi del principio di sussidiarietà venga
data una versione prevalentemente amministrativa, accentuandone la valenza
operativa, col riferimento all'ampiezza della materia da regolamentare
e all'efficacia dello strumento legislativo, anche se queste nozioni vengono
integrate col riferimento alla "natura" e alla "autonomia".
È noto, infine, come nessuno dei progetti di legge costituzionale
rivolti a modificare l'assetto della Repubblica Italiana, in cui abbia
fatto capolino l'enunciato del principio di sussidiarietà, sia
ancora andato a buon fine, le Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione, approvate in seconda deliberazione dal Senato della
Repubblica l'8 marzo 2001, attendono infatti la conferma referendaria..
Mi sia consentito, per ragioni non solo personali, di ricordarne due.
Innanzitutto il progetto di revisione della Costituzione elaborato dal
Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali
nominato dal Presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, nel luglio
del 1994, che venne consegnato al Presidente stesso, completo e articolato,
il 21 Dicembre del medesimo anno, giorno, come si ricorderà, in
cui la Lega formalizzò la sua uscita dalla maggioranza con la conseguente
caduta del Governo. Ma questa è un'altra storia che, prima o poi,
dovrà essere scritta. Ebbene, in quel progetto, per la prima volta,
veniva enunciato formalmente il principio di sussidiarietà; all'inizio
della XII Legislatura repubblicana, dopo 44 anni di governo democratico,
per lo più in mano di politici ispirantisi al pensiero cristiano.
Il principio di sussidiarietà, senza confusioni con indebiti riferimenti
all'incerta nozione di "federalismo", trovava posto nell'art.
115 Cost. così riformulato: "I Comuni, le Province e le Regioni
sono enti autonomi con propri poteri e funzioni, articolati secondo il
principio di sussidiarietà". Nonché nell'art. 118 Cost.
così riformulato: "Con legge dello Stato sono ripartite tra
Regioni, Provincia, Comuni e altri enti locali le funzioni amministrative
nelle materie di competenza legislativa regionale, secondo il principio
di sussidiarietà". Rileggendo a distanza di tanti anni queste
enunciazioni, alla formulazione delle quali ho personalmente partecipato,
non posso non fare almeno due rilievi. A proposito della timidezza con
cui il principio veniva enunciato, rilevabile dal fatto che esso veniva
proposto solo nel Titolo V° della Parte IIa della Costituzione. E
a proposito della pericolosa equivocità rilevabile dall'indifferenziato
uso del riferimento alla sussidiarietà per la definizione di "poteri
e funzioni" degli enti autonomi e per la specificazione delle "funzioni
amministrative" ripartite tra gli enti autonomi. Potrei portare molte
ragioni per giustificare sia la timidezza che la pericolosa equivocità:
il nostro incarico aveva dei limiti precisi, definiti dalla IIa Parte
della Costituzione, e di fronte al pericolo di uno "statalismo regionale",
che allora era nell'aria come sembra lo sia oggi, ci era parso necessario
ribadire la valenza del principio anche all'interno dell'organizzazione
regionale. Tutto ciò non toglie né il limite della timidezza
né quello della pericolosa equivocità, l'equivoco cioè
di un'accezione meramente amministrativa della sussidiarietà stessa.
Non si può tuttavia non attirare l'attenzione sul verbo usato nell'art.
115 per designare il ruolo e la modalità del suo esercizio da parte
degli enti locali, un verbo a cui sono molto affezionato e che mi ostino
ad usare e a far usare nell'accezione classica di matrice tomistica: articolare.
Dal latino articulus, piccolo arto. In quanto articolazioni dello Stato,
Regioni, Province, Comuni e gli altri enti locali minori vengono definiti,
o meglio costituiscono, con i loro poteri e le loro funzioni degli "snodi
della comunità" e in tanto hanno ragion d'essere in quanto
ne consentono dinamicamente lo sviluppo e la piena realizzazione. Della
comunità! Ora il principio di sussidiarietà viene chiamato
in causa proprio ai fini dell'articolazione dello Stato, in questo senso,
non più solo come espediente amministrativo, ma come vero e proprio
modello di governo. Ed è in questa intuizione originaria che risiede
il vero potenziale politico di quel progetto, di cui neppure il committente
seppe capacitarsi.
Il secondo progetto a cui vorrei far riferimento è quello elaborato
dalla Regione Lombardia per la riforma del suo Statuto in Costituzione
autonoma, consegnato di recente al Presidente Roberto Formigoni dal Gruppo
di lavoro all'uopo costituito, del quale ho avuto la ventura di far parte.
Il principio di sussidiarietà vi trova formale riconoscimento nell'art.
3, intitolato appunto "Principio di sussidiarietà", che
recita: "1. La Regione attua, nella legislazione e nell'attività
amministrativa, il principio di sussidiarietà. 2. In attuazione
del principio di sussidiarietà, la Regione interviene con atti
legislativi con provvedimenti amministrativi solo in relazione alle attività
alle quali non possono adeguatamente provvedere i singoli e le formazioni
sociali. 3. Nel pieno rispetto dell'autonomia e dell'iniziativa dei privati,
le pubbliche funzioni sono svolte dalla Regione e dagli enti locali regionali
in maniera proporzionata agli obiettivi pubblici perseguiti e in funzione
del perseguimento dei beni comuni indivisibili, che non possono essere
adeguatamente realizzati dai singoli o dalle formazioni sociali. 4. L'esercizio
delle funzioni amministrative spetta agli enti territoriali autonomi più
prossimi agli interessi dei cittadini. La legge riconosce e garantisce
le autonomie funzionali". Nonché nell'art. 4, intitolato "Uguaglianza
e diritti di libertà", che recita: "1. La Regione Lombardia
riconosce parità di diritti e di trattamento a tutti i cittadini
e concorre a promuovere, secondo il principio di sussidiarietà,
il pieno sviluppo della persona umana per rendere effettive la libertà
e l'uguaglianza. 2. La Regione opera per garantire il pieno sviluppo dei
diritti di libertà riconosciuti dalla Costituzione italiana e dalla
Convenzione europea dei diritti dell'uomo e l'adempimento dei doveri di
solidarietà. 3 La Regione non può istituire dazi d'importazione
o esportazione o transito tra le regioni. Non può adottare provvedimenti
che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone
e delle cose fra le regioni. Non può limitare il diritto dei cittadini
dell'Unione Europea di esercitare in qualunque parte del territorio regionale
la loro professione, impiego o lavoro". Alcuni dei rilievi fatti
a proposito del progetto elaborato del Comitato del Governo Berlusconi
possono essere rivolti anche a questo progetto della Regione Lombardia.
Non quello della timidezza bensì quello di una certa ambiguità,
derivante dalla confusione di amministrativo e di politico. Indubitabile
però che si tratti di una "riforma che ha del rivoluzionario",
rispetto allo stato asfittico e rachitico del riformismo oggi ufficiale.
Quale la conclusione a cui ritengo debba giungere questa sin troppo
lunga riflessione sulle enunciazioni "costituzionali" del principio
di sussidiarietà? Lapidariamente. Dei tanti tentativi falliti,
o per lo meno mal riusciti, di introdurre la parola, perché il
problema era quello di introdurre la parola sussidiarietà nella
Costituzione, la causa autentica e profonda non credo possa essere individuata
nella cattiva volontà dei politici e neppure nell'inadeguatezza
tecnica dei riformatori, ma nella natura stessa della Costituzione, così
come essa è stata concepita, nel segno del principio di sovranità.
Per spiegarmi, impressionisticamente, leggerei solo una frase di Hegel,
tratta dal paragrafo 134 delle Lezioni di Filosofia del diritto. "La
prima e la più importante questione sembra essere quella di chi
in un popolo debba fare la costituzione. Ma la costituzione è piuttosto
da considerare come il fondamento essente in sé e per sé
della vita giuridica ed etica di un popolo ed essenzialmente non come
qualcosa di fatto o di soggettivamente posto". Se poi si va avanti
nel testo si legge: "L'autorità del principe veniva considerata
in generale come qualcosa di divino" - evidente qui il riferimento
ai Principi che concedono le costituzioni - ma è la costituzione
che deve essere vista in tal modo". Divina dunque è la costituzione,
fondamento essente in sé e per sé della vita giuridica ed
etica di un popolo. Fin tanto che rimane anche un solo residuo di questo
paragrafo hegeliano, nei testi costituzionali o nella testa di chi con
la costituzione si misura, sia per scriverla che per applicarla, temo
che non vi sia nessuno spazio per la sussidiarietà. Ecco perché
risulta impervio persino il tentativo di introdurne in essa il nome.
Allora si deve concludere che non vi sia spazio per la sussidiarietà
nella nostra esperienza giuridica? Se si rimane, e nella misura in cui
si rimane, nell'ottica della sovranità non avrei dubbio a rispondere
che non v'è spazio per la sussidiarietà. Il fatto è
che, con l'Unione Europea, e prima la Comunità Europea, si è
instaurato "un ordinamento giuridico di nuovo genere, a favore del
quale gli Stati hanno rinunciato in settori sempre più ampi ai
loro poteri sovrani", senza assumere esso, "l'ordinamento giuridico
di nuovo genere", i connotati di una volontà sovrana, essendo
piuttosto il risultato di una trama di diverse autonomie, nessuna delle
quali pretende di valere in assoluto ed esclusivamente, nessuna per se
stat, avulsa da tutto il resto, ché anzi ciascuna è inserita
nel fitto tessuto di relazioni che la condiziona e la concretizza, una
trama intessuta sulla base della sussidiarietà per la quale "le
decisioni sono prese il più vicino possibile ai cittadini".
Avendo l'avvertenza di essere consapevoli che "il livello più
vicino al cittadino è il cittadino stesso", la sua autonomia,
la sua capacità di darsi una regola di condotta secondo giustizia.
Mi rendo conto delle difficoltà che si incontrano ad intendere
tutto questo, in un mondo che ha travisato il senso dell'autonomia al
punto da identificarla con l'anarchia, che ne costituisce la più
radicale negazione. Tuttavia è necessario servirsi del concetto
di autonomia, recuperandone l'originario significato, quello per il quale
con esso si designa la "padronanza di sé", virtù
comune ad ogni cittadino, indipendentemente dal ruolo esercitato nella
compagine sociale, la virtù che, aristotelicamente, sola rende
libero l'uomo.
Benché innominata, la sussidiarietà è, pur con molti
"nemici", operante all'interno dell'ordinamento giuridico italiano
e di questa specifica, benché contrastata, operatività vorrei
portare due casi, il primo tratto da una sentenza della Corte Costituzionale
(sentenza 20-23 aprile 1998, n.135) e il secondo da un parere del Consiglio
di Stato (Sezione seconda, 24 marzo 1999)
I due casi, a cui verrà data diversa o meglio antitetica soluzione,
muovono in realtà dal medesimo problema: la possibilità
di utilizzare lo strumento "privato" della convenzione coi proprietari
in alternativa allo strumento "pubblico" dell'espropriazione
al fine di realizzare impianti o servizi dichiarati di pubblica utilità
sulla base di piani regolarmente approvati dalle autorità istituzionali.
L'argomento portato a sostegno della tesi è che corrisponderebbe
meglio al criterio generale di buona amministrazione, di cui all'art.
97 Cost., "l'utilizzare moduli privatistici quando i destinatari
dei provvedimenti sono disponibili ad accordarsi, riservando l'imperatività
del provvedimento ai soli casi in cui sia necessario imporre la volontà
dell'Amministrazione, cioè quando il pubblico interesse vada perseguito
contro la volontà dei destinatari degli atti". Ad ulteriore
conforto della tesi viene altresì ricordato l'art. 11 della Legge
n. 241/90, "che ha dato veste normativa generale ad un principio
ampiamente acquisito in sede dottrinale e consolidato nella prassi, secondo
cui le scelte discrezionali dell'Amministrazione non debbono necessariamente
essere unilaterali, ma ben possono risultare affinate e conformate dagli
apporti partecipativi dei privati che presentino osservazioni e proposte
nel luogo giuridico deputato al maturare delle scelte stesse e cioè
nel provvedimento".
La sentenza della Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione
di legittimità costituzionale dell'art. 37 della Legge n. 875/71
(Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica: norme
sull'espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni
alle Leggi n. 1150/42, n. 167/62, n.847/64; ed autorizzazione di spesa
per interventi straordinari nei settori dell'edilizia residenziale agevolata
e convenzionata) sollevata in riferimento agli artt. 97, 42 e41 della
Costituzione dal Tar per il Veneto.
Premesso che "i motivi di interesse generale che possono giustificare
il ricorso allo strumento espropriativi sono sostanzialmente individuabili
nel soddisfacimento per le categorie meno abbienti della primaria necessità
dell'abitazione, attraverso un nuovo regime dei suoli edificatori",
la Corte Costituzionale sostiene che "con lo strumento espropriativi,
in realtà, si mira a conseguire essenzialmente una triplice finalità.
In primo luogo, sottoponendo ad esproprio tutte le aree situate dentro
il piano di zona ed immettendole nel proprio patrimonio indisponibile,
il comune non solo mira a realizzare effettivamente il piano, ma anche
ad assicurare parità di trattamento a tutti i proprietari, eliminando
la situazione di vantaggio di chi resterebbe proprietario dell'area e,
costruendo, potrebbe ricavare la relativa rendita fondiaria, e la corrispondente
situazione di svantaggio di chi invece percepirebbe soltanto l'indennità
di esproprio. In secondo luogo, il comune, attraverso l'espropriazione,
può ottenere aree ad un prezzo equo, mentre con il sistema della
compravendita al proprietario venditore va corrisposto il maggior valore
derivante da tutti i vari elementi inerenti alla porzione del terreno.
Infine, e soprattutto, con la generalizzazione e l'obbligatorietà
dell'espropriazione il comune consegue anche l'importante scopo pratico
di attuare il controllo del territorio, organizzando in modo coordinato
e in tempi certi la realizzazione del piano, diversamente da quanto poteva
accadere con le precedenti disposizioni, che prevedevano una pluralità
di soggetti esproprianti ed una pluralità di regimi giuridici delle
aree interessate".
Non occorre essere dei "soloni" per riconoscere la pretestuosità
delle prime due ragioni addotte, posto che la richiesta del proprietario
dei suoli edificatorii in oggetto, nel caso specifico proprietario della
quasi totalità degli stessi, era quella di attuare le previsioni
del piano, deliberato ma non attuato dal comune, e cioè di "eseguire
le necessarie opere di urbanizzazione e realizzare i fabbricati a condizione
di concordare tramite stipula di un'apposita convenzione che stabilisse
le modalità costruttive e tipologiche degli edifici, i criteri
per la determinazione e revisione dei canoni di locazione e il prezzo
di cessione degli alloggi". Dove fossero i vantaggi indebiti o i
prezzi iniqui non si riesce a capire! Invece è chiaro come sia
la prevaricante ricerca di "controllo sociale" e di "concentrazione
del potere" secondo gli schemi della più rigida e ottusa applicazione
del principio di sovranità quella che spinge la Corte Costituzionale
ad applicare la "lettera" della legge senza intenderne lo "spirito,
che l'intelligenza del principio di sussidiarietà spingerebbe a
riconoscere. Nell'intento di assecondare l'autonoma iniziativa del cittadino
a perseguire gli obiettivi di pubblica utilità, come riconosciuti
e definiti dalla Amministrazione.
Diversamente, il parere del Consiglio di Stato è favorevole all'accoglimento
del ricorso del privato proprietario avverso al diniego del comune di
concedere licenza edilizia per la costruzione di uno stabilimento industriale
nell'ambito di un piano per gli investimenti produttivi, regolarmente
approvato con DPGR, a causa della mancata attuazione delle procedure espropriative.
Premesso che l'istituto del p.i.i.p., previsto dalla Legge n. 865/71
è "soprattutto uno strumento di politica economica finalizzata
ad incentivare le imprese attraverso l'offerta di aree di sedime degli
impianti a prezzi particolarmente vantaggiosi rispetto ai comuni valori
di mercato, ottenuti con lo strumento espropriatorio", il Consiglio
di Stato conclude: "Ciò non significa che il procedimento
e lo strumento espropriativi siano le tappe obbligate per dare attuazione
al piano ove gli impianti produttivi (che sono la vera ragione dell'intervento)
possono trovare realizzazione attraverso forme alternative di natura partecipativa
e sostitutiva". Attirerei l'attenzione sui due aggettivi: "partecipativa"
e "sostitutiva".
Ma più interessante è l'argomentazione a sostegno: "Tale
conclusione trova il suo corollario nella possibilità di far eseguire
direttamente dallo stesso proprietario l'iniziativa compatibile con l'interesse
generale come individuato nel piano, essendo evidentemente irrazionale
e contrario al principio di riconoscimento dell'iniziativa economica privata
e di buon funzionamento dell'amministrazione espropriare prima e rassegnare
poi ciò che si è espropriato in favore dello stesso soggetto
privato". Tra le righe, peraltro, il Consiglio di Stato da prova
di conoscere la sentenza della Corte Costituzionale (19 gennaio 1988,
n.31), pronunciatasi per la legittimità della norma nella parte
in cui non prevede la possibilità di una realizzazione spontanea
del piano da parte dei proprietari delle aree assoggettate al piano, senza
però tenerne alcun conto, evidentemente trovando nei principi generali
dell'ordinamento la base per una diversa decisione. Formalmente sono citati
il principio della razionalità del provvedimento, quello del riconoscimento
dell'iniziativa economica privata e del buon andamento dell'amministrazione
pubblica. In realtà, quello che viene applicato, senza essere nominato,
è il principio di sussidiarietà dell'intervento pubblico
rispetto all'autonoma iniziativa del cittadino, per sancire il carattere
prevaricatorio dell'intervento dell'ente pubblico quando il cittadino
per autonoma decisone è nei fatti più incisivo e direttamente
efficace nella realizzazione di obiettivi di pubblica utilità.
"Ove il proprietario imprenditore intenda realizzare sul proprio
terreno un'iniziativa economica coerente con gli obiettivi di sviluppo
economico individuato dal piano - conclude tassativamente il Consiglio
di Stato - egli ben può chiedere ed ottenere la relativa concessione
edilizia senza passare per la fase dell'esproprio"
Io credo che dal confronto tra questi due documenti si possano trarre
delle conclusioni in ordine all'operatività concreta del principio
di sussidiarietà nel nostro ordinamento giuridico a prescindere
dalla sua "canonizzazione" nella Carta costituzionale.
Paradossalmente, il Consiglio di Stato, che dovrebbe essere l'organo
più diretto della sovranità statale, dà prova di
essere più sensibile al principio di sussidiarietà, colto
nel senso di "avvicinare" le decisioni del "pubblico"
al cittadino "privato", di quanto non sia la Corte Costituzionale,
che dovrebbe essere l'organo della sovranità popolare. Ma forse
una ragione c'è. Al centro dell'attenzione del Consiglio di Stato
sta la "buona amministrazione", che è qualcosa che riguarda
certamente l'apparato statale ma soprattutto in quanto esso è volto
a garantire concretamente la vita equilibrata della comunità civile,
e non la lettera "divina" della Carta, come sembra sia ancora,
hegelianamente, per la Corte Costituzionale.