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“Guardando mamma che tanto aspetta un
meritato divorzio” |
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Il referendum sul divorzio (1974) non aveva fino a oggi stimolato
i narratori. Si è consapevoli che quella giornata, e “quel” risultato,
rappresentino la sola nota rasserenante per chi s’è formato in quel decennio,
ma i testi che normalmente si evocano sono i discorsi di un fronte
abrogazionista dubbioso della vittoria, foto sbiadite di un’Italia lontanissima
da quella attuale. Sul clima sospeso della vigilia ha costruito un avvincente
racconto lungo Marina Jarre, “La
principessa della luna vecchia” (Bollati Boringhieri pagg. 118,
lire 22 mila), in un libro che si candida a essere un libro-testimonianza di
indubbio valore, un “come eravamo” senza gli infingimenti ideologici di tanti
libri-verità sulla generazione del ’68, privo degli estetismi un po’ decadenti
supponiamo di un “Porci con le ali”.
Un ragazzino ingenuo, ultimogenito di una donna separata, ma non
ancora divorziata - lo potrà essere solo dopo la “radiosa” primavera del 1974 -
osserva il mondo che gli sta attorno con disincanto, talora con spietatezza. Ha
due fratelli maggiori, di cui uno, per reazione edipica finito nei gruppuscoli
dei cattolici di sinistra rispetto al divorzio piuttosto freddini (“sinistri
cattolici”, a sentire il piccolo Paolo), s’oppone alla vena di suffragista
della mamma, che tutte le notti esce con pennello e vernice per andare a
scrivere il suo “NO” sulle mura di una Torino di periferia grigia, ma non
ancora del tutto ammaliata dalla televisione come è oggi.
Caterina (Catte, la madre) è una via di mezzo fra la mamma
suffragista di Mary Poppins e la donna emancipata di un racconto della
Ginzburg. Paolo frequenta la scuola, tollera con affettuosa bonomia le
apparizioni saltuarie del padre, che ogni tanto ritorna da Roma. Un catartico
morbillo impedirà a Paolo - per sua fortuna - di assistere all’apoteosi della
vittoria, alla festa popolare dei divorzisti, al tripudio della madre e del suo
nuovo compagno, un comunista tutto d’un pezzo che finalmente s’ubriaca.
La Jarre si conferma qui abilissima nella descrizione d’interni
familiari. Il suo è però un “lessico familiare” che possiede una forza
dissacrante, a tratti anche crudele, che non si trova nei dialoghi talora un
po’ dolciastri della Ginzburg. La Jarre sa annullare ogni tentazione
ideologica, la sua è una “impoliticità” autentica, per questo più vera: non
esistono i buoni (i divorzisti) e i cattivi (gli antidivorzisti), esistono
individui che si agitano sulla scena come in una pellicola di Buster Keaton. La
loro umanità affiora dal fondo delle viscere, dai loro difetti, dalle loro
debolezze. Un’umana pietà sfiora con una carezza persino il padrone di casa,
cui i tre monelli addobbano il davanzale con un gigantesco “MAO” tratteggiato
con la vernice della madre. S’arrabbia lì per lì, il padrone, ma poi con il
tempo s’addolcisce e forse si convince anche lui del lapsus involontario: nulla
di cinese, per carità, a Torino, né tanto meno di rivoluzionario, ma un
banalissimo miagolio in rosso.
La “principessa della luna vecchia” altro non è se non Paola, la
fidanzatina di uno dei due fratelli grandi, che il piccolo Paolo osserva con
ammirazione e un pizzico d’invidia. In casa la giudicano un po’ ritardata, una
ragazza con “molte lune in ritardo”. Per Paolo è una Principessa, sia pure
“della luna vecchia”, e così la difende dalla crudeltà dei suoi familiari.
La Jarre conferma con questo libro la sua vocazione a farsi
testimone vivace dei tic e delle manie dei nostri tempi. Il libro ha una
“verve” umoristica straordinaria. Si ride volentieri, a un ritmo quasi
cinematografico. Un’unica osservazione a margine: la quarta di copertina,
strizzando un occhio alla moda degli ultimi tempi, ci presenta come “un giovane
Holden” degli anni Settanta il protagonista di questa storia. Niente di più
falso, e di fuorviante. Se mai il modello è il Marcovaldo di Calvino, per quel
tono svagato con cui si descrivono le sconfitte della vita. Che sono più utili
a crescere delle vittorie della politica.
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03/01/01
[ 1]Alberto Cavaglion: “Guardando mamma che tanto aspetta un meritato divorzio”, Il Piccolo di Trieste, 11/4/96