“Negli occhi di una ragazza: un romanzo
di Marina Jarre sulla condizione femminile” |
|
La
vicenda di una tredicenne che si ribella allo sfruttamento domestico,
rispecchia condizioni e contraddizioni dell’intera situazione sociale
Un libro come Negli occhi di una ragazza
(ed. Einaudi, pp. 227, L. 2500) di Marina Jarre è, nonostante alcune interne
ripetizioni e monotonie, una lettura interessante. L’analisi va compiuta,
tuttavia, per la stessa intenzionale problematicità di questo quadro
romanzesco, sull’interna coerenza ideologica più che sugli squilibri della
composizione letteraria. Come dire che, in questo caso, la sostanza saggistica
è la nota dominante. Si tratta, anzitutto, di un romanzo sulla “condizione
femminile”. Protagonista una tredicenne, ossia una ragazza vista nei momenti
difficili dello sviluppo, o “età ingrata”, fra l’infanzia dei giochi e
l’infanzia delle riflessioni. La scrittrice ha saputo sottolineare benissimo
queste circostanze, quasi che, per un motivo o per l’altro, esse le si fossero
chiarite attraverso una lunga esperienza.
La ragazza. Maria Cristina, potrebbe finire nel dormiveglia o
nel qualunquismo di tante donne che rinunciano al proprio essere sociale e si
accontentano del proprio essere domestico. A questo “destino” è predisposto,
nel suo modo ordinato e pratico, il personaggio che la scrittrice ha voluto
costruire: attento ai “fatti” e addirittura ostile alle “idee”. A tal punto
che, in famiglia e a scuola, tutti la considerano un po’ scema o ritardata.
Dunque, eccola pronta a un destino subordinato secondo una concezione che, se
non sbaglio, è condivisa dal presentatore del libro, nel risvolto editoriale,
il quale annota con una contraddizione fin troppo palese: «Chiusa com’è (Maria
Cristina) in una silenziosa fatica di insetto, le tocca scoprire con le sue
sole forze che la condizione femminile è fatalmente, fisiologicamente servile:
e quando, approfittando di quel gusto per il “fare” la vogliono rinchiudere in
un destino di lavoro domestico, trova in se la volontà di uscirne».
Dunque, la “volontà”, ossia la storia, può ormai vincere la
“fatalità” (compresa l’eredità della debolezza fisiologica). Come dire che,
anche in un romanzo sulla “condizione femminile”, la conclusione inevitabile è
che la condizione stessa è per lo meno uscita dai fatalismi religiosi o
conservatori, in una società che non si regge più solo sul lavoro o sulla forza
maschile (anche il vapore, anche l’elettricità hanno spezzato il vecchio
equilibrio fra i sessi che molti maschi vorrebbero invano conservare). Ed è
questo, dell’uscita dalla fatalità, il discorso cui il romanzo approda. Ma non
sempre le premesse e la costruzione stessa del personaggio sono così lineari.
In realtà Maria Cristina può anche apparire solo il ritratto di un personaggio
d’eccezione. In casa il padre (artigiano e vecchio comunista) o la madre le
preferiscono il fratello Roberto (considerato “intelligente”: studente
maoista). A scuola le impongono una cultura standardizzata, mentre a lei,
tranne il disegno, poco interessano memorie e “idee”. Persino le compagne si
servono di lei come confidente di amori e come parafulmine per sfuggire ai
rigori familiari. Finché proprio un episodio di questo tipo - l’amica Eliana
che fugga col ragazzo - porterà Maria Cristina in questura. Gli estenuanti
interrogatori polizieschi la turbano e la svegliano: le fanno capire che è
trattata come una “cosa”.
A me pare che a questo punto il romanzo non sia già più sulla
“condizione femminile”. La scelta di una ragazzina o di una donna in genere,
può essere ovviamente utile ai fini dimostrativi di una tesi sullo sfruttamento
pubblico o privato. La Jarre forse carica un po’ le tinte con la scelta di un
folto numero di bersagli polemici: il maoismo del fratello che maschera
l’egoismo; lo stalinismo del padre che maschera l’intima debolezza; la
sopraffazione pessimistica sotto la miope “morale” poliziesca; l’assenza di
cultura reale sotto gli schemi della scuola; infine il banale consumismo che
accoglie ormai l’umanità sin dalla culla. Come critiche a sé e, in funzione
saggistica, esse colgono quasi sempre il segno. È giusto, è utile colpire qualunque posizione falsa e demagogica.
Marx insegna a distinguere tra posizione teorica e posizione ideologica. Ma
anche nelle critiche più giuste, occorre superare l’unilateralità, altrimenti
esse rischiano di diventare esclusive o riduttive.
Si può pensare, infatti, che la scrittrice abbia voluto
contrapporre a tutti questa ragazza vista in una forma esemplare. Per la sua
stessa condizione di donna essa sta ai “fatti” e non accetta, anzi sfugge alla
retorica o alle “immaginazioni” rivoluzionarie. Inevitabilmente questa
riduzione porterebbe Maria Cristina allo stesso immobilismo fatale di molti
personaggi che, a volte in forme tautologiche, distinguono nel libro fra “noi”
e “loro”: io, donna, vedo e sto ai fatti; loro s’inebriano di parole e di
proteste, ma restano e sono cose. Il risultato non cambia.
Ora, è vero che questo può apparire il discorso per tre quarti
del libro. E in fondo è questa premessa, centrata su un’analisi di una
“condizione femminile”, a fornire l’ipotesi di una divisione o separazione di
fatto. Ma la conclusione del libro non è “fattuale”, il che fa apparire nella
stessa scrittrice una diversa valutazione finale. Anzi, Maria Cristina capisce
la sua situazione di “sfruttata” all’interno della famiglia e decide lo
sciopero domestico. Come se avesse avvertito che nel microcosmo familiare
passano le stesse linee di forza dell’intera società, adotta uno dei tanti
mezzi di lotta cui ricorrono gli altri. Capisce addirittura - in un dialoghetto
finale con l’egoista Roberto - «che non
si può fare quello che si vuole, se gli altri non sono d’accordo», e lo aggredisce: «Anche tu, da solo, non te la
puoi fare la tua rivoluzione».
È questa
prospettiva finale che va soprattutto considerata: il personaggio femminile
esce dalla “attualità” (che può essere dannosa quanto l’astratta idealità) per
sfuggire alla supina condizione femminile. Come succederebbe a un ragazzo
proletario che si renda conto del suo essere proletario, la ragazza è passata a
una linea di condotta che s’ispira a una linea di giudizio, quindi, anche lei,
dai fatti all’immaginazione concreta.
SITE MAP . |
02/01/01
[ 1]Michele Rago: “Negli occhi di una ragazza”, L’Unità, 4/71