MICHELE RAGO [ 1] 

“Negli occhi di una ragazza: un romanzo di Marina Jarre sulla condizione femminile”

La vicenda di una tredicenne che si ribella allo sfruttamento domestico, rispecchia condizioni e contraddizioni dell’intera situazione sociale

Un libro come Negli occhi di una ragazza (ed. Einaudi, pp. 227, L. 2500) di Marina Jarre è, nonostante alcune interne ripetizioni e monotonie, una lettura interessante. L’analisi va compiuta, tuttavia, per la stessa intenzionale problematicità di questo quadro romanzesco, sull’interna coerenza ideologica più che sugli squilibri della composizione letteraria. Come dire che, in questo caso, la sostanza saggistica è la nota dominante. Si tratta, anzitutto, di un romanzo sulla “condizione femminile”. Protagonista una tredicenne, ossia una ragazza vista nei momenti difficili dello sviluppo, o “età ingrata”, fra l’infanzia dei giochi e l’infanzia delle riflessioni. La scrittrice ha saputo sottolineare benissimo queste circostanze, quasi che, per un motivo o per l’altro, esse le si fossero chiarite attraverso una lunga esperienza.

La ragazza. Maria Cristina, potrebbe finire nel dormiveglia o nel qualunquismo di tante donne che rinunciano al proprio essere sociale e si accontentano del proprio essere domestico. A questo “destino” è predisposto, nel suo modo ordinato e pratico, il personaggio che la scrittrice ha voluto costruire: attento ai “fatti” e addirittura ostile alle “idee”. A tal punto che, in famiglia e a scuola, tutti la considerano un po’ scema o ritardata. Dunque, eccola pronta a un destino subordinato secondo una concezione che, se non sbaglio, è condivisa dal presentatore del libro, nel risvolto editoriale, il quale annota con una contraddizione fin troppo palese: «Chiusa com’è (Maria Cristina) in una silenziosa fatica di insetto, le tocca scoprire con le sue sole forze che la condizione femminile è fatalmente, fisiologicamente servile: e quando, approfittando di quel gusto per il “fare” la vogliono rinchiudere in un destino di lavoro domestico, trova in se la volontà di uscirne».

Dunque, la “volontà”, ossia la storia, può ormai vincere la “fatalità” (compresa l’eredità della debolezza fisiologica). Come dire che, anche in un romanzo sulla “condizione femminile”, la conclusione inevitabile è che la condizione stessa è per lo meno uscita dai fatalismi religiosi o conservatori, in una società che non si regge più solo sul lavoro o sulla forza maschile (anche il vapore, anche l’elettricità hanno spezzato il vecchio equilibrio fra i sessi che molti maschi vorrebbero invano conservare). Ed è questo, dell’uscita dalla fatalità, il discorso cui il romanzo approda. Ma non sempre le premesse e la costruzione stessa del personaggio sono così lineari. In realtà Maria Cristina può anche apparire solo il ritratto di un personaggio d’eccezione. In casa il padre (artigiano e vecchio comunista) o la madre le preferiscono il fratello Roberto (considerato “intelligente”: studente maoista). A scuola le impongono una cultura standardizzata, mentre a lei, tranne il disegno, poco interessano memorie e “idee”. Persino le compagne si servono di lei come confidente di amori e come parafulmine per sfuggire ai rigori familiari. Finché proprio un episodio di questo tipo - l’amica Eliana che fugga col ragazzo - porterà Maria Cristina in questura. Gli estenuanti interrogatori polizieschi la turbano e la svegliano: le fanno capire che è trattata come una “cosa”.

A me pare che a questo punto il romanzo non sia già più sulla “condizione femminile”. La scelta di una ragazzina o di una donna in genere, può essere ovviamente utile ai fini dimostrativi di una tesi sullo sfruttamento pubblico o privato. La Jarre forse carica un po’ le tinte con la scelta di un folto numero di bersagli polemici: il maoismo del fratello che maschera l’egoismo; lo stalinismo del padre che maschera l’intima debolezza; la sopraffazione pessimistica sotto la miope “morale” poliziesca; l’assenza di cultura reale sotto gli schemi della scuola; infine il banale consumismo che accoglie ormai l’umanità sin dalla culla. Come critiche a sé e, in funzione saggistica, esse colgono quasi sempre il segno. È giusto, è utile colpire qualunque posizione falsa e demagogica. Marx insegna a distinguere tra posizione teorica e posizione ideologica. Ma anche nelle critiche più giuste, occorre superare l’unilateralità, altrimenti esse rischiano di diventare esclusive o riduttive.

Si può pensare, infatti, che la scrittrice abbia voluto contrapporre a tutti questa ragazza vista in una forma esemplare. Per la sua stessa condizione di donna essa sta ai “fatti” e non accetta, anzi sfugge alla retorica o alle “immaginazioni” rivoluzionarie. Inevitabilmente questa riduzione porterebbe Maria Cristina allo stesso immobilismo fatale di molti personaggi che, a volte in forme tautologiche, distinguono nel libro fra “noi” e “loro”: io, donna, vedo e sto ai fatti; loro s’inebriano di parole e di proteste, ma restano e sono cose. Il risultato non cambia.

Ora, è vero che questo può apparire il discorso per tre quarti del libro. E in fondo è questa premessa, centrata su un’analisi di una “condizione femminile”, a fornire l’ipotesi di una divisione o separazione di fatto. Ma la conclusione del libro non è “fattuale”, il che fa apparire nella stessa scrittrice una diversa valutazione finale. Anzi, Maria Cristina capisce la sua situazione di “sfruttata” all’interno della famiglia e decide lo sciopero domestico. Come se avesse avvertito che nel microcosmo familiare passano le stesse linee di forza dell’intera società, adotta uno dei tanti mezzi di lotta cui ricorrono gli altri. Capisce addirittura - in un dialoghetto finale con l’egoista Roberto - «che non si può fare quello che si vuole, se gli altri non sono d’accordo», e lo aggredisce: «Anche tu, da solo, non te la puoi fare la tua rivoluzione».

È questa prospettiva finale che va soprattutto considerata: il personaggio femminile esce dalla “attualità” (che può essere dannosa quanto l’astratta idealità) per sfuggire alla supina condizione femminile. Come succederebbe a un ragazzo proletario che si renda conto del suo essere proletario, la ragazza è passata a una linea di condotta che s’ispira a una linea di giudizio, quindi, anche lei, dai fatti all’immaginazione concreta.

 

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02/01/01


 [ 1]Michele Rago: “Negli occhi di una ragazza”, L’Unità, 4/71