GIULIANA MORANDINI [ 1] 

Il male oscuro della Jarre

Padre e figlio quasi estranei

Giorni d’afa, in una città deserta. Lorenzo, un architetto, è a Torino, come tante altre volte, per occuparsi della prima moglie e del figlio; è ospite nella casa, dove ancora abita la sorella. Un week-end e tornerà dalla nuova famiglia.

Una situazione comune. E nel racconto di Marina Jarre nulla accade di particolare. Né il protagonista è interessato a particolari percorsi di memoria. Eppure la cronaca di questo passaggio doveroso e annoiato, affrontato con passività, si rivela subito sottilmente perturbante. Sotto le convenzioni dei vari rapporti, con le persone di famiglia e anche con gli amici che rivede, Lorenzo si ritrova di fronte a un disagio, sfuggente ma non per questo meno intenso. Quali sentimenti ha per lui la moglie Silvia, chiusa in un segreto riserbo e capace solo di trasmettere emozioni attraverso le sue immagini di fotografa? E la sorella Valeria con le letture estive di classici, e le stanchezze e le illusioni sentimentali non lo invischia forse in un reticolo irrisolto, dove trapelano le incomprensioni e le difficoltà della famiglia d’origine?

Lorenzo ottiene risposte vaghe, distraenti, ambigue, ogni certezza gli si sgretola. Punto cardine dell’esperienza è il figlio; Francesco lo induce a un confronto generazionale, a una riflessione su come possa rivivere in condizioni mutate l’utopia della giovinezza. E Lorenzo rimane perplesso, nel verificare come gli antichi entusiasmi non trovino più sintonia e anzi siano guardati con ironia. Agli slogans irruenti della contestazione si sostituiscono scritte inneggianti a Pietro Micca, postmoderne e scettiche, mentre i sogni comunitari approdano a ritiri campestri in vaghi progetti di rigenerazione. Il confronto non è più nelle parole, nelle idee, ma si muove attorno a gesti che per voler essere di buon senso, finiscono per risultare veri paradossi.

Attenta da sempre al dialogo tra generazioni, Marina Jarre coglie nella cerchia attorno a Francesco, il figlio, sfumature acute e caratterizzanti di uno stile e di una visione del mondo. I giovani sono colti con passione e precisione, e sono figure che sentiamo vicine. Così l’autrice ci cattura, sollecita a identificarci nei rapporti che lei analizza, con ascolto partecipe e senza amarezza. Lorenzo si smarrisce in un gioco di riflessi, c’è qualcosa che lo prende e lo svia, e anziché far delle scelte si abbandona a un flusso che non controlla, che segue come un destino. Quando soccorre il ragazzo tossicomane, è come se toccasse il nodo opaco del percorso, da quel punto i gesti, gli accaduti si succedono come qualcosa alla deriva che azzera i progetti.

Con vivacità Marina Jarre ci fa partecipi di domande vive, concrete, ed evoca un panorama che sgomenta, il consumarsi con le ideologie delle principali coordinate di riferimento. È questo l’attuale male oscuro, la difficoltà a dare un senso a qualcosa che sembra invece arenarsi contro l’opaco, senza lotta e senza dialogo.

La sapienza narrativa sta nel far emergere con naturalezza queste sensazioni sottili e lasciarle crescere e associarsi nel loro moto spontaneo, senza ridurle a tesi. È come una letteratura minimale, che non solo isola e mette a fuoco dei particolari, ma ci fa cogliere nelle voci dei personaggi quanto prende transitoria e incerta forma sul crinale tra detto e non detto. Lettura fenomenologica e non fenomenica, il racconto registra ogni variazione dei vissuti, mantenendo vitale e insostituibile per la conoscenza lo strumento specifico della scrittura. È nell’equilibrio tra descrizione e rifrazioni metaforiche, nella misura rispetto alle situazioni, alle figure, agli oggetti, che si delinea la verità umana dei personaggi, ritratti su un fondo di città derealizzata e senza tempo, dove anche l’inquietudine atmosferica, tra calura gonfia e scrosci di pioggia, evoca dubbi, angosce, fragilità, insicurezza.

 

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02/01/01


 [ 1]Giuliana Morandini: “Il male oscuro della Jarre”, La Stampa, 24/4/93