“Viaggio nella solitudine” |
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La tenue storia di questo Viaggio
a Ninive si snoda nel breve periodo di una vacanza. Un medico
torinese, Carlo, parte da solo, nei giorni di Ferragosto, senza una meta
precisa: libero dai ritmi impostigli dal suo “essere storico” (dalla sua
professione), subisce lo smarrimento della propria disponibilità di tempo: si
sorprende cioè subito in lotta “a cacciare le immagini in agguato, improvvise,
indomabili” del suo pensiero.
Sono le “immagini” degli “altri”, o meglio le “impronte”
lasciate da quelle immagini dentro di lui. La sua situazione si riassume in
questi termini poco confortanti: Carlo ha una moglie pazza, Lalla, che gli
parla solo attraverso una serie di lettere, in cui continua un suo monologo
allucinato senza pretendere risposta, riducendo gli incontri con il marito a
degli episodici e deprimenti abboccamenti in una sala di ristorante sanremese.
Ha un figlio, Tomaso, da lui totalmente staccato, “nella rotondità perfetta
delle sue giornate”, protetto ossessivamente da una zia, che ha trovato in
questo fanciullo la possibilità di sfogare le sue nevrotiche ansie materne. Ha
un’amica, Anna, una giovane archeologa, che gli può essere anche splendida
partner, ma che, non gli potrà mai divenire, per la sua irrequietezza,
compagna.
Gli “altri” sono per lui come fragili sfere di cristallo, che
permettono solo d’essere sfiorate: non penetrate. Tuttavia questi esseri
sbandati, nella loro follia o nella loro ossessione, nella loro irrequietezza o
nella loro solitudine, costituiscono un mondo. Hanno un’identità in cui
riconoscersi. Carlo, invece, è solo uno “specchio” in cui “gli altri si
riflettono”. “Vivo” soltanto perché è “la loro immagine che mi colora e mi
muove”, dice, “non posso fare un passo o dire una parola che essi non si
agitino in me…”.
Il nuovo romanzo della Jarre, più affaticato nella scrittura
rispetto al nitore dei precedenti, vive nello spazio breve di questi problemi:
nell’irrisolto tentativo di un uomo di trovare una possibile identità al di là
della propria vocazione (o della propria condanna) a “nutrirsi gli altri in
grembo”, nella coscienza dolente della fragilità - quasi dell’inconsistenza -
di ogni umano rapporto.
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03/01/01
[ 1]Giorgio De Rienzo: “Viaggio nella solitudine”, La Stampa, 10/10/75