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Educazione alla legalità: alcune considerazioni generali
di Renzo Remotti

2. Gli obiettivi e i fondamenti di una pedagogia legale. 2.1 La circolare n. 302 del 25 – Ottobre – 1993 del Ministero della pubblica istruzione.

L’educazione alla legalità in Italia, almeno a livello burocratico, è stato affrontato fin dal 1993. Il Ministero della Pubblica Istruzione con circolare n. 302 del 25 ottobre 1993, intitolata appunto “Educazione alla legalità”, diramò alcune direttive rivolte alle scuole italiane, al fine di diffondere tra i giovani un’autentica cultura della legalità. Il documento del Ministero si inserisce in un contesto non a caso di particolare gravità per l’Italia. Gli attentati nei confronti dei giudici Falcone e Borsellino portò in primo piano l’emergenza criminalità e l’esigenza di fronteggiarla con tutti i mezzi, primo fra tutti per mezzo di una capillare politica educativa che diffondesse il senso della legalità tra le giovani generazioni. Di conseguenza la circolare si auspica che l’educazione si svolga nel “contesto storico - sociale nel quale la scuola italiana si trova attualmente ad operare”, ed in particolare alla “emergenza speciale della nostra società (che) è certamente costituita dal fenomeno mafioso e dalle altre forme di criminalità organizzata.”

Termini come “emergenza speciale”, “criminalità specifica” indirizzano direttamente tutti gli interventi e i progetti educativi verso il clima d’emergenza, che si viveva in quel periodo. I difetti del documento sono, peraltro, riconducibili proprio a questa origine particolare. Per esempio gli obiettivi, che vengono proposti sono molto ambiziosi, ma rimangono estremamente generici. Secondo le direttive del Ministero gli insegnanti dovrebbero:

“Elaborare e diffondere una autentica cultura dei valori civili. Una cultura che:

1.      intende il diritto come espressione del patto sociale (...)

2.      consente l'acquisizione di una (...) consapevolezza della reciprocità fra soggetti dotati della stessa dignità;

3.      aiuta a comprendere come l'organizzazione della vita personale e sociale si fondi su un sistema di relazioni giuridiche;

4.      sviluppa la consapevolezza che condizioni quali dignità, libertà, solidarietà, sicurezza (...) vanno perseguite, volute, e (...) protette.”

Anche una lettura sommaria fa emergere l’indeterminatezza di questi obiettivi. Il primo punto è poco chiaro Cosa significa l’espressione “patto sociale”? Si ci riferisce all’idea di un contratto sociale? Secondo, tuttavia, quale filone del contrattualismo? Come lo vorrebbe Hobbes, Rosseau o le recenti dottrine, che in un modo o in un altro si richiamano al contrattualismo? Per altro non è riduttivo concepire il diritto, come semplice realizzazione di un contratto? [1].

Analoghe difficoltà interpretative emergono nel secondo punto. Cosa si intende per  “reciprocità fra soggetti dotati della stessa dignità.”? Si fa riferimento alla solidarietà sociale, sancito dall’articolo 2 della nostra Costituzione, o al principio dell’uguaglianza del successivo articolo 3?

Come si può vedere tutti questi obiettivi sono praticamente privi di un qualsiasi contenuto operativo. Non si tratta di questione di poco conto, in quanto chiarire questo aspetto significa fondare una solida metodologia educativa e determinare il successo dei progetti ad esso correlati.

Una recente iniziativa è stata presa dalla Regione Toscana con la legge regionale 10 – 3 – 1999, n. 11 [2], che ha preparato un progetto per l’educazione alla legalità in collaborazione con l’Università e il locale Centro Documentazione Cultura Legalità Democratica, ma è ancora troppo presto per esprimere un giudizio su quest’iniziativa.

Infine il 5 – 6 – 1998 è stato stipulato un protocollo d’intesa tra la Commisione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, il Ministero della pubblica istruzione e il Dipartimento per gli affari Sociali della Presidenza del Consiglio al fine di mettere a disposizione:

-         “sussidi documentali relativi ad analisi effettuate nell’ambito dei compiti istituzionali della Commissione medesima;

-         Esperti quali relatori su argomenti di interesse dei progetti e dei corsi educativi per studenti e docenti;

-         Occasioni di confronto o scambi culturali con altri Paesi, in particolare dell’Unione Europea.” (art. 7 del Protocollo)

Pur senza dimenticare lo sfondo socio-culturale in seno a cui è nato il dibattito sull’educazione alla legalità, è necessario riportare il discorso sulle problematiche squisitamente pedagogiche, che certamente solleva questo specifico e delicato settore dell’educazione. Bisogna, perciò, superare la logica dell’emergenza e rendere l’educazione alla legalità un normale componente del percorso formativo di ogni bambino ed adolescente. Il diritto non è altro che un metodo per risolvere pacificamente attraverso un procedimento interpretativo di un corpus normativo approvato da una certa collettività i conflitti sociali con il riconoscimento non delle ragioni delle singole parti, ma della legge. L’obiettivo, perciò, della pedagogia del diritto è insegnare agli allievi a trovare appunto le ragioni della legge. Il vantaggio più visibile sarà la trasformazione di un insegnamento passivo – apprendere una serie di norme -, a un approccio partecipativo all’apprendimento del diritto. Un esempio può chiarire meglio quanto affermato. Immaginiamo di voler insegnare agli allievi il codice della strada. L’obiettivo che ci si può proporre è far conoscere agli allievi le principali norme che li riguardano, quando si trovano per strada. Riconoscere i principali cartelli stradali, conoscere le norme più importanti, relative al comportamento dei pedoni, motocicli etc. L’altro approccio, che si potrebbe definire come “critico”, mira a far conoscere la ragione della norma. Perché portare il casco? Quali sono i comportamenti che devono essere rispettati e per quale motivo? Il tentativo è di far emergere, meglio se con un rapporto iterativo con l’allievo, la necessità della norma. Andare alla ricerca della ragione, del proprio esistere, fa sì che l’allievo a poco a poco percepisca il diritto come il veicolo della coesione sociale. L’insegnamento del diritto acquista, perciò, tutto il suo valore pedagogico nel momento in cui supera il momento puramente nozionistico (memorizzare alcune norme) per assumere un aspetto ragionevole e dinamico (apprendere il vivere sociale). Infatti, su un piano più psicologico, si ha maturazione se il giovane impara a seguire una norma non in quanto imposta da una qualsiasi autorità (genitore, insegnante, datore di lavoro etc.), ma piuttosto perché sente che quel comportamento deontologico è l’unica via che gli permette di essere uomo in mezzo ad altri uomini. Questo dovrà essere l’obiettivo della pedagogia legale.

Insegnare il diritto rappresenterà più che altro un apprendere a vivere serenamente nella propria comunità. Certamente non è facile introdurre una riflessione sulla legalità sotto il profilo pedagogico. Alcuni, per esempio, potrebbero obiettare che le norme non fanno parte dell’universo dei fanciulli oppure che difficilmente si può fare un discorso completo sulla legalità nella scuola, almeno per come è organizzata oggi la struttura scolastica. Dopo le riforme legislative, che offrono sempre più ampi spazi partecipativi ai processi decisionali-politici riconosciuti al tutti i cittadini, impongono una maggiore conoscenza dei valori della democrazia anche in coloro che hanno appena iniziato l’avventura scolastica. Peraltro non vi può essere solida democrazia, senza il rispetto delle leggi. Già il pedagogista J. Dewey, parlando di società democratica, affermò: “[la democrazia] deve avere un tipo di educazione che interessi personalmente gli individui alle relazioni e al controllo sociale e dia le abitudini mentali che assicurino cambiamenti sociali senza disordine.” [3]

Quale altro mezzo meglio del diritto può promuovere il mutamento senza provocare disordine? Non solo ma lo stesso studioso scrisse che la democrazia è “scelta volontaria, fondata sopra una comprensione che deriva dall’associarsi e dal comunicare liberamente cogli altri. Significa un modo di vivere insieme, in cui la legge della vita è la cooperazione e non la concorrenza selvaggia.” [4]

E’ intorno a questo punto che si potranno trovare gli indubbi nessi tra educazione alla legalità e acquisizione di un autentico senso della democrazia. Allora l’educazione alla legalità è prima di tutto imparare la capacità di associarsi, discutere, trovare un punto d’incontro. Se è vero che il legame proprio di ogni società è fondato sulla legge e sulle norme che ciascuno liberamente si dà per poter vivere con gli altri, è chiaro che conoscere queste norme significa imparare a vivere con gli altri.

Si può notare che queste considerazioni non sono molto lontane dagli obiettivi che si propone la circolare del Ministero di Grazia e Giustizia. La criminalità è un fenomeno a-sociale. Chiunque decida di porre in essere un’azione criminale, in qualche modo manda in frantumi i legami sociali.

Un ragazzo che si aggrega ad una gang e inizia a razziare i propri compagni di classe semina terrore tra i coetanei, disordine e danni di vario genere. Tutto ciò spezza il legame tra lui e gli altri, tra lui e la società. La violazione delle leggi lo ha messo fuori dalla società. Sfortunatamente questa circostanza provoca un circolo vizioso. La solitudine, la separazione dal sociale provoca in lui un forte disagio che lo indurrà a continuare a commettere violenza. La scuola non può esimersi dall’interrompere questo perverso circolo vizioso. In questi termini la pedagogia legale non sarà altro che educazione alla socialità.

Tuttavia non bisogna cadere nell’errore, secondo cui tutti coloro che sono integrati nella società, anche avendo successo, sono della esseri sociali, capaci di apprezzare i valori della democrazia. “Si può collaborare disciplinatamente nella vita di lavoro e nella vita politica, pur rimanendo nell’ambito dell’egocentrismo. Virtù quali la laboriosità, la disciplina, la lealtà ecc. alle quali si può fare appello per dimostrare la validità etica e pedagogica del principio di cui discutiamo, sono perfettamente conciliabili con l’egocentrismo […] Né lavoro né vita politica sopprimono il gusto del primeggiare, del cercare il successo individuale innanzi tutto, come la carriera degli ambiziosi dimostra; né essi liberano l’uomo “qualunque” dalle condizioni di sudditanza in cui il prepotere del più forte e le suggestioni della massa lo pongono, anche al di fuori dei rapporti del lavoro e della vita politica. […] l’uomo tutto lavoro o tutto politica, proprio per la mutilazione che infligge alla personalità propria e altrui, può cadere vittima di risentimenti subconsci, che si esprimono talvolta in faziosità feroci.” [5] Gli aspetti violenti e disgreganti non sono presenti solo nella criminalità, ma anche in comportamenti all’apparenza tanto sociali quali la politica e il lavoro. Perciò considerare l’educazione alla legalità un’esperienza limitata all’emergenza criminalità organizzata è limitativo. L’aggressività disgregatrice è presente anche in quelle attività socialmente accettate. L’intervento deve, piuttosto, riguardare ogni bambino in quanto essere sociale, che cerca nella società una dimensione alternativa all’individualismo più sfrenato. Secondo Kilpatrick: “La scuola ha il dovere sociale positivo:

1)      a scorgere il modo in cui tutti noi siamo legati insieme, come cioè il benessere di ciascuno dipenda presto o tardi dal benessere di tutti;

2)      a credere nel bene comune e a sostenerlo;

3)      a scorgere come le istituzioni comuni servano a tutti noi, e a comprendere il contributo che a ciò può dare un numero di esempi sufficiente a ricavare il senso di servizio, che esse prestano a favore della collettività;

4)      a vedere come l’egoismo metta in pericolo ogni sforzo di vivere bene assieme;

5)      ad accettare la responsabilità di far servire le nostre istituzioni sociali il meglio che sia possibile al bene collettivo […]” [6]

Creare una scuola, in seno a cui si impara il vivere sociale, è un obiettivo importante. Come concetti fondamentali sono “bene comune”, “senso di servizio”, “responsabilità sociale”. Alla base di questa comunione vi è l’ordinamento giuridico, le norme, i diritti e i doveri di ciascun cittadino. La pedagogia legale vuole essere qualcosa di diverso dal semplice educazione stradale o dalla memorizzazione delle norme costituzionali.

Inoltre la pedagogia legale può diventare un approccio critico al sociale, insegnare un metodo di discutere e indurre il mutamento senza mettere in pericolo la stabilità della comunità, in seno a cui si vive. Il senso della legalità non deve essere visto come mera obbedienza alle norme giuridiche. E’ decisamente più importante avere il senso della norma, piuttosto che il mero contenuto di essa. Mentre, infatti, la norma è un qualcosa di universale, il contenuto è spesso il risultato di un processo storico particolare. Perciò soprattutto con gli adolescenti, che, anche in conseguenza della particolare condizione psicologica attraversata dagli stessi, amano contrapporsi a tutto ciò che rappresenta l’idea di autorità - dunque anche alla norma – si può iniziare un discorso critico della norma, magari con l’ausilio della storia e della filosofia. In questo modo si insegnerà loro a contrapporre alla violenza e all’aggressività, per loro natura, mute, il dialogo e la ragionevolezza.

Il principio dell’uguaglianza, per esempio, si presta a un’analisi critica molto interessante. Cosa significa che tutti gli uomini sono considerati uguali? Forse che tutti devono essere trattati alla stessa maniera, magari senza distinguere le obiettive differenze culturali, ideali di ciascuno? Quale comunità si può definire egualitaria? La classe rispetta il principio dell’uguaglianza? Altrimenti, per quali ragioni e, soprattutto, quali rimedi si possono suggerire per rendere la propria comunità scolastica più egualitaria? Queste sono solo alcune delle domande che si potrebbero porre in un corso di pedagogia legale per le scuole secondarie superiori. Come si può notare, analizzando un solo articolo della Costituzione Italiana – il 3 – si potrebbe svolgere un intero corso di pedagogia legale e fornire agli allievi degli spunti di riflessioni che potranno approfondire in un secondo momento e che in ogni caso si troveranno a dover applicare per tutta la vita. E’ importante comprendere in questa fase che fine dell’educazione alla legalità dovrà essere lo spirito della legge, il sentimento della legalità, molto più della singola norma giuridica. Nel mondo del lavoro, per esempio, le parti che possono entrare in conflitto sono molteplici – dirigenti, esecutivi, operai, sindacati -, ma un buon senso di equità da parte di tutti potrà appianare i momenti critici.

Considerazioni simili possono valere per la famiglia. Spesso si accusano i giovani di non rispettare più le figure parentali, ma quante volte i conflitti in seno alla famiglia nascono proprio da una scarsa attenzione che i genitori hanno per i bisogni singolari dei propri figli? Tutto ciò è in buona sostanza provocato da una poca attenzione al principio dell’uguaglianza. L’educazione alla legalità permetterà in ultima istanza alla scuola di aprirsi alla società e una società rispettosa dei grandi principi del diritto sarà davvero una comunità del benessere.      

 



[1] Per un’introduzione a queste tematiche: Matteucci N., Lo Stato moderno, il Mulino,  1997, p. 101 ss.

[2]  pubblicata su BURT n. 8 del 19 – 3 – 1999.

[3]  Dewey J., Democrazia ed educazione, La Nuova Italia, 1949, p. 132.

[4]  Dewey J., L’educazione di oggi, La Nuova Italia, 1950, pp. 454 ss.

[5]  Bertin G. M., Educazione alla socialità, Armando, 1975, p. 81.

[6]  Kilpatrick W. H., Filosofia dell’educazione, La Nuova Italia, 1963, p. 124

 

 

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