La Mediazione PedagogicaLiber Liber

Educazione alla legalità: alcune considerazioni generali
di Renzo Remotti

5. La giustificazione giuridica

E’ stato affermato stato affermato che il bambino si trova permanentemente in conflitto con la realtà, perché il mondo non è fatto per i bambini. Anzi sulla scia delle maggiori teorie pedagogiche contemporanee, è assodato che tutte le decisioni che riguardano i bambini vengono prese altrove. [1] Al bambino viene negato il diritto di poter raccontare la propria storia, di descrivere le proprie emozioni, gioie, angosce. In verità è come se venisse negata la soggettività del bambino. Fino all’età adulta il bambino è un non-adulto, un soggetto incompleto. Dato che ha bisogno di istruzione e, in termini più generali, di una guida, si conclude che il bambino non ha bisogni propri, se non immediati (sonno, istruzione etc.).

La pedagogia legale dovrebbe ribaltare questa concezione adulto-centrica. Il diritto, specie il diritto internazionale, ha iniziato da diverso tempo a riconoscere il bambino come soggetto giuridico con i propri diritti e doveri, non in funzione degli adulti, ma semplicemente diritti e doveri relativi all’età che si trova a vivere. Non si tratta di un cambiamento di poco conto. Naturalmente dopo il mutamento della concezione internazionale, molti diritti nazionali hanno iniziato a riconoscere alcuni diritti propri dei minori – si pensi al diritto processuale minorile – ma, dato che in questo saggio, si va alla ricerca di un fondamento universale della pedagogia legale, si ritiene di analizzare brevemente il diritto internazionale, l’unico che ha una valenza generale. Per secoli il diritto internazionale ha riconosciuto solo gli Stati. Nel diritto internazionale classico lo spazio destinato agli individui era piuttosto limitato. Le relazioni internazionali erano tutte concentrate sugli Stati e per questo motivo l’individuo era considerato solo una proprietà dello Stato, che poteva decidere in piena libertà sul suo destino. Del resto anche nelle relazioni diplomatiche la popolazione era trattata alla stessa stregua di una cosa, rimanendo agli occhi dei diplomatici del tutto indifferente la volontà degli individui sui futuri assetti politici degli Stati. Il 10 - dicembre - 1948 a San Francisco venne firmata la Dichiarazione Universale dell’Uomo, mentre a Roma nel 1950 fu adottata dalla CEE un’analoga Dichiarazione. Non si trattò di un fatto di scarso rilievo, ma di una vera e propria rivoluzione Copernicana. L’individuo viene per la prima volta riconosciuto come uomo, dotato di diritti e doveri riconosciuti a livello internazionale. E’ vero che altre Dichiarazioni per i diritti dell’uomo furono approvate precedentemente, ma si trattava di pure enunciazioni di principio, firmate con la consapevolezza che non si trattava che di indirizzi non vincolanti. Dal 1948 in avanti, invece, gli Stati, anche a causa dei drammatici eventi appena superati dalle grandi potenze mondiali, firmano queste Dichiarazioni con la consapevolezza della loro vincolatività, anche se poi talvolta non le rispettano e la Comunità Internazionale non ha molti strumenti giuridici per imporne l’osservanza. Nonostante tutti i difetti è chiaro che il cambiamento è grande. La Dichiarazione assume caratteri molto differenti rispetto alle altre fonti del diritto. Nell’ordinamento internazionale gli obblighi e i diritti nascono soprattutto attraverso accordi, trattati o comunque atti sotto il controllo della volontà degli Stati. Si può, di conseguenza, affermare che fino al 1948 i diritti derivanti dalla comunità internazionale fossero piuttosto delle concessioni. Gli Stati per ragioni di varia natura concedevano agli stranieri, a minoranze etniche o a individui privilegi, diritti o immunità. I diritti espressi nella Dichiarazione, invece, sfuggono da questo schema. Essi appartengono all’individuo, in quanto individuo, il quale li può rivendicare, non perché un potere superiore glieli ha donati, ma perché lui è un essere esistente.

Per esempio la libertà di pensiero è completa solo se nasce dalla libera iniziativa di ciascuno secondo la propria condizione culturale. Se un’autorità potesse a proprio completo arbitrio dare o revocare questa libertà, si determinerebbe inevitabilmente un controllo sulle opinioni individuali e in ultima analisi una contrazione stessa di questa libertà. Perciò i diritti dell’uomo possono essere solo riconosciuti, ma mai concessi dalla Comunità Internazionale. In altre parole nel 1948 tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, hanno riconosciuto che esistono libertà e diritti, che non possono essere violati per nessuna ragione, nemmeno per superiori interessi nazionali. Questa concezione ha conseguenze importanti. Prima di tutto i diritti dell’uomo rientrano nel concetto di ius cogens. Di conseguenza un trattato internazionale che contenesse una disposizione contraria a un diritto umano sarebbe nullo ai sensi dell’art. 53 della Convenzione sui trattati internazionali di Vienna del 1967.

La sovranità dello Stato trova un evidente limite nella Dichiarazione Universale. Altra conseguenza è che il rispetto dei diritti dell’uomo non è subordinato al principio di reciprocità, tipico del diritto internazionale generale. Il fatto che un determinato Stato violi un diritto umano nei confronti di uno straniero (per esempio sottopone a tortura un carcerato), non esime lo Stato, di cui ha cittadinanza la vittima, di rispettare i diritti nei confronti di eventuali cittadini dello Stato responsabile della violazione presenti sul suo territorio. E’ evidente la ragione. I diritti dell’uomo appartengono all’individuo e non allo Stato. Gli Stati possono intervenire attraverso le vie diplomatiche o, nei casi più gravi, anche con sanzioni economiche e militari, principalmente per proteggere l’individuo, ma non proprie istanze. Un problema che ha fatto discutere la dottrina è se tra i diritti dell’uomo esiste una sorta di gerarchia. In questo modo vi sarebbero diritti che devono essere tutelati sempre, senza possibilità di deroghe o eccezioni. DUPUY, per esempio, cita come prova dell’esistenza di tale gerarchia l’art. 27 della Convenzione Americana dei diritti dell’uomo, il quale stabilisce l’esistenza di diritti “che devono essere rispettati in ogni modo e circostanza e che di conseguenza non sono suscettibili di alcuna deroga. [2]

L’articolo individua tra questi diritti, il diritto alla vita, il diritto a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti degradanti, il diritto a non essere ridotto a schiavitù. In realtà il fatto di aver introdotto l’intera Dichiarazione nella nozione di ius cogens, rende evidente che tutti i diritti enunciati godono del medesimo rango.

Un’evoluzione molto simile ha subito il diritto internazionale a riguardo dei bambini.  Già Il 20 – Novembre – 1959 le Nazioni Unite avevano adottato una  Dichiarazione Universale dei diritti del bambino, ma solo la successiva convenzione ONU del 20 Novembre 1989 fu ratificata anche dall’Italia il 2 – settembre – 1990 diventando perciò ordinamento giuridicamente vincolante. Dopo la convenzione il bambino acquista lo status di soggetto di diritto internazionale. Con ciò si intende affermare che il bambino da “non-adulto”, si trasforma in un’individualità ben distinta. Le conseguenze sono importanti.

Il bambino, avendo una propria soggettività, può agire in senso giuridico, vale a dire pretendere in forma pacifica e ragionevole di poter vivere lo spazio riconosciutogli. Per esempio il diritto ad avere una famiglia non è una libertà dei genitori, ma esattamente del bambino. Non sono solo i genitori che possono pretendere di avere dei figli, ma soprattutto sono i bambini che hanno il diritto di vivere in una famiglia. Questo diritto ribalta il punto di vista generale. Questa esigenza non va rapportata solo ed esclusivamente attraverso la sensibilità degli adulti-genitori, ma del bambino. E’ un tema molto spinoso. Oggi le donne-sigle rivendicano il loro inviolabile e “naturale” diritto ad essere madri, coppie omosessuali vorrebbero adottare bambini orfani.

Tutte queste richieste dimenticano l’art. 12 della Dichiarazione dei diritti del bambino. Spesso non viene riconosciuto il giusto spazio al punto di vista del bambino.

Che cosa pensa il bambino di tutte queste rivendicazioni? Qual è il punto di vista del bambino? Qual è il modello “naturale” di famiglia per un bambino? Non si tratta di una svista di poco conto. Mentre gli adulti discutono di questi argomenti, il bambino viene espropriato di un suo preciso diritto. Non solo ma gli esiti di queste discussioni determineranno la vita successiva di una persona in modo incisivo e irreparabile, senza offrire proprio all’interessato la possibilità di esprimere la sua opinione. Tuttavia l’errore più profondo di questo modo di agire è soprattutto derivato dal mancato riconoscimento sociale della soggettività internazionale del bambino. Il diritto alla famiglia, infatti, non è un diritto degli adulti, ma prevalentemente dei bambini. Di conseguenza tutte le idee degli adulti a questo proposito non possono che essere messe a confronto con quelle del bambino. In conclusione il fondamento giuridico della pedagogia legale deve essere cercato nel riconoscimento della soggettività internazionale del bambino. Il bambino è soggetto, il bambino ha dei diritti, il bambino ha una propria individualità, dunque, il bambino ha il diritto a ricevere un’educazione alla legalità. Quale potrà allora essere l’obiettivo della pedagogia legale? Rendere il bambino consapevole di essere una persona e offrigli degli strumenti culturali per permettergli di “costruirsi” la vita da adulto secondo le sue aspirazioni e abilità. Il paradigma della pedagogia legale non dovrà essere un “bambino contestatore, costantemente in conflitto con la società da cui è circondato”, ma piuttosto “un bambino consapevole delle proprie ragioni e di quelle degli altri.” Del resto un buon educatore alla legalità ha il difficile compito di insegnare il senso della ragionevolezza, la capacità di essere individuo in mezzo ad altri individui. Il diritto è ragionevole solo quando riesce ad abbandonare una cieca individualità ed approdare al sociale. E’ un compito tutt’altro che facile e comunque molto diverso da ciò che solitamente si intende per educazione alla legalità. Se vogliamo rifarci a un articolo della Costituzione italiana il pedagogista delle leggi dovrebbe avere in mente l’articolo 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili della solidarietà politica, economica e sociale.”), piuttosto del 3, primo comma (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”).      

Vediamo in dettaglio quali diritti introduce la Convenzione riguardo i diritti del bambino. Secondo la Convenzione è “bambino” “[…] ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile. (art. 1) Vi sono diverse categorie di diritti. Prima di tutto vi sono i diritti individuali:

1.      diritti del bambino singolo: uguaglianza (art. 2), vita (art. 6), identità (art.8), adozione o altre analoghi provvedimenti (art. 20 e 21), giusto processo (art. 40);

2.      diritti sociali del bambino: diritto alla cittadinanza (art. 7), ricongiungimento famigliare (art. 10), salute (art. 24);

3.      libertà pubbliche e private: opinione (art. 12), espressione (art. 13), pensiero (art. 14), associazione (art. 15), privacy (art. 16), gioco (art. 31);

4.      diritti economici e culturali: lavoro a condizioni eque (art. 32), diritto all’educazione (art. 18, 28 e 29), livello di vita adeguato (art. 27)

In secondo luogo vi sono i diritti collettivi.  Art 30 e 38 Si tratta di un tipo di diritti molto differente dal precedente. In particolare sono stati riconosciuti grazie alle “pressioni” dei paesi socialisti e dei paesi in via di sviluppo. I diritti dell’uomo sono nati per valorizzare l’individuo, ma si tratta di un individuo solo, quasi del tutto separato dalla società. I diritti collettivi tentano, invece, di mettere in relazione il singolo con i gruppi, in seno a cui è inserito. Non si tratta di diritti di facile individuazione, perché il loro riconoscimento dipende dalle condizioni della società in cui vengono riconosciuti e rispettati. A titolo di esempio si pensi all’art. 30 (Riconoscimento delle minoranze e libera espressione di forme culturali minoritarie anche da parte dei bambini) e ancora all’art. 38 (il diritto di non partecipare ai conflitti armati).

Una categoria molto controversa è costituita dai diritti di solidarietà. Si pensi al diritto di protezione per i disabili (art. 23). Non tutti i giuristi ritengono che esista un obbligo alla solidarietà internazionale. Se gli Stati pongono in essere azioni di aiuto a beneficio di altri Stati, si adeguano a una norma etica, ma non giuridica.

Una parte della dottrina più attenta ritiene di ravvedere non tanto una norma giuridica alla solidarietà, quanto una serie molto eterogenea di norme, che obbligano gli Stati al reciproco aiuto. Basti pensare al diritto all’autodeterminazione dei popoli previsto negli artt. 1 e 3 della Carta delle Nazioni Unite, al diritto alla pace, al diritto alla proprietà sul patrimonio comune dell’umanità e soprattutto al diritto all’integrazione sociale. Del resto l’art. 10 della Carta delle Nazioni Unite prevede l’obbligo alla cooperazione internazionale, un obbligo che potrebbe essere inserito chiaramente nel concetto di solidarietà. L’articolo citato sancisce l’obbligo di cooperazione internazionale per i fini delle Nazioni Unite. Di conseguenza anche per lo sviluppo e i diritti del bambino.

Perché la convenzione sui diritti del fanciullo dovrebbe essere presa come paradigma della pedagogia legale? La risposta si trova analizzando più approfonditamente l’art. 12 della Convenzione, secondo cui ciascun bambino ha il diritto di esprimere il proprio punto di vista. L’articolo fornisce una risposta a coloro che accusano il testo di essere troppo generico e di aver introdotto diritti tanto ampi da diluirne la portata semantica.. Questi dubbi sono giusti, se la convenzione non fosse seguita da una costante formazione legale indirizzata a chi dovrà renderli effettivi. Sarebbe, infatti, una profonda distorsione se a fissare il contenuto degli articoli fossero solo gli adulti. Sono i bambini che dovrebbero stabilire, insieme agli adulti, cosa si intende per “livello di vita adeguato”, cosa è “crudeltà” e così via. Perciò le agenzie educative devono diventare luoghi di scambio di idee tra adulto e bambino sui diritti che non possono non essere per i bambini e interpretati dai bambini. E’ evidente che è necessario fornire a questo approccio ottima esperienza pedagogica. Il bambino  La Convenzione, perciò, ha il merito di riconoscere il bambino come “persona giuridica”, capace di avere dei bisogni, dei pensieri, in una parola di un soggetto che esiste e agisce nella comunità.

Tuttavia nessun diritto, nemmeno il più generico, può sopravvivere e svilupparsi senza che siano continuamente richiamati da chi direttamente ne usufruisce. La Raccomandazione n.1286 del Consiglio d'Europa mira a fare dei diritti del bambino una priorità nazionale:

- adottare a livello nazionale e locale  una politica attiva per l'infanzia in modo da ottenere la piena applicazione della Convenzione e che consideri il miglior interesse del bambino un principio guida di tutte le azioni;

- rendere il bambino più visibile attraverso la raccolta sistematica di informazioni, dettagliate per genere ed età, di statistiche comparabili, con le quali rendere possibile l'identificazione dei loro bisogni e le questioni che richiedono priorità nell'azione politica;

- adottare un approccio globale, incisivo e coordinato che incoraggi la realizzazione di strutture multidisciplinari e la creazione di coalizioni nazionali;

- nominare un difensore dell'infanzia o altra struttura, cui sia data garanzia di indipendenza e le responsabilità per migliorare e promuovere la vita e le condizioni dei bambini, che sia accessibile al pubblico anche attraverso la creazione di uffici locali;

- assicurare, specialmente a livello di decisione politica, che l'interesse ed i bisogni dei bambini siano adeguatamente considerati, introducendo metodi quali la valutazione del child impact statement, che offre il mezzo per determinare il probabile impatto sui bambini di ogni proposta legislativa, regolamento e di ogni altra misura adottata;

- investire sui bambini e dar loro priorità di bilancio, destinando risorse adeguate anche in relazione a quelle destinate ad altre fasce di popolazione e ciò sia a livello nazionale che regionale e locale;

- garantire il coinvolgimento delle diverse organizzazioni nazionali ed internazionali che operano nella cura dell'infanzia.

Tutti gli stati d’Europa si stanno adeguando a questa raccomandazione. Ancora molta strada deve essere percorsa, non solo perché i diritti dei bambini vengano riconosciuti, ma anche per dare a questo corpo di diritti una vera completezza e unitarietà.

Un altro tema spinoso, che non è stato affrontato dal diritto internazionale è lo sfruttamento del lavoro minorile. L’educazione alla legalità dovrà anche infondere il dovere di andare a scuola piuttosto che accettare il lavoro in età troppo precoce. La Costituzione originaria dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (abbr. OIL) scaturiva dalla Parte XIII del Trattato di Versailles, concluso nel 1919. La sezione II sui Principi generali (articolo 427) conteneva l’articolo 41 della Costituzione originaria (emendata nel 1946) fondato sul principio che il lavoro non è una merce. Esso prescriveva che venisse data “particolare ed urgente” importanza ad un certo numero di metodi e principi, tra cui in evidenza:

L’abolizione del lavoro minorile e l’imposizione di limitazioni al lavoro degli adolescenti tali da permettere la loro frequenza scolastica e garantire il loro normale sviluppo fisico.

Fino ad oggi l’OIL ha adottato ben 11 Convenzioni sull’età minima. La più completa è la Convenzione sull’età minima del 1973 (No. 138). Essa definisce i criteri internazionali generalmente applicabili ed è considerata la “Convenzione fondamentale” per quel che riguarda il lavoro minorile. Solo negli anni novanta si è sentita l’urgenza di dotare il diritto internazionale di strumenti più efficaci. L’espansione del turismo sessuale  è servito soltanto ad accrescere l’indignazione del pubblico per lo sfruttamento sessuale dei ragazzi a fini commerciali. Infine, anche l’istituzione e l’espansione del Programma internazionale dell’OIL per l’eliminazione del lavoro minorile ha avuto un effetto decisivo nella mobilitazione. Nel giugno 1996, un riunione ministeriale informale tenutasi durante la Conferenza internazionale del lavoro scelse il lavoro minorile come tema da mettere all’ordine del giorno. Il crescente consenso su questo problema portò all’adozione unanime di una risoluzione della Conferenza sul lavoro minorile.

Lo scopo della risoluzione è enunciato nel preambolo che sottolinea:

“[…] la comune responsabilità dei governi, dei datori di lavori, dei lavoratori e delle loro organizzazioni e della società tutta a lavorare per la graduale eliminazione del lavoro minorile. Sottolineando, in questo contesto, il bisogno di procedere immediatamente all’abolizione dei suoi aspetti più intollerabili, in particolare l’impiego di bambini in condizioni di schiavitù o simili, e in occupazioni pericolose e nocive, lo sfruttamento di bambini giovanissimi e lo sfruttamento sessuale dei ragazzi a fini commerciali […]

L’obiettivo è chiaro. L’OIL vuole portare a una graduale eliminazione di ogni tipo di lavoro minorile e all’abolizione immediata dei suoi aspetti più intollerabili.

Il diritto internazionale deve svilupparsi molto di più di quanto ha proceduto fino ad oggi, ma è certo che ora, almeno a livello ideale, il mondo è molto più vicino al bambino. Zavattini nota che di tutti i diritti, ne manca uno, il più importante, ovvero il diritto a conoscere la verità. In questi termini si esprime il regista: “Nell’elenco ufficiale dei diritti dei fanciulli, che sarebbero dieci, manca proprio quello più importante, così importante che la sua mancanza rende gli altri retorici: cioè il diritto di conoscere la verità. Non la verità metafisica, ma quella storica, che scaturisce dai fatti in mezzo ai quali il fanciullo oggi compie la sua esperienza, talvolta interrotta dalla fame, dalle malattie, da una bomba. […] la generazione che detiene il comando non ha il genio, il coraggio, la generosità di fornire ai propri figli gli strumenti elementare per operare un processo critico realistico, temendo di essere scalzata dal potere, di perdere il prestigio. Priva di un vero senso di responsabilità offre ai figli dei libri di testo che non lasciano mai trapelare che la vita corrente è essa stessa storia, e una storia tremenda [...] Basterebbe un piccolo libro di testo, scritto tra una decina di uomini come U. Thant, Sartre, Russell, per demistificare la cultura scolastica e portarla nel mezzo delle cose preparando dei giovani che lavorino deliberatamente contro di noi là dove sia necessario. Chi se non l’O.N.U. potrebbe confezionare questo piccolo libro di testo, questo sillabario dell’uomo tradotto in tutte le lingue, in cui tra l’altro si elenchi che cosa dice di volere l’uomo moderno e che cosa invece fa?” [3] Zavattini vorrebbe in altre parole una scuola che prepari alla responsabilità o meglio all’impegno sociale. Allora cosa dovrebbe “raccontare” un libro dedicato all’educazione alla legalità? Questo tema verrà approfondito in un prossimo saggio, ma si possono anticipare alcune riflessioni. Anche la nuova convenzione dei diritti del fanciullo enuncia una serie di diritti. Ora la categoria del “diritto” può essere letta o in senso individualista o più propriamente collettivo. Se la pedagogia legale deve essere un’educazione alla coesione sociale, è evidente che solo il secondo significato soddisfa pienamente questo obiettivo. Prendiamo come esempio il diritto al gioco, quello più intrisecamente legato al mondo dell’infanzia. Un educatore che spiega questo diritto ad una classe può limitarsi a dire che tutti i bambini hanno il diritto al gioco. Naturalmente si possono usare molti metodi, la lezione o l’attività pratica (disegni etc.), ma il contenuto non cambia. Il bambino o ancor di più un adolescente percepisce il mondo del giuridico, come lo spazio delle rivendicazioni, della prepotenza (se ho un diritto, lo devo ottenere a qualsiasi costo!) e, in ultima analisi, della violenza. Si crea così un paradosso.

Quell’educazione che avrebbe dovuto unire le componenti sociali, si fa strumento di divisioni e liti interne, che a lungo termine porteranno alla disgregazione del gruppo, in seno a cui sono nate. Lo sforzo dell’educatore dovrà allora dirigersi verso un’altra direzione. L’educatore dovrà iniziare a parlare del diritto al gioco negato. In ogni classe per varie ragioni sono presenti bambini più emarginati di altri (timidi, disabili etc.). Questo può essere un buon punto di partenza. Si dimostra che non tutti beneficiano allo stesso modo di questa “gioia”, sebbene il testo dell’articolo introduca la parola “Tutti i bambini”. In questo modo si introduce il fanciullo all’aspetto problematico del diritto, quando cioè non viene rispettato. E’ importante che l’educazione faccia interiorizzare nel bambino l’idea che non significa nulla la circostanza che lui individuo possa ogni giorno giocare liberamente, se ad altri questa libertà viene negata magari a causa della propria indifferenza. Il diritto al gioco è rispettato, quando tutti insieme cerchiamo di fare il possibile, affinché, almeno in seno alla comunità scolastica, dove si vive, il diritto è rispettato. Si potrà così insegnare al bambino ad invitare altri bambini a partecipare ai propri giochi. Il discorso si potrà così ampliare. Dalle micro si passerà alle macro problematiche del diritto al gioco. E’ evidente che i bambini avranno anche il diritto di avere spazi dove poter giocare. Nella propria città vi sono parchi , cortili ampi, dove esprimere la creatività dei bambini? Solitamente le nostre città, dove l’urbanizzazione selvaggia impedisce sempre più ai bambini di giocare. Torniamo così ancora alla capacità di proporre una petizione.

Lo schema sarà: esiste un diritto, il diritto è negato o gravemente impedito, si chiede a chi esercita il potere (il Sindaco, per esempio) che si impegni a rimuovere gli ostacoli che impediscono l’esercizio di un diritto. La petizione deve essere vissuta – grazie soprattutto alla sensibilità dell’educatore –  non come una rivendicazione, ma addirittura come un obbligo sociale. I bambini cioè devono vedere in quella richiesta lo strumento per creare una società migliore, fondata sempre più sui diritti. Dopo questa fase si può passare a considerare i grandi problemi del mondo. Nei paesi dove c’è la guerra, i bambini possono giocare?  Si tratta di un modo per evitare che i grandi problemi siano vissuti come ineluttabili. Infatti: “Di qui il senso della responsabilizzazione dei bambini in tutti i sensi, voluta da Zavattini; di qui la “concretezza” delle sue proposte: i bambini in televisione, a teatro, alla radio; un film fatto tutto di bambini; i bambini corrispondenti privilegiati delle “sue” lettere; tutto un paese nelle mani dei bambini; la vita stessa rinnovata con il contributo essenziale dei bambini, o, meglio, garantita dal fatto che possano crescere adulti che, una volta informati del fatto che c’è la guerra, non si limitino fatalisticamente a rispondere: <<Ah, c’è la guerra!>>” [4]

Ecco perché l’educazione alla legalità può diventare educazione alla verità storica, secondo il concetto di Zavattini. Introducendo il discorso dei diritti negati si presenta al bambino il mondo per ciò che è nella sua nudità e talvolta crudezza. L’educazione deve, però, offrire una speranza, un veicolo per superare questo volto oscuro della realtà storica. La via ragionevole – l’unica possibile – per superare questa realtà è proprio il diritto, partendo paradossalmente dalla negazione del diritto. Tutti possono aprire i testi delle grandi Dichiarazioni dei diritti dell’uomo, della Costituzione e sapere che esistono determinate libertà e obblighi individuali. Più difficile scoprire nella storia le violazioni a queste libertà e suscitare il desiderio di renderli effettivi.  Questa negazione visibile attraverso il compagno escluso dal gruppo, le città industrializzate e via via la guerra – negazione assoluta di ogni istanza sociale e conseguentemente di ogni diritto – deve suscitare l’impegno sociale, il desiderio di fare qualcosa. Non solo ma, se il processo educativo alla legalità avrà avuto successo, deve aver lasciato nel bambino la consapevolezza che si può fare qualcosa, affinché il “mio” diritto diventi il “nostro” diritto. Questo qualcosa inoltre non è in mano solo ai “potenti”, ma a tutti coloro che sanno indignarsi davanti al diritto negato. Il passaggio logico del concetto di “diritto” sul piano educativo dovrebbe essere chiaro. Infatti con questo approccio il diritto non è più un bene individuale, ma sociale. Il diritto al gioco non è proprio del singolo bambino – anche se ne è il diretto beneficiario – ma piuttosto un mezzo di benessere sociale. L’educazione alla legalità allora non è insegnamento di diritti personali, ma di solidarietà.  Sarebbe assurdo far credere al bambino che i propri diritti sono soddisfatti quando lui ne può usufruire. La verità storica del diritto si verifica solo quando il diritto è davvero effettivo. Seguendo questa procedura la pretesa dell’effettività del diritto non è singolare, ma passa attraverso la società. Nello stesso tempo l’educazione alla legalità diventa educazione alla solidarietà. Grazie a questi temi si può proprio dai diritti dei bambini negati iniziare a garantire uno spazio maggiore ai bambini. La presenza dei bambini a teatro, nella radio, in televisione può diventare occasione per spiegare agli adulti il mondo dei bambini attraverso gli occhi dei bambini. In questo modo si armonizzano educazione legale, alla solidarietà e all’impegno sociale.                   

 



[1]  AAVV, Fondamenti di pedagogia e di didattica, Laterza, 1997, pp. 112 ss.

[2] Dupuy P. M., Droit international public, Dalloz, 1995;

[3]  Il passo è stato tratto da: Siciliani de Cumis N., Zavattini e i bambini, l’improvviso, il sacro e il profano, Argo, 1999, p. 68 ss.

[4]  Siciliani de Cumis N. op. ult. cit., p. 69.

   

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