La Mediazione PedagogicaLiber Liber

Il brusio dell’essere-pedagogico.Riflessioni in merito alla filosofia dell’educazione.
di  Gianluca Giachery

2. Educare nell’esperienza.

Alcune riflessioni, che fanno parte del mio percorso di educatore, hanno segnato in modo decisivo la possibilità di cogliere quello che credo sia uno dei cardini dell’agire educativo.

Mi riferisco alla necessità, da un lato, di assumere continuamente un atteggiamento critico nei confronti della rigidità di pensiero propria di alcune categorie professionali saldamente ancorate nelle proprie certezze; d’altra parte, ho sempre ritenuto (ma con gli anni tale pensiero è andato maturando) che la professione dell’educatore sia un’arte [6] e, come tale, sia continuamente in fieri.

Ciò non toglie, naturalmente, che bisogna dotarsi di strumenti e metodologie che hanno nella fenomenologia un valido sostegno, senza trascurare alcuni aspetti del metacognitivismo e dell’epistemologia, che paiono altrettanto validi per la comprensione dei processi di interrelazionalità.

La comunicazione con l’Altro non è mai un’azione separata, un fatto in sé che una volta avvenuto cada nell’oblio del ricordo. E’ qualcosa di vivo e sempre presente.

Essere educatore e apprendere nella pratica fenomenologica insegna a guardare con sospetto a quelle metodologie prescrittive e di tipo comportamentistico che relegano la creatività e l’autonomia dell’individuo in secondo piano in nome della necessità di assumere entro sé alcuni dettami di base che paiono indiscutibili.

Al contrario, credo che una scienza pedagogica non possa non fondarsi sulla relazionalità e sulla possibilità di comprendere l’individuo nella sua dimensione metamorfica e – come ha affermato D. Demetrio – «metabletica.» [7]

Lavorando con pazienti psichiatrici, alcuni dei quali molto gravi, è stato possibile far proprie e sperimentare le diverse fasi del lavoro educativo delineate da D. Demetrio:
  1) l’intersoggettività;
  2) la proiezione verso il divenire;
  3) la funzionalità;
  4) la dimensione inconscia;
  5) la progettualità;
  6) la dimensione pragmatica. [8]

Pericoloso è, a mio avviso e per la mia esperienza, separare questi aspetti, poiché sono intimamente connessi sia come bagaglio personale proprio della persona che ci sta di fronte (molte volte un bagaglio da scoprire, pieno di potenzialità), sia come nostra ricchezza che portiamo nella prossimità dell’Altro, quando ci accostiamo alla sua sofferenza e al suo bisogno di essere-nel-mondo.

In tal senso, l’educatore è colui che è costantemente a contatto con i propri sentimenti e la propria emozionalità, costretto com’è a modulare il proprio sguardo, la gestualità, la mimica facciale, il modo stesso con cui ci si approccia all’altro.[9]

C’era un paziente che mi aveva definito un «clown buono» [10], per la modalità con cui solevo dirigermi verso di lui, cantando e manifestando così la mia vicinanza alla sua persona, con un atteggiamento, tuttavia, che solo con lui sapevo di poter attivare.

L’immagine data da questo paziente rende efficacemente la nostra dimensione educativa, la metafora che noi siamo. Noi tutti siamo un po’ «clown» di professione o, come direbbe D. Demetrio [11], dei «creoli», degli «ibridi» pronti a trasformarsi lasciando uscire il puer che noi siamo, quella sorta di Mercurio alato che alchemicamente è messaggero del cambiamento.[12]

Questo aspetto creativo ha segnato un passaggio storico nella considerazione dell’essere educatore, il superamento di una soglia oltre cui la dimensione del gioco è anche considerata di fondamentale importanza e in tutta la sua serietà, poiché chi non riesce a giocare è privo di sogni e immagini creative.

Richiamandomi più esplicitamente alla psicoanalisi, alla psicoterapia, sosterrò che è assolutamente necessario essere consapevoli di tutto il carico di emozionalità che ci viene affidato dalle persone cui diamo ascolto o che abbiamo accanto nella relazione d’aiuto. Dico ciò poiché comunemente si ritiene che è educatore colui che si occupa esclusivamente di un aspetto riabilitativo, mentre la cura vera e propria è affidata ad altre figure (medici, psicologi ecc.).

La fenomenologia ha nuovamente accostato la nostra tradizione occidentale al termine cura, ormai sepolto sotto stratificazioni di tecnicismi linguistici e biologici.

D’altra parte, la psicoanalisi e le psicoterapie di diverso orientamento hanno inevitabilmente legato la propria attività a questo essere-per-la-cura dell’Altro, in una dimensione più soggettiva ed ermeneutica, capace di cogliere diversi aspetti della profondità dell’individuo e della sua capacità a relazionarsi con l’Altro da sé.[13]

E’ possibile per l’educatore parlare di «cura»?

La pratica clinica pedagogica con pazienti molto disturbati mi ha messo di fronte a un confine molto labile, quello tra cura e riabilitazione. In tal senso, è stato per me motivo di ulteriore valorizzazione confrontarmi con gli scritti di R. Massa[14] in merito alla «clinica della formazione», inerente cioè lo specifico lavoro dell’educatore a contatto con situazioni istituzionali forti e con équipes di lavoro multiprofessionali.

Scrive R. Massa: «..l’ipotesi di una clinica della formazione è proprio quella di andare a scoprire, sotto il registro progettuale della formazione in senso tecnico e intenzionale, il registro latente delle fenomenologie esistenziali, dei modelli di comprensione, delle dinamiche affettive e dei dispositivi di elaborazione che soggiacciono a esso, che istituiscono i termini stessi della sua praticabilità e della sua efficacia.»[15]

Questo lavoro di interdisciplinarietà non può che essere svolto su livelli diversi, che convergano, tuttavia, su quell’autocomprensione del soggetto che si dà una possibilità di cura.

Noi siamo quotidianamente a contatto con persone a cui, nella relazione d’aiuto, diamo ascolto. Un ascolto che è educativo nella misura in cui dà all’altro la possibilità di una trasformazione, anche nel dolore e nella sofferenza.

In quanto soggetto che si pone a contatto con l’Altro, non sono semplicemente colui che riceve le sue parole, che possono essere modulate su differenti registri emotivi.

Sono il soggetto che in quello specifico momento è intimo compartecipe della richiesta altrui di essere presenza. Anche questa è cura.

Vorrei rinviare ad un articolo di C. Castelfranchi [16], che accomuna due termini a noi molto vicini: riabilitazione e speranza. Egli sostiene che in un approccio non medico, il concetto e la pratica della riabilitazione sono necessariamente cura, poiché questo fare rompe (epistemologicamente) con il concetto tradizionale di cura. Questo approccio «..capovolge il cliché tradizionale della cura di ciò che è la follia, che è una cura di parole: è un approccio che non si basa esclusivamente o prevalentemente sulle parole e sui simboli, e che dice che quindi il problema non è semplicemente un problema simbolico.»[17]

Vi sono tutta una serie di fattori che concorrono alla comprensione dell’essere come soggetto che è nella dimensione della Cura (die Sorge)[18]: è in questa dimensione che il nostro intervento diviene agire e fare educativo nella misura in cui siamo noi stessi i portatori di una speranza pedagogicamente fondata.[19]

 


[6] Rinvio all’originarietà del senso greco di tale termine, dove arte è poieusi, ossia creazione.

[7] D. Demetrio, Educatori di professione, Milano, La Nuova Italia, 1990, pp. 49-55.

[8] Ibidem, pp. 44-45.

[9] Per comprendere questi aspetti è fondamentale indagare continuamente i sentimenti che ci mostrano il nostro manifestarci all’Altro e come questi si ponga nei nostri confronti. Utili mi paiono le definizioni di transfert e controtransfert per designare anche pedagogicamente le istanze che affettivamente l’Altro ci porta e l’investimento verso di noi. Si veda, in proposito, L. Longhin, La supervisione: origini, significato e funzione, in G. Scaratti, O. Fusè, A. Bertani, (a cura di), La supervisione dell’educatore professionale. Per una identità nel lavoro, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 91-107.

[10] Mi piace rinviare a un’immagine di Paul Klee, «Il clown», recentemente esposta a Torino, ad una mostra dedicata al pittore.

[11] Comunicazione fatta da D. Demetrio al Convegno «Educare stanca?», organizzato dalla rivista Encyclopaideia e Paideutika il 28 Ottobre 2000 a Torino.

[12] J. Hillman, Saggi sul puer, trad. it. Milano, Raffaello Cortina Editore, 1988.

[13] Naturalmente, vasta è la produzione legata a questo tema, specie se la si lega a nomi quali D.W. Winnicott, Masud R. Khan, S. Resnik, J. Hillman, per poi passare a terapeuti più vicini ad un orientamento fenomenologico o antropoanalitico, F. Basaglia, E. Borgna, U. Galimberti, M. Trevi. Un elenco, questo, come si diceva, che vuole solo far intravedere l’ampiezza della riflessione a questo aspetto dedicata.

[14] R. Massa, Dalla scienza pedagogica alla clinica della formazione, in Istituzioni di pedagogia e scienze dell’educazione, Bari, Laterza, 1990, pp. 561-593.

[15] Ibidem, p. 583.

[16] C. Castelfranchi, Riabilitazione come pedagogia del potere, in F. Coffinardi (a cura di), La riabilitazione della psichiatria, Métis, Lanciano, 1993, pp. 53-78.

[17] Ibidem, p. 55.

[18] M. Heidegger, Essere e Tempo, trad. it. Milano, Longanesi, 1976. Il concetto di Cura percorre l’intera opera di M. Heidegger. Egli la ritiene il motivo fondante che permette all’Esserci (cioè, l’uomo) di ritrovarsi dopo aver percorso l’oscurità originaria (ed inevitabile) dell’angoscia (cfr. p. 227 e segg.).

 

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