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Il brusio dellessere-pedagogico.Riflessioni in merito alla
filosofia delleducazione.
di Gianluca Giachery |
4. La pedagogia è una «scienza rigorosa»?
Il
punto interrogativo vuole essere una provocazione, poiché E. Husserl riteneva essere le
scienze rigorosamente fondate quelle che, staccandosi da un naturalismo positivistico,
tornino a vedere lindividuo nella sua dimensione di soggetto-che-apre-al-mondo della
relazionalità.[32]
Alla
schiera delle scienze naturalistiche, Husserl accodava anche quella particolare psicologia
(in voga ai suoi tempi e mai del tutto tramontata) che considera lindividuo un
«oggetto» di studio, da osservare e catalogare in modo empirico.[33]
Assertivamente
è possibile sostenere che la pedagogia sia una scienza solo se, a mio avviso, la si
considera nella sua specifica dimensione di rottura (coupure) rispetto a un passato
che è continuum, che cioè non ricerca più le ragioni del proprio indagare come
scienza.
La
scienza, dunque, ricerca i temi che hanno creato la discontinuità tra il passato e il
presente nei sistemi di pensiero, nella conoscenza, quelle che T.S. Kuhn definisce
«rivoluzioni scientifiche» e G. Bachelard, appunto, «rotture.» [34]
La
teoria delle rivoluzioni di T.S. Kuhn interessa allambito pedagogico nella misura in
cui sintenda il cambiamento come una rivoluzione che rompa con lessere
preordinato che non si misura con alcuna conflittualità.
T.S.
Kuhn sostiene che si possono considerare rivoluzioni scientifiche «quegli episodi di
sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito, completamente o in
parte, da uno nuovo, incompatibile con quello.»[35]
Questa
visione della scienza credo sia intimamente connessa con ciò che noi sperimentiamo
quotidianamente nellagire educativo. Per questo ho volutamente richiamato il
processo di cambiamento come fenomenologicamente paradigmatico di una rivoluzione
individuale.
Le
mie personali riflessioni, supportate da tutta una letteratura che spazia in diversi campi
dei sistemi di pensiero intesi epistemologicamente, mi hanno portato a supporre che
lindividuo non proceda per continuità ma per discontinuità. Non cioè come se la
propria vita si costruisca mattone su mattone e linearmente (come si poteva supporre) ma
per salti.
Che
lindividuo faccia esperienza del passato non significa che egli necessariamente
debba soccombere ad una memoria che il più delle volte può rivelarsi nociva.
Lesperienza non è fissità. Essa è ciò che ci rende partecipi del
mondo-della-Vita e di quello (altrettanto importante) delle affettività. Essa rimanda
sempre a nuove vie che introducono nella nostra esistenza la traccia ulteriore
dellintersoggettività. E, come ha affermato H.G. Gadamer, una verità che
«contiene sempre un riferimento a nuove esperienze.»[36]
Così
come per le rivoluzioni scientifiche, che non rinnegano affatto il proprio passato ma lo
utilizzano per rompere limmobilità cui relega il già-avvenuto, lindividuo
che agisce pedagogicamente rompe con lidea di essere avvinghiato ad una dimensione
costrittiva di solipsismo. Egli si rende partecipe di un avvenimento che è apertura
dellessere alla possibilità.
La
metafora della casa è spesso legata allimmagine che si ha dellindividuo.
Solitamente lindividuo maturo è colui che ha costruito una casa interiore
sufficientemente buona o, per lo meno, capace di reggere in modo adeguato alle intemperie
della vita sia interne sia esterne.
Se
tuttavia pensiamo allindividuo come ad un essere creativo che cerca non di
compattare ma di lasciar fluire (nella loro dimensione esperienziale) il caos delle
emozioni, dei desideri, delle frustrazioni, delle mancanze e dei dissidi, ci rendiamo
conto che noi (è vero) progettiamo immagini e piani continuamente, ma che questi non
hanno una definitiva ed immotile stabilità, non sono conquiste acquisite per sempre,
poiché quando si parla di scienza (e la pedagogia si situa in questa sfera) la
definizione (rassicurante ma vuota) «per sempre» non esiste.
Il
senso dellagire educativo è, allora, unicamente una questione di interpretazione
dellAltro? Non solo, anche se partiamo da unistanza che è immancabilmente
ermeneutica.
La
necessità, insita a questo livello, di richiamarsi al paradigma epistemologico rientra a
pieno titolo nel discorso fenomenico iniziato: sgomberare il campo dalle facili tentazioni
di vedere la pedagogia come scienza accodata o, peggio, surrogata alle sorelle
maggiori ci porta a credere che vi sia un limite da porre. Un limite per tutti
coloro che reputano leducazione semplicemente una tecnica.
Senza
nulla togliere allorigine di tale termine, e consapevoli, anzi, dellimportanza
delle tecniche pedagogiche, riteniamo più opportuno credere che la pedagogia sia una
scienza creativa, capace di indagare a fondo lagire umano e il suo essere attraverso
la relazionalità.
Afferma
P. Malavasi: «Lidea è che un impianto epistemologico in condizione di essere
continuamente ridiscusso e regolato, ad assetto possibile, in divenire e non
definitivo, sia coerente con la problematicità del complesso e ad un tempo con la
ermeneutica fenomenologica.» [37]
In Le
parole e le cose [38],
M. Foucault propone alcune figure che rappresentano lo strutturarsi dei sistemi di
pensiero e dei loro propri statuti. Il libro inizia con la citazione di un racconto di
J.L. Borges sulla designazione, sulla capacità umana di dare nomi diversi a immagini
diverse.
Noi
sappiamo quanto la metafora borgesiana ci abbia illuminato sulle strategie linguistiche
che ognuno di noi può adottare per rimanere in un territorio di assoluto anonimato,
oppure scoprirsi partecipe della propria esistenza e di quella altrui (almeno nella misura
in cui lAltro è partecipe della nostra).
In
questo modo, M. Foucault attua una sorta di regionalizzazione [39] dei sistemi di pensiero, consegnando ad una
particolare funzione discorsiva il sapere di ogni singola scienza. Egli sembra aver
rivoltato lassunto cartesiano: non più una questione di metodo bensì una questione
di linguaggi.
Ciò
è vero nella misura in cui luomo si comprende non come oggetto ma come
soggetto-che-si-apre al mondo.
La
pedagogia, intesa come filosofia delleducazione, si pone come tramite di un evento
che non è in antitesi al discorsivo e allessere, poiché tesse fenomenicamente i
risvolti che caratterizzano lessenza stessa del nostro lavoro, la trama sottile che
R. Barthes definiva il «brusio della lingua.»
Utilizzando
questa metafora, possiamo affermare che esiste un «brusio» dellessere che si
manifesta quotidianamente nellagire educativo e che cerca di dare fisionomia (occhi,
volto, parola) al soggetto che ci sta di fronte, di rispecchiarci nella sua instancabile
ricerca di identità.
Nella
relazione daiuto questo processo è definito «dialogicità.» Esso è un movimento
che non si riduce nella necessità hegeliana di rinvenire ad ogni costo una sintesi dei
discorsi. Rimane lidentità: lIo-Tu non è mai una simbiosi ma una differenza.
Il
nostro linguaggio, allora, si fa chiaro nel momento in cui riusciamo a dire
allAltro: Io sono-Tu sei, dandogli (e dandoci) quel senso dellesistenza che
egli sembrava aver perso nel brusio di uninfinità di lingue.
Un
piccolo riconoscimento, forse, che ci permette di poter condividere la ricchezza che è il
dono dellAltro.
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